Il caso Yara e Bocca di rosa
Che qualcosa di brutto potesse capitare qui dalle nostre parti, nell’Altopiano di Clusone, s’era intuito fin da subito, dopo gli annunci dei notiziari televisivi della sera di lunedì 16 giugno: “L’assassino di Yara Gambirasio ha un volto e un nome, è un muratore di Clusone”. Per quanto, già nelle cronache del giorno dopo, si precisava che il sospettato a Clusone c’era solo nato, avendo poi sempre vissuto a cinquanta km da qui, fra Mapello e Terno d’Isola. Ma quell’annuncio i suoi bei danni ha cominciato a produrli la sera stessa, quando sulla rete sono apparsi i primi sconsiderati commenti: un blog del quale non citerò l’indirizzo titolava “Clusone: a pochi passi da Corleone”, vi si malediva il silenzio omertoso della comunità durato tre lunghi anni, aggravato dall’assenza di un contesto mafioso che, insomma, in certi casi, può giustificare ecc… Parole al vento, fra le prime di una settimana che presto avrebbe percorso tutti i sentieri del grottesco nazionale. Sarebbe bastato cercare qualche informazione per scoprire che fin dagli anni ’60 tutti i bambini dell’Alta Valle Seriana nascevano nell’Ospedale di Clusone, prima si faceva tutto in casa.
La Valle era stata coinvolta fin dall’anno scorso, dopo le rivelazioni sul famoso figlio illegittimo dell’autista di Gorno, quando era iniziato lo screening di massa fra gli abitanti della collaterale Val del Riso: centinaia di cittadini avevano volontariamente partecipato all’accertamento del DNA, ne conosco parecchi, altro che comportamenti omertosi. Quando però s’è fatto il nome della madre del Bossetti, originaria di Villa d’Ogna, a due km da Clusone, ecco, a partire da martedì 17 giugno, il Grande Circo ha alzato i suoi tendoni.
Io a Villa d’Ogna sono venuto ad abitare l’anno scorso, è il paese di mia moglie, lo frequento da trent’anni, quando ancora erano aperti gli stabilimenti tessili, che davano lavoro a centinaia di operai. Fra i quali fino al 1970 c’era la madre del Bossetti, occupata presso la Festi Rasini, un vecchio glorioso cotonificio attivo fin dagli ultimi decenni dell’800, col suo villaggio operaio sulle sponde del Serio, tanto bello da far parte del catalogo dei Beni Culturali di Lombardia.
Tuttavia, ai giornalisti accorsi a frotte nel nostro paesello fin da quel martedì interessavano poco i beni culturali, com’è giusto: tutti a fare domande sulla Ester, a filmare la vecchia casa di famiglia in contrada Biciocca, a cercare gente di una certa età disposta a farsi intervistare. Lontano dalle telecamere, nei due bar del paese, qualcuno in effetti se l’è ricordata, la Ester: era una “ragazza vivace”, si è sentito dire. Cose così, alla Bocca di Rosa, capaci quasi di far tenerezza. Fuori dai bar, comunque, per tre o quattro giorni s’è dovuto convivere con la presenza dei furgoni di Sky e Mediaset. Non è stato facile, ma ci si abitua a tutto.
Di sicuro la vicenda ha fatto vacillare, secondo alcuni, solide certezze antropologiche, simili quasi a stereotipi culturali: la riservatezza della gente di montagna, il pudore dei valligiani ecc. E vorrei proprio vedere: l’impatto del Gran Circo quando solo ti sfiora è come una valanga, difficile resistervi. Da questo punto di vista, non credo sopravvivano più autentiche isole vergini, siamo tutti a rischio.
Più inquietante, semmai, una voce circolata nei paesi dell’Altopiano nei giorni scorsi, secondo la quale sarebbe giunta negli uffici comunali una richiesta relativa all’accertamento dell’identità dei “figli naturali” iscritti all’anagrafe… Roba grossa, probabilmente infondata, ma sufficiente a rimettere in circolazione vecchi pregiudizi, fastidiosi mormorii. Oltre che il dubbio, forse solo mio, che dietro la crosta sottile della modernità sopravviva da qualche parte vicino a noi, duro a morire, il timore profondo dei giudici incappucciati del buon tempo che fu.