Lettera dalla Val Seriana. Quella forza oscura
Adesso che anche qui in Val Seriana l’evoluzione giudiziaria delle conseguenze del Covid19 sembra rimuovere ogni altra considerazione sulla primavera del 2020, vale forse la pena riprendere il filo di quanto raccontato allora su Doppiozero.
La nozione storiografica di Dopoguerra può servire come cornice degli studi, ancora da svolgere, su quanto accaduto tre anni fa, anche solo a fare attenzione a un dato: il numero complessivo dei caduti bergamaschi militari e civili nei cinque anni della Seconda Guerra Mondiale è di poco superiore a novemila, mentre nel solo 2020 si contano quasi seimila e duecento vittime di Covid nella bergamasca. Gli storici che hanno indagato sul secondo dopoguerra del XX secolo, tuttavia, si sono serviti di una gamma amplissima di strumenti disciplinari, socioeconomici, politico-giuridici, demografici, antropologici, culturali… Qua il rischio è che la vicenda giudiziaria comprometta ogni altro genere di approccio e complichi quindi le prospettive degli studi a venire.
Meglio forse, nel dare conto dell’ultimo doloroso dopoguerra della nostra valle, adottare lo sguardo rasoterra all’origine delle domande di allora, ancora senza risposta.
Le domande di adesso
Fece molto impressione, tre anni fa, l’inadeguatezza dei dispositivi di protezione individuale dei medici bergamaschi, la “prima linea” di cui si blaterava nel discorso pubblico regionale e nazionale, in omaggio alla peggiore tradizione militarista italiana. Ne morirono trentuno fra il 2020 e il 2021, molti altri si ammalarono e poi guarirono, molti poi, sfiniti, andarono in pensione. A me è toccato restare senza medico di base per mesi e oggi quindicimila pazienti bergamaschi non hanno ancora accesso ai servizi di medicina generale. In Regione si sono inventati le Case di Comunità che a detta di tutti risultano al momento sprovviste di medici e attrezzature, poco più che gusci vuoti. È forse legittimo chiedersi, quindi, con quali strumenti concreti si stia provvedendo al rafforzamento della medicina territoriale, il vero buco nero della maledetta primavera del 2020. E le bombole di ossigeno, per rimanere rasoterra? Furono centinaia allora a morire in casa soffocati perché quelle bombole salvavita non si trovavano. C’è qualcuno che se ne sta occupando?
A medici e operatori ospedalieri si impose allora il silenzio su quanto stava accadendo intra moenia, molti rischiarono davvero l’accusa di “infedeltà aziendale”. Il Direttore Generale dell’Azienda per la Tutela della Salute della Provincia di Bergamo, oggi indagato per falso e rifiuto di atti d’ufficio, arrivò al punto di nominare un avvocato come consulente legale dell’Azienda con il compito, tra le altre cose, di verificare “eventuali responsabilità per le modalità di gestione dell’emergenza sul territorio da parte dei medici di medicina generale”. Ci si chiede per quanto tempo siano rimaste in vigore quelle disposizioni ospedaliere e fino a quando resterà al suo posto quel Direttore Generale.
E ancora: è rimasta attiva quella disposizione, rivolta ai medici anestesisti e rianimatori e ai reparti di terapia intensiva, a dare la precedenza ai pazienti più giovani? E ancora: dai vertici del welfare regionale, nelle prime decisive settimane, si negarono ai sindaci i dati aggiornati sulle infezioni, per non suscitare il panico, ci si giustificò, con l’unico effetto di rendere impossibile il tracciamento a livello comunale: possono rimanere nelle istituzioni regionali i responsabili di quelle follie? Qualcuno ha poi chiesto conto ai vertici della Confindustria provinciale e regionale dei magheggi (codici ATECO) messi in campo per assicurare alle fabbriche che dovevano chiudere i permessi per continuare a lavorare? E la stessa domanda andrebbe rivolta ai funzionari prefettizi che concessero quelle deroghe, così, al buio.
Nelle recenti elezioni regionali i cittadini lombardi avrebbero potuto imporre un prezzo politico agli irresponsabili di allora, si ripete, ma non l’hanno fatto. E questo ci porta ad altre, più complicate, considerazioni.
Quella forza oscura
Da almeno un anno non mi succede più di intercettare nelle chiacchiere con i vicini di casa quegli accenni alla bufera di allora che, fra l’addolorato e il recriminatorio, avevano a lungo contrappuntato le interazioni quotidiane al bar, al mercato o dal tabaccaio. Si è voltato pagina, semplicemente. I furgoni e i camioncini degli artigiani che nei mesi più duri della pandemia avevano continuato a circolare, sfidando tutte le regole della quarantena e del buonsenso, non hanno mai smesso di macinare chilometri. Mai guardarsi indietro, il lavoro non manca, a stare fermi e a discutere non si è mai combinato niente di buono.
Circa tre mesi fa, per la prima volta in vita mia, mi sono ritrovato a scarpinare sulle strade di New York. Fra gli isolati del Lower East Side, la scena urbana dei romanzi e del cinema che hanno arricchito la fantasia di tutti noi, l’immagine delle saracinesche abbassate era la più conturbante. Ci accompagnava un conoscente, cittadino stabile newyorchese da più di dieci anni, esperto di economia e finanza internazionale. Il tasso di mortalità delle attività commerciali in alcuni quartieri, ci raccontava, ha superato negli ultimi anni il cinquanta per cento. Intere vie un tempo vivacissime fra la vecchia Little Italy e Chinatown ma anche a Brooklyn sopravvivono oggi solo come spazi residenziali, data la domanda di affitti che non conosce flessioni. A me quelle vetrine sporche e quelle serrande arrugginite fecero un’impressione profonda.
Nulla di paragonabile qua in valle: tutti gli indici di produzione manifatturiera e di offerta di servizi hanno ormai dall’anno scorso recuperato e poi superato i livelli di pre-pandemia. I turisti sono tornati fra le montagne come nelle piazze della Città Alta bergamasca. L’aeroporto di Orio al Serio sforna record di arrivi e partenze ogni mese che passa, i ristoranti si riempiono nei weekend, i cantieri edili si moltiplicano, i furgoni delle consegne a domicilio e i camioncini dei pendolari sfrecciano dall’alba al tramonto e oltre.
Cos’è questa forza oscura che alle prime luci del giorno spinge fuori di casa chiunque sia in grado di lavorare? È la stessa che impedisce di voltarsi indietro e di perdere tempo con le domande e lo sconforto attorno ai lutti del recente passato? È parente prossima della difficoltà a immaginare una vita diversa, che non sia fatta di 50/60 ore di lavoro alla settimana? Cos’è questa ostinazione a confermare la fiducia a chi ha dimostrato di non sapere garantire la minima tutela della salute pubblica? E tutti quei nonni che ci hanno lasciato a centinaia, nel giro di poche settimane, nella più completa solitudine delle RSA? Nessuno li ha dimenticati, naturalmente, l’inchiesta della Procura di Bergamo è nata proprio dalle denunce dei familiari di quei poveri vecchi. Eppure.
Eppure, al di là del cordoglio e dell’indignazione ancora in circolo, di fronte alla possibilità di chiedere il conto del recente disastro sanitario e amministrativo si è scelta la continuità. L’incompetenza e l’irresponsabilità non sono state punite. Politicamente si è scelta la continuità, così come nello stile di vita, nella religione del lavoro. Allora, davanti al rifiuto delle regole imposte dalla quarantena, mi era sembrata ottusità, oggi non ne sono più sicuro. Oggi credo che tenacia e generosità, ostinazione ottusa e diffidenza verso il cambiamento, siano manifestazioni della stessa indistruttibile energia della nostra gente. Le une non si danno senza il supporto delle altre. Non si raggiungono record di produttività senza testa bassa e sguardo rasoterra. Ho definito oscura questa forza, in mancanza di meglio. Qualcuno sarà in grado di condurre analisi più approfondite, ne sono certo, qualcuno vedrà più chiaro al fondo del paradosso antropologico bergamasco. Mi sono sforzato di ragionarci sopra, ne sono uscito ammirato, per certi versi. Ma più di tutto, ecco, ne rimango attonito.
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Nell'immagine in copertina, Imbocco della Valle, un giorno come tanti.