Open development
“Come assicurarsi che gli aiuti allo sviluppo arrivino effettivamente alle persone che ne hanno bisogno e come si misura l’impatto dei progetti delle ong?” si chiede il vice presidente della Banca Mondiale Sanjay Pradhan in una Ted Talk, che a oggi conta più di 400mila visualizzazioni.
Dal movimento per l’open source in informatica all’open government nella pubblica amministrazione, fino alla teoria dell’open journalism che ispira il lavoro quotidiano della redazione del Guardian, non esiste ambito in cui non sia stata usata la parola “open” per indicare una maggiore attenzione nei confronti di valori quali trasparenza e partecipazione da parte dei cittadini/utenti.
Da qualche anno anche nella cooperazione internazionale la parola ‘open’ ha trovato la sua declinazione: è l’open development, nome sotto il quale si raccolgono una serie di iniziative e azioni per rendere “i dati disponibili e navigabili gratuitamente, incoraggiando i feedback degli attori coinvolti e la condivisione delle informazioni”. Così si legge nella sezione dedicata agli open data nel sito della Banca Mondiale, che tra le agenzie di aiuto allo sviluppo internazionali è stata una delle prime a pubblicare i propri database in formato aperto nel 2010, per permettere a chiunque di utilizzare i dati relativi a oltre ottomila indicatori economici e sociali di duecento paesi per un periodo di oltre 50 anni, seguendo uno stimolo arrivato da fronti diversi: non solo dai donatori, che chiedono un sistema più trasparente per seguire l’impatto dei flussi finanziari rivolti a migliorare le condizioni di vita nei paesi più poveri del mondo, ma dagli stessi beneficiari, che in alcuni casi, come in quello del Kenya ad esempio, hanno avviato iniziative di open government ben prima di molti paesi europei.
“Un budget pubblico è diverso da un budget accessibile”, dice ad un certo punto nel suo intervento Pradhan. Essere open è, soprattutto, un atteggiamento culturale: si deve partire dalla disponibilità a “perdere il controllo”, con la consapevolezza che una volta pubblicati in formato aperto – i bilanci in pdf online, per intenderci, non bastano – i dati possono essere riutilizzati anche da non addetti ai lavori.
Le tappe fondamentali
Particolarmente rilevante nella timeline del dibattito internazionale sulla pubblicazione di dati aperti e riutilizzabili è il 2008, anno in cui ad Accra, in Ghana, i diversi attori della cooperazione internazionale si riuniscono per il primo forum sull’efficacia degli aiuti. In quella occasione viene lanciata la campagna per la trasparenza nell’aiuto internazionale – International Aid Transparency Initiative (IATI) – con l’idea di aumentare la trasparenza nel tenere traccia di come i fondi pubblici allo sviluppo vengono spesi dai paesi donatori e quale sia l’impatto nelle comunità dei beneficiari, con l’obiettivo finale di migliorare gli standard di vita nel mondo e ridurre la povertà. Sono stati fatti molti passi in avanti da quel settembre in Ghana, tanto che oggi la sigla IATI indica lo standard secondo cui gli attori della cooperazione (governi e ong) sono invitati a pubblicare i propri dati in un formato aperto secondo codici stabiliti dalla comunità internazionale.
Il movimento degli open data nella cooperazione è particolarmente sostenuto dalle Nazioni Unite anche in previsione di un’agenda post-2015. Guardando agli sviluppi futuri degli Obiettivi del Millennio, Ban ki Moon ha chiesto maggior impegno nella valutazione dell’impatto dei progetti e nel monitoraggio delle condizioni di vita delle popolazioni attraverso i dati, tanto che nell’agosto di quest’anno ha avviato una consultazione pubblica guidata da un gruppo di esperti, tra cui l’italiano Enrico Giovannini, per definire un nuova strategia di sviluppo sostenibile basata sui dati.
Quanto è open l’aiuto allo sviluppo in Italia
Secondo una classifica di Publishwhatyoufund l’Italia è al 54° posto per quanto riguarda la trasparenza nell’aiuto pubblico allo sviluppo. Non ha ancora aderito alla pubblicazione dei dati in formato standard Iati, anche se proprio quest’anno ha fatto enormi passi avanti con la realizzazione del portale Openaid.esteri.it, piattaforma dove i cittadini possono esplorare destinazioni e impiego degli investimenti del governo per le diverse iniziative di aiuto allo sviluppo dell’Italia a partire dal 2004, per un totale di 25mila progetti online.
E le ong non si sentono meno coinvolte in questa “rivoluzione”, sia a causa della recente crisi finanziaria, che ha spinto verso un uso più ottimale delle risorse disponibili, sia per una diffusa consapevolezza di un certo scetticismo sulla reale efficacia degli aiuti internazionali. L’occasione per mettere le mani in pasta, ovvero sugli open data, è arrivata con #Hackyouraid, il primo hackathon sui dati dell’aiuto allo sviluppo organizzato in Italia, durante l’Internet Festival di Pisa. Più di quaranta persone provenienti dal mondo della cooperazione, del non profit ma anche del giornalismo più interessato ai temi sociali, hanno lavorato per un giorno su strumenti e pratiche accompagnati dai tutor del network Dataninja.
“Anche se tra i partecipanti mancava una vera percezione dell’aspetto più tecnico del rilascio dei dati in formato aperto, le conseguenze di una loro pubblicazione erano conosciute: l’aumento di trasparenza, per indicarne uno positivo, e la questione della privacy come tema più critico”, racconta Andrea Borruso, chiamato a guidare la traccia sugli open data (le altre due, di ispirazione più giornalistica, riguardavano l’analisi delle rimesse dei migranti dal nord al sud del mondo e i flussi degli aiuti allo sviluppo). Le ong e le non profit, abituate a lavorare in un settore dove è costantemente richiesta una verifica dell’uso dei fondi pubblici a loro destinati, non hanno timore nel mostrarsi al pubblico. Anzi, durante l’hackathon hanno manifestato l’esigenza di aprire i propri dati anche per rendere più semplice la conoscenza reciproca tra attori dello stesso ambito: “Attualmente non esiste una mappatura dei progetti delle ong italiane che mostri in modo chiaro chi sta lavorando in certi contesti e come, per far nascere collaborazioni o evitare di ripetere errori e progetti già in atto”, racconta Borruso riportando le richieste dei partecipanti.
Essere open non basta
Rilasciare dati in formato aperto è già un primo passo avanti per la cooperazione italiana, e mentre aspettiamo che anche nel portale OpenAid i database siano adattati al formato Iati, ci si può chiedere come rendere i cittadini più partecipi di questo processo.
In sintesi, l’open development dovrebbe essere “un derivato dello sviluppo sostenibile, perché rafforza quelle dinamiche dal basso che ascoltano e rispettano i bisogni e le caratteristiche delle comunità locali”, come ricorda in un’intervista l’olandese Pelle Aardema, tra gli organizzatori dell’Open development camp, svoltosi ad Amsterdam proprio nei giorni di Hackyouraid.
Non c’è una ricetta, ma piuttosto diverse proposte che esperti in questo campo stanno mettendo in atto. In un lungo articolo che possiamo consigliare di leggere per approfondire ulteriormente le azioni in corso a livello internazionale sul tema, il ricercatore ed esperto di tecnologie per lo sviluppo Thomas Salmon evidenzia alcuni suggerimenti per non lasciare che la parola “open” rimanga solo uno slogan:
-
coinvolgimento dei partner locali
-
diffusione della formazione a più livelli
-
segnalare istituzioni che non rendono i propri dati accessibili
-
condividere il fallimento ed essere “open” anche quando qualcosa non funziona
-
pubblicare i metadati e la metodologia con cui si aprono i dati
-
condividere esempi su come gli open data possano portare cambiamento
-
richiamare i governi sugli impegni presi.
Cominciamo noi, ricordando all’Italia che gli standard Iati rappresentano oggi lo strumento di raccolta e pubblicazione dei dati legati agli aiuti più efficace a livello internazionale: a quando l’adesione completa, come promesso sul portale Open Aid, e la diffusione di informazioni sull’impiego dei fondi dopo il 2012?
Il presente articolo è frutto della collaborazione con l'Internet Festival di Pisa che ha avuto luogo dal 9 al 12 ottobre scorso nella città toscana. Donata Columbro, giornalista esperta di social media, cooperazione internazionale e citizen journalism ne ha curato l'area tematica Cooperation wanted, dedicata alle pratiche di partecipazione attiva nel settore delle organizzazioni non governative, delle associazioni e delle imprese sociali.