Glamour

25 Novembre 2011

C’era una volta il glamour come mistero, irraggiungibile perfezione della couture più perfetta, della più mirabile rifinitura di dettagli. Adrian vestiva Greta Garbo in un tripudio di bianchi ne La signora delle Camelie e inventava un impossibile look da commissaria politica chic in Ninotchka di Ernst Lubitsch, mentre Travis Banton moltiplicava i pizzi e i lazzi per le sue strepitose creazioni per Marlene Dietrich.

 

Gli anni ottanta fanno piazza pulita della allure e la sostituiscono con la citazione, il gioco dei contrari, la giustapposizione di modelli e materiali in una definizione sempre più decisamente pret-à-porter delle produzioni. Le grandi star diventano immagini su una tshirt, secondo il modello lanciato a metà anni settanta da Elio Fiorucci, che mette sulle sue magliette le prosperose pin ups dai beehives altissimi, che negli stessi anni erano tornate in auge grazie al planetario successo di Grease.

 

 

Il nuovo decennio si inizia con il successo planetario di una canzone che celebra un fascino ormai perento: Kim Carnes, magnifica bionda dalla voce roca, in abito maschile e dalle mani guantate di nero, canta infatti Bette Davis Eyes, un pezzo scritto nel 1974, ma che solo nella sua versione del 1981 trova il successo e diviene uno standard. Ormai si celebra un modello di donna assolutamente scomparso, un gioco che decisamente è arrivato alla fine. L’accento da quel momento sarà soprattutto sullo stilista, sul creatore delle mode, che troverà, come mai era accaduto prima, un proprio ruolo di sciamano per tempi di crisi, proficue o meno, di identità.

 

Nel 1980 Paul Schrader, straordinario cineasta, profeta di una visione che insiste sempre sulla relazione tra superficie e profondità, trova il suo maggiore trionfo con American Gigolo. Un film che a rivederlo oggi appare disperato, terribile, vanitas barocca in salsa puritana, che seduce in primo luogo per il corpo di un giovane Richard Gere, mai più così in parte e per le musiche, perfette, del disco master Giorgio Moroder, inclusa la bellissima Call me cantata da una Blondie in stato di grazia. Un oggetto sessuale, prostituto per signore mature e danarose, il protagonista fa di se stesso la bambola della propria immaginazione. Gli abiti diventano quindi armi del suo arsenale, strumenti di lavoro e proprio Armani trionfa in una celebre sequenza in cui i capi vengono associati per ottenere il miglior effetto possibile, mentre i dettagli sono un tripudio di firme italiche, da Gucci a Bottega Veneta.

 

 

Il Made in Italy annunciato oltreoceano dalle invenzioni del “calzolaio dei sogni” Salvatore Ferragamo dagli anni venti e riverberato sul grande schermo con i sontuosi costumi disegnati dalle Sorelle Fontana per la loro amica e cliente favorita Ava Gardner, trova infine il proprio momento di maggiore attenzione nel nuovo mondo, prima di passare ad altri luoghi del mondo.

 

Helmut Newton negli stessi tempi propone immagini spesso violente per raccontare il fashion, come memorabilmente propone negli inserti di shooting per il thriller paranormale Gli occhi di Laura Mars di Irving Kershner, in cui le modelle si picchiano, uccidono e si mettono in scena in azioni sempre più estreme. Infine, malgrado del decennio si voglia sempre dare un’immagine frivolissima, ben poco rimane dell’eccesso che caratterizzò nella percezione generale il periodo del designer estremo.

 

Rimane ormai una sinopia dell’immaginazione delle Marilyn decostruite sulle curve estreme amate da Gianni Versace o delle invenzioni più oltraggiose di Thierry Mugler e Jean-Paul Gaultier, che per molti anni rimase punto di riferimento, tra magliette con la vergine di Guadalupa e sostegno a gruppi pop citazionisti come Les Rita Mitsouko. Gli abiti di quest’ultimo per Helen Mirren nel mirabile Il cuoco, il ladro, la moglie, l’amante di Peter Greenaway e per Kika di Pedro Almodovar arrivano all’estremo di una tensione, creando unwearable clothes, oggetti simbolici basati sulla necessità di iniettare meraviglia nello spettatore. Eppure alla fine quello che resta è invece la sobrietà fino al rigore estremo dei maestri giapponesi, e in specie di Yamamoto Yoiji, che incontra le necessità di un mondo diviso a metà.

 

Il glamour più estremo infatti giunge con il buio e ha come proprio spazio di tipica manifestazione la discoteca che, dalla fine del decennio precedente, è senza dubbio il luogo di ogni possibile e programmatico decesso, laddove il glitter beneficia delle luci stroboscopiche e dell’alterazione percettiva offerta da alcol e droghe, nel frattempo sempre più sintetiche.

 

Il mondo del giorno invece preferirà il rigore, favorendo in Italia lo squadrato di Armani, senz’altro autore dei capi preferiti dai businessmen, e passerà poi a Costume National, che ora furoreggia nelle vetrine di OVS, con la collezione E-equal, che vuole proporre capi di fashion a costi contenuti. La fine del decennio che più ha investito negli shopping malls come sistema di rappresentazione e come modello di produzione economica, porta infatti alla novità dell’arrivo dei magazzini monomarca (per intendersi all’inizio dell’impero di Zara), dove in tempo debito cominceranno a comparire gli stilisti di nome, da Karl Lagerfeld (H&M, Hogan) a Sonia Rykiel (H&M ancora), in un gioco che sembra sempre più ampio e che segnerà i tempi prossimi.

 

L’ultima sfilata di Valentino, nel 2007, raccontata magistralmente da Matt Tyrnauer nel film Valentino, the last emperor, chiude un’epoca di sartorie, prime mani, seconde mani, secondo il lessico della couture di un tempo e si volta poi pagina.

 

Solitario, nel suo splendido isolamento, ha continuato a mandare segnali lo stilista più barocco e rigoroso a un tempo che la moda italiana abbia annoverato: Roberto Capucci, scultore di stoffe, sempre più esposto nei musei, che per primo venne ammirato da Christian Dior.

 

La moda, con l’impero dello stilista, è diventata sinonimo di frivolezza e superficialità, suscitando reazioni sempre più violente mano a mano che il mercato si allargava toccando ambiti sempre diversi, su scala planetaria. Tra i miliardi del fatturato e una serie di pareri liquidatori si gioca la visione del glamour così come l’hanno messa a punto gli anni ottanta, destinata a durare fino ad oggi, quando lo scettro è passato nelle mani dei direttori delle riviste, che fanno il bello e il cattivo tempo, come la streghesca Anna Wintour di “Vogue America”, che è ormai diventata icona del nuovo millennio.

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