L’insostenibile leggerezza del Gadget Design

1 Luglio 2022

In Romagna, dove il Divertimento è alla base dell’economia, sanno che per creare curiosità su un evento o una discoteca, uno dei metodi più efficaci è formare una fila fuori dal locale vuoto. Alla Milano Design Week 2022 di file a locale vuoto se ne sono viste parecchie. Chilometriche, ordinate, rassegnate, giocose, ci siamo messi in fila felici di poter, dopo gli anni della pandemia, formare assembramenti a viso scoperto. Non ha importanza che l’evento si rivelasse nella maggior parte dei casi la fila in sé, visto che poi una volta raggiunta la meta non restava altro da fare se non raggiungere un’altra fila e ricominciare da capo.  

La parola sostenibilità, dopo aver impregnato tutti i settori, è gocciolata anche nel mondo del design, si è fermata un po’ in superficie ed è irrimediabilmente scivolata sotto, formando un maleodorante sottofondo che tutti nominano convinti di sapere di cosa stanno parlando. Del Bricoleur Ecologico abbiamo già parlato qui e in questa settimana del design abbiamo avuto la conferma che ormai, qualsiasi cosa sia, è una categoria del dovere, qualcosa che non si può non considerare, pena essere fuori mercato. Si può dire che si sia sviluppata una certa coscienza nei produttori, c’è più attenzione ai materiali e ai metodi di produzione e soprattutto c’è molta più attenzione a come si comunicano i prodotti.

L’identificazione dell’immaginario della sostenibilità con riciclo, risparmio energetico e verde è ormai un dato ovvio e consolidato. Quindi non mancano le mostre di oggetti che lavorano sul riciclo, anche se poche e abbastanza defilate, ma soprattutto non mancano le piantine. Quelle ci sono, perché ormai è noto a tutti che il verde fa sostenibilità e soprattutto fa fila. Quindi troviamo piantine messe un po’ ovunque e si incontra gente che fa una fila ragguardevole per salire su di un boschetto di design sistemato sull’acqua della darsena e fare foto a piante che incontrano tutte le mattine andando in ufficio ma che evidentemente non riescono a vedere perché nessuno gli ha detto che sono cool. E allora lode a chi comunica boschi verticali e orizzontali e a chi paga per abitarli perché più il prezzo è alto e più la coscienza è a posto. 

Un esempio di locale vuoto l’ho trovato in uno degli eventi più attesi, quello di Alcova nell’ex Centro Ospedaliero Militare di Baggio. Ci arrivo al sabato mattina, verso le 10 e mi metto in fila, una bella fila, lunga, ordinata, speranzosa, dove gli addetti girano con un barcode colorato che invita a registrarsi per entrare, un altro dei leitmotiv di questo Fuorisalone. Luogo molto affascinante, da vuoto, qui riempito di una tipologia di design che da qualche anno sta imperversando su instagram e che si potrebbe chiamare Gadget Design.

Possono fregiarsi del titolo di Gadget Design tutti quegli oggetti che non hanno altra ragione di essere se non quella di essere curiosi, strambi, carucci, assolutamente privi di pensiero, ideali per intrattenere qualche secondo, strappare un sorriso ed essere immediatamente sostituiti da un’altra immagine se state scrollando su instagram o da una altra stanza se state visitando una mostra di questo Fuorisalone (sull’argomento vedi anche l’articolo di Fulvio Carmagnola, Gadget | Odradeck al fuorisalone).

D’altra parte non c’è da stupirsi più di tanto, leggendo gli intenti degli organizzatori non c’è verso di trovare una sola idea se non quella di riunire in un solo luogo un po’ di roba da tutto il mondo. Allora bene per la giovane designer che arriva dalla California con le sue seggioline carucce e per tutti gli altri felici di mostrare le loro trovate, non si sa mai, meno bene per chi aveva la possibilità di dire qualcosa di utile e si è lasciato prendere dal fatto che comunque la gente arriva, fa fila, i followers aumentano ed è dalla loro quantità che si misura il successo. Mescolate alle simpatiche proposte del Gadget Design capita anche qualcuno che fa ricerca, come la designer olandese Sabine Marcelis e lo studio di architettura OMA che lavorano la pietra e l’onice. 

ciao

Quello che è chiaro è che nel mondo del design l’immaginario ecologico è ormai totalmente inquinato. Le necessità del sistema industriale, di cui il mondo del design è un’espressione, hanno steso un sudario funebre sull’ecologia e l’hanno sostituita con un avatar funzionale alla vendita di nuovi prodotti che si autodefiniscono sostenibili. Non ha molto senso stare a pesare i grammi di CO2 in più o in meno che un prodotto farebbe risparmiare al pianeta quando esattamente questo genere di calcoli serve a sviare il discorso da soluzioni alternative che esistono ma non hanno la forza necessaria per bucare il sudario.

Così, nel mare magnum delle proposte del Fuorisalone, fra consapevoli e più spesso inconsapevoli nipotini di Alessandro Guerriero nei decori variopinti e di Gaetano Pesce nell’uso di materiali plastici dai rimandi organici, si possono trovare piccole sacche di resistenza che vanno in tutt’altra direzione rispetto all’insostenibile leggerezza del design. All’Opificio di zona Tortona troviamo una mostra che parte dal concetto di Antifragile sviluppato da Nassim Nicholas Taleb, autore di Il cigno nero. Design Antifragile, nata nel corso di Design Strategico dell’Isia di Firenze e con opere di Raffaele Marra, Doris D’Ascenzo e altri, affronta i temi di resistenza e sovracompensazione necessari al dibattito sul progetto ai tempi dell’Antropocene, un termine imbarazzantemente assente in questa intorpidita settimana del design. Probabilmente ci sarà da aspettare ancora qualche anno perché un dibattito che in altri ambiti è ormai acquisito arrivi anche nel design in maniera evidente. 

La vera domanda oggi è: cosa deve fare il progetto al tempo dell’Antropocene? Porre questa questione oggi significa andare oltre l’idea di sostenibilità comune, vedere la produzione di cultura materiale da un altro punto di vista, quello imposto dall’immaginario dell’Antropocene. È ovvio che l’inerzia che ogni sistema ha in sé continuerà per anni, forse decenni, a far sopravvivere il mercato del modile come lo conosciamo, che può, sempre più a fatica, ignorare gli ormai innumerevoli segnali di cambiamento del resto del mondo, dalle pandemie alle guerre. Ma se vuole sopravvivere e soprattutto se vogliamo sopravvivere noi umani, è necessario che almeno la punta più avanzata della cultura del progetto consideri le sfide dell’Antropocene come reali e cerchi di immaginare soluzioni. 

In questa ottica si possono leggere alcune proposte che abbiamo trovato alla Fabbrica del Vapore, luogo che ha ospitato nel 2014 e 2015 la prima mostra europea dedicata all’Architettura Vegetale, Green Utopia, duemila metri quadri di costruzioni in bambù, canna comune, salice, paglia e terra cruda. E proprio alla terra cruda, il più antico e il più ecologico materiale da costruzione, è dedicata una mostra a cura di Geologika Collettiva ispirata ad Andrea Facchi, insieme a Barbara Narici tra i pionieri della riscoperta di questo materiale in Italia. La mostra fa parte di Terra Migaki Design, a cura di Sergio Sabbatini con il patrocinio di ANAB, una serie di eventi orbitanti intorno a questo materiale primario e di grande interesse per uno sviluppo realmente sostenibile. 

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