Vasco secondo me

3 Febbraio 2024

Il libro di Enrico Minardi è una piccola rivoluzione degenere. L’autore applica categorie di filosofia teoretica alla musica rock conferendole la profondità metafisica e lo spessore sociologico che merita, alla luce dell’impatto avuto sul mondo, giovanile e non solo, dagli anni 60 fino ai nostri giorni. Minardi non si limita alla costruzione storica dei vari significati che tale musica possa aver avuto; egli intesse un dialogo immaginario fra i suoni delle canzoni e i testi, elaborando una serie di prospettive fondate nel contesto storico degli anni del cosiddetto riflusso, ovvero il ritorno dei giovani a valori piu tradizionali rispetto a quelli della generazione precedente, e il generale ridimensionamento di speranze utopiche di cambiamenti sociali e politici. 

Di rivoluzionario, il tentativo di Minardi, ha molte cose: in primis, l’approccio personale e politico a un tema che inquadra, in primo luogo, a partire da categorie estetiche mutuate dalle teorie di filosofi come Deleuze e Spinoza. Minardi decide di fare un esperimento quasi hegeliano cominciando però dall’analisi dell’oggetto: nella prima parte descrive la musica rock a partire da teorie estetiche e politiche, nella seconda parte utilizza sé stesso come soggetto psicanalitico che assorbe e consuma la musica rock, mentre nell’ultima parte, giunge – per mezzo di una riflessione sul significato e la funzione dei riff nella musica rock – ad una sintesi molto interessante, quella del corpo-musica. 

Vale la pena di soffermarsi sulla teoria del riff presentata da Minardi. Il corpo-musica è un binomio che si riferisce al corpo del giovane che desidera esprimere sé stesso, e alla musica in quanto sia mezzo che fine di tale espressione. Il riff è quella melodia che sigilla e apre il corpo all’interno del wall of sounds, una serie di suoni che ripetendosi e affastellandosi creano un effetto di superficie che è insieme prigione e campo aperto, stanza e stadio; un meta-universo in cui il mondo e gli altri sono naturalmente inclusi pur giocando un ruolo di contorno, quasi di sottofondo per l’ego dell’ascoltatore-protagonista che riconosce la sua identità mimetizzandosi in quell’esplosione atomica di affetti che è il riff. 

Si tratta di una rivoluzione degenere, vale a dire che il testo vede l’accavallarsi una serie differente di generi. La prima parte, teorica, analizza opere filosofiche di natura eterogenea, dall’estetica, alla metafisica, alla politica, in modo da rispondere all’anelito di completezza dell’autore, il quale desiderare fugare qualsiasi dubbio a proposito del valore di una ricerca accademica sul rock. La seconda parte introduce invece il viaggio giovanile dell’autore stesso alla scoperta del rock e di Vasco Rossi a partire da categorie psicologiche ed esistenziali. Il valore dell’espressione di sé stessi pare essere l’architrave che sorregge tale sfinita – a tratti paranoica – ricerca di profondità e verità interiore. Sono tante le possibili ipotesi che rivolgendosi verso il proprio passato l’autore elabora per capire l’origine tale esigenza espressiva.

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Non si giunge ad una conclusione perfettamente convincente. È come se l’espressione di sé fosse l’atomo affettivo dal quale comincia la nostra esperienza di vita e verso la quale sempre ritorna. Nel mezzo di tale viaggio esistenziale, l’autore analizza anche la questione del passaggio da una classe sociale ad un’altra, superiore, e il significato ottundente e svilente che può assumere doversi adeguare a standard sociali di rigidità e pompa altolocata quando non ci appartengono completamente. In controluce si possono leggere i dogmi della provincia italiana, fanaticamente attaccata ad una visione miope di divisione assoluta fra cultura alta e bassa, fra Dante e Vasco, Petrarca e i Kiss, Boccaccio e Sex Pistols.

L’ironia, di tale rivoluzione degenere che l’autore opera nel testo, sta nel fatto che il suo ambiguo rapporto di amore e odio con il rock di Vasco Rossi nasce proprio dall’incapacità del rocker modenese di rientrare nei canoni puri del genere rock anglosassone e americano. Il giovane Minardi vede nella forma canzone-rock di Vasco (la quale innesta su sonorità rock poliedriche linee vocali molto melodiche e testi a tratti cantautoriali) una ibridazione illegittima a livello estetico ed un compromesso inaccettabile a livello politico. La profondità di tale riflessione sta tutta nella sua generalità: infatti, l’idea che Vasco Rossi, non possa essere considerato a tutti gli effetti un autore di musica rock ha fatto parte della cultura giovanile italiana per generazioni. In questo possiamo quasi vedere in cosa si fosse trasformato il purismo ideale e l’ideale paranoico di giustizia assoluta che costituì la stella polare degli affetti giovanili nell’epoca della divisione del mondo in due blocchi ideologici contrapposti, quello americano e capitalista e quello sovietico e comunista. 

E adesso veniamo infine ad una mia piccola conclusione sul valore del testo. Io credo che esso vada apprezzato per il tentativo (riuscito) di dare un fondamento metafisico alla musica rock, utilizzando lo specifico dell’analisi musicale esclusivamente per elaborare una teoria estetica sulla fruizione musicale. Tale teoria poggia sull’idea che il suono (in quanto corpo sociale) sia capace di esprimere l’identità del soggetto singolo non attraverso la sua inclusione in un tutto-sociale che sia la somma di tutti gli altri io. Non siamo difronte alla semplice appartenenza di un io ad un gruppo. La relazione che si instaura è quella di un distacco che comprende; nell’eco musicale e psicologico risuona il senso paradossale di essere al mondo sia con gli altri che da soli, di far parte di un gruppo senza avere una precisa rappresentazione in esso. 

Questo è in un certo senso il gioco del desiderio: una tensione che torna su di sé meccanicamente, dopo essere stata veicolata attraverso un mezzo di espressione sociale che l’ha sintetizzata, non in maniera scientifica o matematica, ma solo a livello estetico. In altre parole, è solo attraverso il livello sentimentale, e cioè per mezzo di una apertura radicale e originaria al senso, che il mondo può essere esperito nel suo contemplarci come oggetti di una qualche cura o distrazione.

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