76ma Mostra del Cinema di Venezia / L’Affaire Dreyfus di Roman Polanski

10 Settembre 2019

Come si dice, tutto è bene quel che finisce bene. J’Accuse, il film sull’Affaire Dreyfus di Roman Polanski, ha vinto il Gran premio della giuria, dopo una presentazione segnata da polemiche furiose: la presidentessa della giuria di quest’anno, Lucrecia Martel, non ha presenziato alla proiezione in sala, rifiutando, almeno inizialmente, di separare l’opinione sul film da quella sulla vicenda giudiziaria ancora aperta del regista (che non ha mai scontato la condanna inflittagli per l’abuso di una tredicenne commesso nel 1977); non sono d’altronde mancati sbilanciamenti di segno opposto; l’accostamento avanzato da Pascal Bruckner tra le persecuzioni antisemite subite dal regista nell’infanzia e il “maccartismo neofemminista” di cui sarebbe adesso vittima, avrebbe fatto impressione anche a McCarthy; e se può essere umanamente comprensibile che il Polanski reo confesso si sia identificato con l’innocentissimo capitano ebreo Alfred Dreyfus, nel 1894 condannato a torto per spionaggio (ogni accusato detesta la macchina giudiziaria, al di là delle sue ragioni d’essere), si capisce un poco meno che tanti giornali abbiano avallato l’identificazione. Sensatamente invece altri interventi hanno fatto appello all’autonomia della sfera artistica da quella morale, alla distinzione tra la condotta di un autore e la sua opera; e (sia che la presidentessa abbia cambiato del tutto atteggiamento, sia che l’abbiano messa in minoranza) il riconoscimento della giuria ha confermato tale principio fino in fondo; la cosa era del resto già nell’aria, perché al di là delle polemiche, il film ha subito ricevuto consensi entusiasti di critica e di pubblico.

   Questo articolo va controcorrente: non con una vera e propria recensione, ma con una riflessione sull’approccio del lavoro alla vicenda autentica suo oggetto. Perché da un lato, molto probabilmente, a determinare il suo successo è stata anche, se non soprattutto, la presa intramontabile di questa vicenda (caso epocale di conflitto fra arbitri del potere e voglia di giustizia, ottusità dei pregiudizi e libertà intellettuale); e d’altro lato, in effetti, la sua messinscena rivela limiti tanto più interessanti perché indicativi di certe tendenze, e di certe trappole, ultimamente assai ricorrenti nelle narrazioni storiche. 

   

Tratto dal romanzo (o meglio non fiction novel) An Officer and a Spy di Robert Harris (che ha collaborato alla sceneggiatura), J’Accuse si impernia su Georges Picquart, il colonnello che nel 1896 individuò la vera spia nel maggiore Walsin Esterhazy e che per sostenere l’innocenza di Dreyfus sfidò a lungo i capi dell’esercito (ostinatamente decisi, per motivi mai chiariti del tutto – l’antisemitismo giocò solo in parte – a non rimettere in discussione la condanna del 1894). Una didascalia introduttiva sottolinea subito la rigorosa autenticità dei fatti esposti; e vari articoli ne hanno elogiato il valore di testimonianza. In realtà, l’autenticità non è poi così rigorosa, la testimonianza non è perfettamente attendibile, il lavoro, pur molto documentato, rimaneggia a più riprese la vicenda. Alcune alterazioni sono di scarso calibro (è sempre rimasta incerta la natura del rapporto tra Picquart e Pauline Monnier, lontani cugini e sicuramente intimi amici, ma forse non amanti come appare qui; se un dialogo ricorda che l’avvocato Fernand Labori era soprannominato “il vichingo” – evidentemente a causa della capigliatura bionda e del fisico imponente – il personaggio è però incarnato dal bruno e magrolino Melvil Poupaud, che con i vichinghi ha ben poco a che spartire); di maggior peso appaiono invece altre modifiche, come stiamo per verificare.

   

Beninteso, di qualsiasi entità siano, i discostamenti dalla storia effettiva potrebbero sembrare comunque irrilevanti, e commentarli potrebbe essere giudicato in partenza fuori luogo. Al di là dei loro eventuali reclami di veridicità (ultimamente spesso ritenuti indispensabili per attirare il pubblico), la libertà delle rielaborazioni artistiche, il loro diritto di riconfigurare la realtà sono naturalmente fuori discussione. Il punto però è che nel film, come in parecchie altre recenti riletture di fatti storici, questa libertà finisce per venir meno alla propria vocazione: perché, se si strappa alla costrizione degli eventi certificati, scivola nella soggezione a un consolidato repertorio di cliché. Se può essere inutile chiedersi quanta ragione Polanski abbia di immedesimarsi con il Dreyfus cacciato dai ranghi o con il Picquart uscito dai ranghi per sua scelta, val ben la pena di notare che intanto nei ranghi qui è senz’altro rimasto il suo estro creativo: personaggio anticonformista per definizione, secondo alcuni sempre perseguitato come uomo, sicuramente a lungo trasgressivo come artista, in questo film il regista ha finito per conformarsi a un immaginario già cristallizzato.

   

Innanzitutto, va notato che mettendo sempre le vicissitudini di Picquart in primo piano, il lavoro lascia ai margini la grande battaglia collettiva nucleo dell’Affaire, e gli eterogenei personaggi da essa aggregati, a partire da quelli in prima linea: oltre a Zola – di gran lunga il più famoso – il sublime borghese qualunque Mathieu Dreyfus, fratello del condannato, lo scaltro deputato Joseph Reinach, l’idealista anarchico Bernard Lazare, il geniale e ambiguo Georges Clemenceau, il carismatico leader socialista Jean Jaurès. 

   

 

Certo, si tratta di una scelta legittima, e per nulla insolita. Lungo, macchinoso, subito definito più romanzesco di qualsiasi feuilleton, l’Affaire è pressoché impossibile da trasporre in una narrazione per intero; e se diverse opere letterarie a esso contigue (dall’Histoire contemporaine di Anatole France alla Recherche proustiana) ne evocano disinvoltamente aspetti e personaggi già familiari al pubblico contemporaneo, i (modestissimi) romanzi e i vari film e miniserie che l’hanno poi rimesso in scena (tra l’altro la storia tiene praticamente il cinema a battesimo, visto che il primo a portarla sullo schermo è Georges Meliès, nel 1899), dovendo illustrare gli eventi, e per lo più in forme sintetiche, a un pubblico meno informato, preferiscono generalmente focalizzarsi su uno solo dei loro protagonisti. Per limitarsi agli esempi più noti, un film del 1937 di William Dieterle si concentra su Zola (erroneamente ritenuto dalla vulgata il primo e unico intellettuale a denunciare il caso); uno del 1958 di José Ferrer va decisamente controcorrente dando il ruolo principale proprio a Dreyfus (snobbato dall’immaginario quasi sempre, un po’ perché giudicato troppo freddo e rigido, un po’ perché sopravvissuto alla sua tragedia, cosa che raramente si perdona a una vittima); uno del 1991 di Ken Russell ruota anch’esso intorno a Picquart, che del resto, audace, raffinato, un po’ malinconico, aveva ammaliato già i suoi contemporanei, ed era stato subito celebrato da diversi autori (lo stesso Proust, che lo descrive in Jean Santeuil).

  

Però, come avviene già in parte nei film di Dieterle e Ferrer, e soprattutto in quello di Russell (altro regista spesso molto originale che non è riuscito a dare un’impronta originale alla vicenda), anche qui la restrizione del campo si traduce in restrizione del senso. Confinando quasi interamente il racconto nell’ambito militare, esaltando al massimo il peso di Picquart, Harris e Polanski negano non solo spazio effettivo ma pure importanza ideale al tratto dell’Affaire più memorabile, il suo potere di mobilitare la società civile e di dare un senso nuovo – provvisorio, presto frustrato, ma destinato a lasciare una traccia profonda – di identità e compattezza agli intellettuali moderni; non solo la dimensione collettiva, ma anche la pregnanza simbolica dei fatti vengono offuscate dalla riproposta del fascino sempre rigoglioso dell’eroismo solitario, dell’ego contra mundum. Una riproposta ancora più marcata nel film che nel romanzo: in virtù dei due interventi sulla storia di maggiore consistenza. 

  

Innanzitutto, qui l’apertura alla fine del 1897 dell’inchiesta su Esterhazy, la vera spia, risulta merito esclusivo di Picquart, mentre in realtà, se il colonnello informò effettivamente delle sue scoperte sulla colpevolezza del maggiore l’avvocato Louis Leblois, e attraverso di lui il vice-presidente del Senato Auguste Scheurer-Kestner, lo fece in via riservata, e i suoi interlocutori iniziarono a muoversi con estrema circospezione; se l’accusa fosse partita da Picquart, con ogni probabilità i capi dell’esercito si sarebbero limitati a imputargli la violazione del segreto militare, bloccandolo per sempre, senza sentirsi affatto tenuti ad aprire una qualsiasi indagine; ad accusare pubblicamente Esterhazy fu invece Mathieu Dreyfus, grazie a una testimonianza raccolta proprio nello stesso periodo; la variazione contribuisce a lasciare in ombra il ruolo di quello che fu chiamato a ragione “il fratello indistruttibile”, e più in generale la multiformità delle forze che scatenarono la battaglia.

  

Ancor più significativamente, poi, qui Picquart sembra il promotore del J’Accuse, il famosissimo articolo di Zola uscito sull’“Aurore” il 13 gennaio 1898, da cui il film deriva il titolo: è lui, durante un incontro con le personalità impegnate nel caso, a spronare lo scrittore a rendere nota la vicenda al grosso pubblico, e la comparsa del pezzo sembra diretta conseguenza del loro confronto. Un passaggio del tutto inesatto, non solo perché l’incontro in questione in realtà non ebbe luogo, ma anche perché i fatti essenziali erano stati già divulgati da Bernard Lazare (scrittore e giornalista ebreo vero pioniere della denuncia, che già nel 1896 aveva pubblicato un primo pamphlet in merito), e poi via via da diversi giornali, e soprattutto perché Zola, pur non sceso in campo fra i primi, aveva dalla fine del novembre 1897 avviato un’intensa campagna sulla storia, scrivendo in proposito tre articoli e due opuscoli, per dare quindi alle stampe il J’Accuse di sua piena iniziativa, subito dopo la tappa più incredibile della vicenda, che curiosamente Polanski trascura: l’assoluzione che aveva concluso il processo a Esterhazy e impedito la revisione di quello a Dreyfus, e che con ogni probabilità avrebbe arrestato l’Affaire per sempre, se appunto la requisitoria dello scrittore non avesse praticamente costretto il potere politico e militare a riaprirlo; come hanno già messo in luce studi eccellenti (in ambito italiano quelli di Pierluigi Pellini e Agnese Silvestri specialmente), la sua forza non stava nella denuncia (pure un po’ affrettata e imprecisa) di eventi ormai noti, ma nel coraggio dell’autore, che accusò i responsabili di questi eventi con nettezza plateale appositamente per essere a sua volta imputato di vilipendio, innescando così un nuovo processo, non di appannaggio della giustizia militare e dunque impossibile da condurre a porte chiuse come quelli da cui Dreyfus era uscito condannato ed Esterhazy assolto.

  

 

Il film quasi esclude il campo intellettuale che secondo una nota riflessione di Bourdieu ebbe nell’Affaire la sua consacrazione. E anche qui Polanski non fa una scelta isolata ma segue una tendenza imperversante: l’appeal sempreverde dell’eroismo singolo resta spesso ancorato ai modelli più classici, l’immaginario contemporaneo dà raramente peso agli uomini di pensiero, mentre non finisce mai di confermare lo smalto degli uomini d’azione; attualmente innumerevoli romanzi e film storici rileggono gli eventi prescelti attraverso le avventure di personaggi certo difformi – autentici o immaginari, eroi adamantini o antieroi sgualciti, con o senza l’uniforme – ma sempre con le armi alla mano, sempre audacemente esposti a rischi estremi, sempre fieramente opposti a tutti i possibili apparati, spesso pure a tutte le possibili aggregazioni. La rassegnazione alla crisi delle ideologie e della politica, lo scetticismo circa la presa sulla collettività delle elaborazioni concettuali, seguitano a cercare il proprio antidoto, in forme più rozze o più sofisticate, nel ripescaggio di mitologie logorate fino allo sfinimento da feuilleton e fumetti, ma sempre lontane dall’estinguersi.

  

La restrizione del campo e del senso determina pure una restrizione del tono. Per quanto girato con consumata abilità, il film di Polanski risulta monocorde, comprime in un registro asfitticamente uniforme una storia che al talento già tanto sulfureo del regista (e alla recitazione degli attori, tutti quanti – a partire dal Jean Dujardin protagonista – un po’ ingessati) avrebbe potuto fornire ispirazione più ampia, vista l’infinita varietà dei suoi passaggi, di volta in volta tragici, umoristici, struggenti: per citarne solo qualcuno, Mathieu Dreyfus che lascia il lavoro, la famiglia, la sua esistenza intera, per votarsi alla causa innocentista; Zola che, divenuto la bestia nera dei nazionalisti per il suo attacco all’onore dell’esercito, durante il suo processo entra e esce dal tribunale subissato di urla, insulti e tentativi di aggressione, ma circondato da alcuni amici (tra cui Octave Mirbeau) che gli fanno scudo con il loro corpo; l’avvocato Labori che in un interrogatorio esilarante mette a nudo l’assurdità delle tesi grafologiche del criminologo Alphonse Bertillon, per concludere tuonando “Ecco l’esperto, l’esperto principale!”; Clemenceau che, sempre durante il processo a Zola, richiama l’attenzione su una riproduzione del Cristo in croce di Bonnat situata alle spalle dei magistrati, esclamando che sarebbe bene collocarla invece davanti ai loro occhi, come esempio principe di errore giudiziario; i giornalisti dreyfusardi che si abbracciano esultanti quando la Cassazione annulla la condanna del 1894 (tra loro spicca la brillantissima Séverine, redattrice di punta della “Fronde”, un periodico a firma tutta femminile: scusandomi per il maccartismo neofemminista, ricorderei che le donne di quegli anni non stavano solo coricate, come l’unica a cui il film concede un po’ di spazio, la già menzionata Pauline interpretata da Emmanuelle Seigner); Bernard Lazare che, presto emarginato dalla battaglia per le sue idee estremiste, nel 1899 rammenta il proprio ruolo con una frase dolorosamente incisiva (“Fu un ebreo il primo che si levò per l’ebreo martire”); ancora l’avvocato Labori, che dopo l’attentato subito durante il secondo processo a Dreyfus, non soccombe affatto (come può sembrare nel film), ma riesce, grazie sia alla fortuna (la pallottola che lo colpisce risparmia per pochissimo la colonna vertebrale), sia alla sua tempra, a tornare in aula pochi giorni dopo, nello sbalordimento generale; Dreyfus, che (sempre profondamente grato ai suoi salvatori) presenzia alla traslazione delle ceneri di Zola al Pantheon e viene a sua volta ferito da un fanatico; e moltissime altre situazioni e scene.

 

Ancora un’osservazione. La mitizzazione di Picquart che il film riprende ha certo solide radici: nella fase rovente del caso il colonnello dimostrò un’onestà inflessibile, si giocò consapevolmente la carriera e quasi la vita, sopportò fermamente l’isolamento, la prigionia, l’ostracismo dell’esercito e il pesantissimo livore del partito antidreyfusardo (che tra l’altro, facendo leva sulla misteriosità della sua vita privata, gli attribuì un orientamento omosessuale, neanche a dirlo nei modi più razzisti e volgari). Però, non tenne sempre un comportamento dei più limpidi: non contestò per nulla la condanna del 1894, di cui aveva potuto seguire da vicino la dinamica, malgrado l’evidente debolezza delle prove che la suffragavano; non abbandonò mai del tutto i suoi preconcetti antisemiti, fu attento ad approfittare della notorietà che l’Affaire gli aveva dato, rimproverò a Dreyfus l’accettazione della grazia al punto di rifiutare a lungo di incontrarlo, e, una volta divenuto ministro della Guerra, gli negò la meritata promozione, di fatto non oggettivamente impossibile come l’ultima scena del film fa sembrare.

  

Beninteso, Polanski non era tenuto a ricostruire la sua fisionomia effettiva; ma un maggior affondo nelle sue ombre avrebbe potuto ispirargli un personaggio più sfaccettato; mentre se quello del film risulta decisamente monolitico, è proprio perché ricalca troppo l’immagine intemerata cucita addosso a quello reale dai suoi ammiratori, promossa già in fondo da lui stesso. E pure su questo versante il regista segue una voga diffusa: molti romanzi e film storici, anziché slanciarsi nelle sfide (opposte ma dense di potenzialità entrambe) di setacciare a fondo o di reinventare senz’altro le personalità prese in esame, preferiscono fermarsi alla loro fisionomia più popolare, solitamente parecchio artificiosa, perché non di rado piegata tendenziosamente dai diretti interessati alle proprie convenienze, e perché grosso modosempre plasmata su stereotipi inflazionati (per citare un altro esempio recente, Buscetta sarebbe verosimilmente andato in visibilio se avesse potuto vedere Il traditore di Marco Bellocchio, che lo raffigura per lo più proprio nel modo in cui lui amava proporsi). 

La libertà di rileggere la storia resta prerogativa indiscussa della letteratura e del cinema; ma non risulta poi tanto proficua quando viene gestita in modo troppo pigro: quando schivando il vincolo della fedeltà ai fatti reali, piomba in quello delle leggende ricamate su di essi, e, anziché avventurarsi nella rielaborazione approfondita degli eventi, si incaglia nelle secche degli stereotipi che li hanno più ingombrati. 

 

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