Dal cinema alla rivoluzione digitale / È tutto uno schermo
Sono ormai diversi anni, almeno da Sullo schermo dell’estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare (Mimesis, Milano, 2008), che la questione dello schermo ritorna con insistenza nella ricerca di Mauro Carbone. Nel programma del seminario da lui coordinato a Lione, dal titolo Vivre parmi les écrans, si legge: «gli schermi sono diventati i dispositivi attraverso i quali noi incontriamo il mondo. Una rivoluzione percettiva e cognitiva si sta compiendo: noi conosciamo e comunichiamo con gli altri e con l’ambiente, specialmente quello delle città, attraverso degli schermi-protesi. Gli individui e gli schermi sono divenuti gli elementi inseparabili di un unico sistema comunicativo e sociale, che pone il problema della sua comprensione e del suo governo». In effetti, che quello delle interfacce e degli schermi sia un problema dalle vaste implicazioni antropologiche e sociali (e dunque politiche) è sotto gli occhi di tutti: pensiamo al numero di ore/giorno di interconnessione web dei nostri corpi, in particolare quello degli adolescenti (gli elettori di domani); pensiamo ai big data o al profiling digitale delle nostre identità di “utenti”; pensiamo al dato statistico che Facebook, dispositivo in cui l’identità digitale si co-struttura attraverso una relazione con lo schermo, ha oltre un miliardo di proseliti. Numeri da religione confessionale.
Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale (Raffaello Cortina, Milano, 2016) è una riflessione su questi snodi storico-esistenziali e una sistemazione di un’indagine pluriennale: muovendo da una ricognizione archeologica dello schermo nelle sue forme analogiche – con una predilezione per il cinema – Carbone esplora le morfologie attuali dello schermo, spingendosi sino alle questioni dell’immersività, della delega al digitale, passando per le nuove protesicità (il touchscreen o le wearable technologies), il selfie o anche i maxischermi interattivi, luminescenze urbane al contempo perturbanti e familiari. In una formula: viviamo attraverso gli schermi.
Ora, si può leggere Filosofia-schermi come una cartografia ragionata di questi modi di vita. Ma lo si può leggere anche come un libro su come pensare questa pervasività schermante: con quali utensili e da quale posizione (dentro; fuori; nessuna delle due) parlarne? La risposta a questo tipo di domanda, diciamolo subito, per Carbone è di tipo filosofico. Ci si domanda che cos’è uno schermo; ma in questa stessa domanda ci si deve interrogare su uno scarto che si apre nel porla, cioè: in che modo lo schermo interessa la filosofia?
Il problema dello schermo è sempre il problema di un oggetto che protegge dalla radiazione luminosa ma che, contemporaneamente, consente il manifestarsi del fenomeno: l’apparire. Per comprendere il nesso filosofia-schermi, non possiamo non prendere in carico questa figura di ambiguità. Da una parte, difatti, la filosofia ha da sempre dequalificato lo schermo. Pensiamo a Platone e al mito della caverna: sulla parete della caverna vengono proiettate le ombre delle cose, le apparenze, l’illusione. In quella scena primaria si trova già attestata l’assiologia dicotomica che presiede alla forma metafisica occidentale: verità/finzione; luce/ombra; purezza dell’idea/opacità del corpo. Dall’altra parte, tuttavia, la filosofia ha da sempre avuto bisogno di schermi: essa ha «immancabilmente finito per cercarne un qualche tipo, proprio per farci vedere, attraverso di loro, almeno l’immagine di quanto vuol darci a conoscere» (p. 9).
Le figure di ambiguità sono estremamente importanti in questo libro. Ad esempio: al di là delle buone intenzioni, può esservi realmente una filosofia non-rappresentativa? Una filosofia che possa prendere congedo dal relato, dall’oggetto-pensato? Una filosofia che possa schermare i suoi stessi “contenuti”? Al lettore sarà evidente come il ragionamento sullo schermo – o la riflessione su di esso – faccia entrare in risonanza questi motivi teorici. Forse ciò accade perché è lo schermo stesso a essere presentato come oggetto ambiguo, sede, cioè, di una relazione intrinseca tra il positivo e il negativo.
Ma, a questo proposito, Carbone precisa sin dalle prime pagine un punto teorico decisivo per lo sviluppo del suo argomento: le ragioni alla base dell’ambiguità dello schermo sono isomorfe ad altre ragioni, e precisamente alle ragioni «della nostra stessa visione» (p. 10). Qual è la posta in gioco in questo isomorfismo?
La visione per Carbone è una relazione fisica, una relazione che implica la percezione di una figura su uno sfondo. Ciò che vediamo appare come tale solo entro una costitutiva relazione olistica, ma anche differenziante, con un contesto. Qui il riferimento va al pensiero di Merleau-Ponty, per il quale la visione è in se stessa un fenomeno immersivo. Nella visione non vi è da un lato un soggetto vedente e dall’altro un oggetto visto. Questa è la grande finzione ideologica della gnoseologia. Prima di questa scissione bisogna pensare a una preliminare relazione di reversibilità tra i due poli della visione, se è vero che il mio corpo è movimento nello spazio e dallo spazio viene continuamente “contro-intenzionato”. Il che significa che è nel momento della visione – e non dopo – che il mio sguardo viene modificato dal veduto. In termini teorici, l’attività del soggetto (l’attenzione vigile) e la passività del corpo (il lasciar-essere tipico del visivo) sono caratterizzate da un’inerenza reciproca: scivolano l’una nell’altra. Carbone ci dice, però, qualcosa di più: non potremo comprendere il problema dello schermo – e la sua emergenza attuale – senza rimettere in gioco il nostro automatismo dualista, cioè senza un engagement intellettuale di autocritica del nostro stesso habitus. Occorrerà, cioè, lasciar contaminare i due piani che abitualmente la filosofia tende a considerare eterogenei: quello teoretico e quello dell’esperienza corporea.
È in questa luce che va letta la prima parte del libro, Che cos’è una “filosofia-cinema”?, un’indagine sullo statuto dell’immagine, in particolare quella cinematografica. Dalle ben note questioni poste da Deleuze nei suoi scritti sul cinema, passando anche da riferimenti meno noti, come lo scritto giovanile di Sartre Apologia per il cinema. Difesa e illustrazione di un’arte internazionale, Carbone esplora il pensiero francese contemporaneo sul cinema rispetto all’argomento dell’artificio contenuto ne L’evoluzione creatrice di Bergson. Naturalmente, in quella discussione è in gioco un problema antico: il problema del movimento e dell’illusione in rapporto alla struttura della conoscenza. Seguendo Deleuze, nel cinema si annuncerebbe qualcosa di nuovo, specificamente nel darsi immediato di immagine e di movimento, qualcosa «che sconfessa l’opposizione fra realtà fisica e psichica, esterno e interno, spazio e tempo» (p. 22). Fatto che per Carbone, come detto, va sempre inteso assieme al suo correlato metodologico, cioè la necessità di alterazione dell’habitus filosofico: «la “filosofia-cinema” si conferma chiamata non solo a pensare a quel nostro mutato rapporto con noi stessi, gli altri, le cose, il mondo di cui l’avvento del cinema è un sintomo», ma anche a ripensare totalmente, «secondo tale mutato rapporto, anche il proprio specifico stile di pensiero e di espressione» (p. 22).
Il problema non è epistemologico, ma etico-teorico: nel nostro rapporto con gli schermi si offrono nuovi accessi al pensiero? nuovi rapporti tra soggetto e percetto e assieme nuove morfologie filosofiche – un nuovo stile di pensiero – in grado di smuovere attempate posture intellettuali? Di nuovo, il faro è Merleau-Ponty. Non solo il Merleau-Ponty della conferenza Il cinema e la nuova psicologia tenuta nel ’45 all’Institut des Hautes Études Cinématographiques di Parigi, contenente riflessioni che influenzeranno non poco critici cinematografici e cineasti, da André Bazin agli autori della Nouvelle vague francese, su tutti Jean-Luc Godard. Ma soprattutto il Merleau-Ponty che oppone all’idea atomistica della sensazione, quella di un’indecomponibilità dei fenomeni percepiti. Carbone mostra in modo efficace come il modello dell’inerenza dell’io al mondo, unito al modello del rapporto indecidibile tra figura e sfondo nella visione, conduca Merleau-Ponty a sancire la qualità olistica dell’esperienza cinematografica: il film «non è una somma di immagini» ma direttamente «una forma temporale» (p. 27), ed è in questo senso che Merleau-Ponty rovescia Bergson, nell’idea che «la nostra abituale percezione non è analitica, bensì sintetica, e proprio per questo la si può considerare di natura cinematografica» (p. 31).
Su questa linea di lettura si innestano diverse annotazioni rilevanti. Ne segnalo solo un paio. La prima concerne il carattere di indispensabilità della superficie di mediazione, di ciò-che-sta-in-mezzo (inter-faccia), in ogni processo conoscitivo. La “conoscenza corporea” (ottenuta rilanciando la tematica delle idee sensibili, seguendo Proust, o di un sapere senza concetto, seguendo l’estetica kantiana) rappresenta una “terza via” gnoseologica. Lo schermo, cioè, è il mezzo, o il medium, che permette la conoscenza sensibile, nel senso greco dell’aisthesis, una conoscenza che per Carbone non è né soltanto filosofica, né non-filosofica, ma a-filosofica. La seconda concerne la qualità non solo spaziale, ma anche temporale, della reversibilità che ha luogo sullo schermo. La reciprocità tra sguardo e oggetto non riguarda solo lo spazio (come immersività di un corpo visto-vedente) ma anche il concatenamento tra causa e effetto. Carbone valorizza difatti una delle questioni più enigmatiche del pensiero dell’ultimo Merleau-Ponty, ovvero quella del movimento inteso come reciprocità d’anticipazione. Cosa viene cronologicamente prima, nella relazione visto-vedente? Né l’uno né l’altro. Ciò che viene prima è la relazione, in questo caso una relazione temporale. Nel cuore del chiasma visuale va posto un «movimento di mutua anticipazione tra i termini che sono implicati nella relazione» (p. 55). Nella visione (cioè nelle dinamiche attivo-passive della corporeità) il tempo si ri-forma. L’ultimo limite interno della metafisica può qui alterare la sua forma trascendentale: il tempo diviene più corporeo, opaco, ambiguo.
Questa dimensione di intreccio tra attività e passività nella visione è quanto Carbone chiama archi-schermo. L’archi-schermo non è lo schermo, ma la sua condizione di possibilità: matrice non percepibile di ogni percezione e funzione “terza” (né soggettiva né oggettiva; né attiva né passiva) che rende possibile ogni esperienza. In fondo, l’archi-schermo è la forma trascendentale della relazione in quanto tale, anche come «parte costitutiva della piega che consente la visione – [...] sfondo che ci fa vedere un’immagine» (p. 129).
Tuttavia, lo schermo concepito come elemento “terzo”, non rischia di vedersi privato in partenza di qualsiasi presa sulla realtà, permanendo nell’ordine della descrizione astratta o di uno sfondo inerte? Carbone prova qui ad ampliare lo schema fenomenologico, interrogando lo schermo mediante il tema del désir. Tramite il filtro del Lyotard dei primi anni Settanta, da Discorso, figura sino ai saggi Des dispositifs pulsionnels e L’acinéma, la questione diviene: che ne è del desiderio nella prospettiva fenomenologica? E come coordinare percezione e pulsione, nel quadro di una teoria della visione? Intendiamoci: questo riferimento a Lyotard è sintomo dell’esigenza di esplorare un’altra dimensione del corpo, quella che emerge seguendo il coté psicoanalitico della nostra relazione con gli schermi. Secondo quali vie, o impasse, lo schermo è sede di una proiezione inconscia? Lo schermo, difatti, può sempre diventare un luogo di intensità libidinale ed esso stesso oggetto del desiderio, fosse anche il desiderio limite della sua distruzione, come nelle belle pagine Il sipario strappato. Lyotard, lo schermo e un cinema che si chiama desiderio (pp. 67-86). Allo stesso tempo lo schermo è un dispositivo di distanziamento della pulsione, nel senso di una presentazione negativa. Lo schermo nega: protegge il soggetto nel mentre, ambiguamente, lo riannoda al tema del divieto e della Legge, cioè al tema della separazione dall’oggetto desiderato. Sullo schermo convergono desiderio e divieto: in quanto velo che impedisce l’accesso visivo a ciò che sta dietro, lo schermo ri-vela l’oggetto interdetto.
Questa modalità di pensare l’invisibile, evidentemente discorde da quella de Il visibile e l’invisibile merleau-pontiano, ha quindi a che fare con le dinamiche di una esibizione negativa che si attua entro uno scarto tra vedere e desiderare di vedere. Naturalmente, tenere assieme Merleau-Ponty e Lyotard non è un’impresa semplice. Questa ibridazione mi pare uno dei punti più interessanti del libro: Filosofia-schermi può essere letto anche come una domanda sul postmoderno, sui suoi esiti, su alcune vie che sono state percorse (Lyotard) e su quelle (Merleau-Ponty) che sono state abbandonate, per dirla in modo grossolano, dal post-strutturalismo francese. È anche un libro che apre alla questione: come parlare del corpo, in un mondo di schermi? E, di qui: come si può dare corpo a un pensiero critico permanendo nel gioco di specchi tra realtà e finzione, tenuto conto che – indipendentemente dal giudizio sul portato teorico e politico del postmoderno – i nostri corpi letteralmente si formano anche in questo nuovo elemento ambientale? In questo senso, il tema dello spostamento del desiderio credo possa venir letto in direzione di un’integrazione dello schema fenomenologico con un elemento più direttamente storico e politico, ma anche teoretico. Storico e politico perché il dispositivo desiderante muta, così come si modificano i dispositivi della visione, così come, correlativamente, la tecnologia delle interfacce si modifica poiché riflette le mutate condizioni di assoggettamento storiche e materiali… Teoretico perché, come dicevo, Carbone si domanda quale possa essere, se ve ne è uno, il posto della pulsione nel quadro di una filosofia della percezione e della corporeità.
La seconda parte del libro, in effetti, esplora le manifestazioni empiriche degli schermi, lungo l’asse della mutazione del desiderio, ma facendo costante riferimento alla «storicità della visione» e al «cambiamento del dispositivo ottico assunto a modello di quest’ultima in una determinata epoca» (p. 80). Questa parte del libro è quella più dinamica, densamente popolata da esempi teorici (ad esempio i nessi tra i dispositivi della finestra, della cornice e dell’inquadratura) e da case studies che spaziano dallo schermo interattivo Forever 21 in Times Square sino al fenomeno dei news-media, canali tematici dedicati alle previsioni del tempo che generano forme di screen addiction in milioni di persone. Ma qual è il bilancio di questa traversata dello schermo?
Innanzitutto, l’idea che la relazione con lo schermo non sia affatto neutrale o accidentale, ma che configuri un momento preliminare all’agire politico. E questo in virtù della stretta implicazione tra visione e vita: «il modo in cui crediamo di vedere condiziona quelli in cui crediamo di pensare nonché di stare al mondo. E viceversa» (p. 111). In secondo luogo, l’esplorazione dell’esistente compiuta da Carbone conferma ancora na volta l’ambiguità dell’“oggetto” schermo: se da una parte esso rinvia al simulacro istituito, dall’altra esso rinvia a una inesauribile relazione alla corporeità. Carbone ci consegna, da questo punto di vista, un finale aperto: «potenziata, delegata, anestetizzata, la sensibilità umana risulta insomma attualmente soggetta a una mutazione così profonda da poterne intuire la decisiva portata, ma non certo gli esiti meno prossimi» (p. 145).
In fondo, noi non sappiamo che cos’è uno schermo: oggetto o funzione, esso slitta continuamente all’interno delle maglie del nostro sapere. Non si può neppure escludere, ricorda Carbone, che un domani gli schermi possano anche… sparire. La funzione-schermo, per esempio, potrebbe essere riassorbita in forme di augmented reality, cioè una realtà virtuale fortemente integrata nel corpo. Si realizzerebbe così il paradosso per cui alla massima evoluzione dello schermo corrisponderebbe la sua eclissi: il nostro poterne fare a meno. Ma se anche sparissero gli schermi, sostiene Carbone, resterebbe la struttura dell’archi-schermo: «la cultura umana è sempre stata ossessionata dalla ricerca di variazioni di un “archi-schermo” al fine di poter vedere le immagini […]. Perciò, benché ormai siano molti ad annunciare la sparizione prossima degli “schermi”, io ritengo che questo non varrà per l’“archi-schermo”» (p. 109). La filosofia da fare di cui parla Carbone non potrà non tenere conto di questo riferimento all’archi-schermo, qualcosa che, come la chora platonica, permette alle forme di formarsi, pur non avendo una propria forma. Una sorta di trascendentale storico che funga da centro vitale per il formarsi di nuove relazioni: esistenziali, sociali o politiche. Anche in questi passaggi conclusivi è il pensiero di Merleau-Ponty che ritorna: «non c’è visione senza schermo», affermava ne Il visibile e l’invisibile, giacché «noi non conosceremmo meglio le idee di cui parliamo se fossimo privi di corpo e di sensibilità, in questo caso esse ci sarebbero anzi inaccessibili» (p. 106). Ed è in questo senso che, per Carbone, si può parlare di una nostra «esperienza primordiale dell’archi-schermo» (ibid.).
Sul piano filosofico, ciò significa che nella figura dell’archi-schermo trovano una mediazione produttiva due dinamiche fondamentali. Da un lato una dinamica conoscitiva che, pur profondamente criticata, non sparisce ma si ri-forma a contatto con gli schermi. Dall’altro lato una dinamica percettiva, legata all’imprevedibilità del corpo e al suo poter sempre sottrarsi agli automatismi maggiori dell’epoca. Così, la nostra esperienza sarebbe strutturata a partire da una forma trascendentale, l’archi-schermo, che non è mai un trascendentale “puro”, bensì un trascendentale incarnato o storico. Non dunque una “schermità” cripto-platonica, solo astratta e dunque metafisica, e neppure uno schema plotinian-goethiano (l’informe preumano – l’Abgrund del Faust, come fondamento (Grund) abissale – da cui emergono le forme), bensì un trascendentale già da sempre corporeo.
Per Carbone, lo schermo deve essere estetico-spaziale, pena la sua inesistenza storica. Lo schermo fa corpo con le sue manifestazioni al punto tale che – come il corpo – ammette persino l’alterazione della propria forma attuale: un de-trascendentalizzarsi nel mentre si dispiega storicamente e esistenzialmente. E, tuttavia, lo schermo nel suo dare forma all’esperienza e allo spazio, ne tocca anche l’eccesso: «è lo schermo a mostrare il carattere eccedente dello spazio cui è correlato» (p. 107). Tutto ciò è già nell’ordine del concreto, dell’intervento efficace sulla realtà, in quanto l’archi-schermo «risulta, per il suo carattere eccedente, una superficie che istituisce relazioni» (ibid.).
In ultima analisi, Carbone ci propone non solo un libro sullo schermo, ma un libro che prova a pensare attraverso l’ambiguità dello schermo: oggetto “terzo”, nella propria capacità di intermediazione, ma anche oggetto “dialettico” che ripristina, nel suo uso, il desiderio e l’istituzione. Oggetto che permette di pensare, assieme, il 3 e il 2.