L’auto-orientalismo italiano / Dal cinema di mafia al Made in Italy
L’“altrove” non è solo un luogo fisico. È il termine di una relazione che concorre, per differenza, a definire il “qui”. Tuttavia, a differenza dei grandi paesi coloniali, l’altrove rispetto al quale si definisce l’immaginario nazionale italiano non è esterno ai propri confini, ma fissato in un tenace catalogo di stereotipi che oppone Nord e Sud. Questa è una delle idee da cui muove l’ultimo libro di Emiliano Morreale, La mafia immaginaria. Settant'anni di Cosa Nostra al cinema (1949-2019), uscito per Donzelli nell’agosto 2020: “La Sicilia e la mafia sono un luogo in cui dislocare contraddizioni, un dispositivo che opera (come il sogno secondo Freud) per condensazione e spostamento”. Non solo nello spazio, anche nel tempo. La mafia è quasi sempre, nel cinema, “mafia d’una volta”. La storia del mafia movie è anche e soprattutto la storia di uno sguardo pubblico, d’un atteggiamento culturale nostalgico.
Questo sguardo si forma essenzialmente nel e attraverso il cinema, benché propaghi i suoi effetti ben al di là della sfera cinematografica. Secondo Morreale infatti, a parte pochi ma significativi riferimenti letterari (Sciascia, Tomasi di Lampedusa) e politici (Pantaleone), il mafia movie è un genere alquanto autoreferenziale. L’idea d’Italia e di mafia che veicola, a cui molto deve la nostra coscienza “storica”, si costruisce soprattutto all’interno del mondo dei media.
Naturalmente queste idee variano nel tempo, da In nome della legge a Il giorno della civetta, dal Padrino a I cento passi, da La trattativa a La mafia non è più quella di una volta. Tuttavia, leggendo il libro, e in particolare le parti dedicate alla “stagione più significativa” del mafia movie, che si svolge tra gli anni ‘70 e ‘80, viene l’idea che esista uno zoccolo duro del mafia gaze attraverso il quale tutt’oggi siamo chiamati a identificarci. Vediamo quali sono i suoi tratti.
Il primo è l’ambientazione. Lo sguardo è puntato sulla Sicilia, “quintessenza dell’Italia”, “il suo cuore di tenebra”: selvaggio west nel quale la modernità si specchia con timore. Una Sicilia senza mare che restituisce un paesaggio all’americana, interamente rivolto verso l’interno e il latifondo. Ma invece dei tradizionali rotolacampo troviamo i fichi d’india, e al posto delle diligenze, le corriere. Successivamente le ambientazioni si urbanizzano, preparandosi ai più moderni innesti del poliziottesco e del crime. Ma la campagna (la cui immagine è assemblata da riprese fatte in tutto il centro-sud Italia) resta un altrove mitico dove la Legge è sospesa da una struttura antropologica più profonda, mentre il confronto tra i protagonisti avviene in una realtà essenzialmente urbana (come nel Giorno della civetta di Damiano Damiani, 1968; in Lucky Luciano di Francesco Rosi 1972; nella saga del Padrino di Francis F. Coppola, 1972, 1974 e 1990). Il tutto, sullo sfondo di musiche western, aggiornate, in Damiani e nei suoi epigoni, dal contributo di Ennio Morricone. Persino le scelte di casting servono all’incontro tra western e neorealismo: nel Giorno della civetta, ad esempio, tutti i protagonisti sono volti noti dello spaghetti western.
Il secondo tratto è il voyeurismo. In fondo il mafia gaze è una forma particolare di male gaze, ossessionato da dettagli di corpi femminili, sensuali ma castigati, fasciati di nero ma sempre accidentalmente scoperti. Dal canto loro, il protagonista e il capomafia si sfidano e spiano a colpi di sguardo, ma pure s’intendono e l’uno nell’altro si specchiano. A spiare è soprattutto il regista/narratore, la cui cinepresa, con panoramiche e semi-soggettive, lambisce i personaggi e la Città da tutte le angolazioni, identificandosi con lo sguardo del Potere, anonimo, “totalizzante”. Lo stesso sguardo dei “misteri d’Italia che dominerà il cinema politico negli anni settanta […]”. Come in Cento giorni a Palermo (1984) di Giuseppe Ferrara o in Pizza connection (1985) di Damiano Damiani.
Il che ci porta al terzo tratto, il rapporto tra sguardo e soggettività dei personaggi. Gli eroi dell’antimafia sono continuamente schiacciati, ingannati, traditi dalle logiche politico-economiche dello sguardo del Potere. Chi, invece, sembra avvicinarsi a una “visione dell’alto” è il più delle volte il capomafia, o comunque chi sta dalla parte del male. Legato in qualche modo a un passato tradizionale, elegante, borghese, il capomafia possiede la verità gattopardesca dell’immutabilità del potere, ed è lui, nella maggior parte dei casi, a tirare la morale della storia – dal don Mariano di Damiani al Lucky Luciano di Rosi (1973), ai “cattivi” di La piovra (1984-2001).
Questo excursus potrebbe sembrare anacronistico e parziale. Il mafia movie è molto più di questo e Morreale segue con dovizia tutti i suoi più recenti sviluppi. Se ci siamo soffermati su questa stagione, è perché i suoi stilemi sono gli stessi del più recente Made in Italy. Per convincercene, prendiamo l’ultimo spot del marchio di moda Dolce & Gabbana per il profumo “K” (settembre 2019). Protagonista è Mariano Di Vaio, modello e imprenditore: così come allora, l’azienda di moda ha utilizzato la strategia di casting di creare un ponte tra generi individuando un volto noto altrove.
“K” sta per king e, nelle intenzioni progettuali dell’azienda, rappresenta “un re nella vita di tutti i giorni. Segue la propria strada, prediligendo, sopra ogni cosa, la famiglia e i suoi cari. Fedele alle sue radici, rispetta le tradizioni senza mai rinunciare alla modernità.” Alcuni di questi tratti erano già saldamente presenti nella rappresentazione utopico-tradizionalista del capomafia del mafia movie anni ‘70: legato alla terra, ben voluto dai suoi (tutti maschi), elegante, borghese. Se li ritroviamo nello spot è solo perché il mafia movie è stato (anche) tradizionalista, allo stesso modo in cui lo sono tutt’oggi Dolce&Gabbana nel loro modo di ispirarsi al cinema neorealista (rivendicato anche nel titolo dello spot, “Il film”). Di Vaio è stato scelto poiché basa il suo personal branding sui medesimi valori di K: famiglia, tradizione, successo. Ma qui, in più, Di Vaio è inserito in una cornice narrativa che avvicina il successo imprenditoriale alla conquista del Potere, quella dell’ascesa al trono. Le inquadrature contribuiscono a costruire lo sguardo dello spettatore sulla vicenda e sul protagonista: inizialmente vediamo Di Vaio dall’alto, nella sua azienda vitivinicola, mentre lo spot si conclude sul borgo di Montepulciano, da dove il protagonista, con una panoramica from the top of the hill, lancia uno sguardo proprietario alla campagna circostante. La progressione narrativa porta perciò a far coincidere la prospettiva di questo affascinante latifondista con lo stesso sguardo dall’alto che, nel mafia movie, caratterizza l’onniscienza del Potere (e del capomafia). Mentre lo sguardo dello spettatore, distolto dall’erotismo del corpo femminile, è ormai concentrato sui particolari del corpo scoperto di Di Vaio, in una sorta di auto-rispecchiamento del male gaze.
Proprio come nel mafia movie, l’ascesa al potere si svolge su un paesaggio western italianizzato. Vi ritroviamo la separazione tra borgo e campagna, town e hacienda: una distanza che l’eroe percorre su strade deserte, con l’aiuto di una moto-destriero, in un paesaggio dell’entroterra – con la differenza che l’azienda è lo spazio della performance e il borgo è quello del riconoscimento sociale (non quello della resa dei conti come nel western). Ritroviamo la colonna sonora: una versione remix del brano di Morricone tratto dal film Il buono, il brutto e il cattivo. Ritroviamo anche l’atmosfera nostalgica e la collocazione in un tempo mitico, insieme passato e presente, con i personaggi dello spot vestiti in bianco e nero, uno stile rétro ma impeccabile. Poco importa che questo spot sia ambientato in Toscana: la narrazione e la rappresentazione dell’Italia e del Made in Italy, all’estero e per il mercato interno, riproduce dei topoi geografici che il cinema ha ormai generalizzato. Ciò che è rilevante è l’equivalenza tra il modello della società tradizionale, così come rappresentata nel cinema, e l’italianità.
Dolce & Gabbana, uno dei moderni ambasciatori dell’Italia nel mondo compie quindi un’operazione paradossale. A differenza del tradizionale ruolo di ambasciatore, che porta le ragioni del “qui” “altrove”, il brand di moda porta le ragioni di un “altrove”, nel tempo e nello spazio, sia “altrove” – ovvero nel mercato del lusso internazionale – sia nel “qui” – cioè nella rappresentazione dell’Italia che ha di se stessa. In tal senso, il libro di Morreale rivela un’inaspettata attualità anche al di fuori del campo di ricerca di cui si occupa.