L'altro che ci fa ridere / Jean Talon, Incontri coi selvaggi
È quando perdono qualsiasi significato credibile che le parole acquistano una seconda esistenza, integralmente poetica. Un po’ come accade alle vecchie monete nelle collezioni numismatiche. Un tempo valevano determinate quantità di cibo, di stoffa, di terreno coltivabile, e adesso eccole qui, coi profili dei tiranni e gli animali araldici, capaci al massimo di valere altri soldi, esiliate per sempre dai confini della vita. Non molto diverso è il destino di tutte quelle parole destituite di fondamento da veri o presunti progressi delle conoscenze. Fanno tutte parte, almeno in potenza, della letteratura perché solo un timbro personale, un allegro o disperato soggettivismo, può conferire loro una parvenza di animazione. Fra questi zombie lessicali, «selvaggio» è una vera risorsa per l’immaginazione. Una delle caratteristiche più attraenti della parola, è quella, abbastanza palese, di essere moralmente riprovevole, per i noiosi motivi che tutti sanno. Non solo non è mai esistito un solo selvaggio se non nella mente malata dell’uomo bianco, ma è risibile lo stesso concetto di «stato di natura», con il suo corollario del «buon selvaggio». Solo i mentecatti credono buona la natura, e comunque la natura – questa indomabile e malvagia psicotica – non ha mai insegnato all’uomo nulla di buono.
Ma è proprio su questa tabula rasa che il fantasma del selvaggio, escluso dal reale, diventa un ottimo espediente letterario. Soprattutto in senso comico o ironico, come dimostra Jean Talon nei suoi avvincenti Incontri coi selvaggi (Quodlibet, pp. 204, euro 15): uno di quei rarissimi libri contemporanei che addirittura, giunti all’ultima pagina, si vorrebbero più lunghi. Talon coglie perfettamente l’aspetto comico della questione. Come si sa, il comico è il più conservatore dei registri artistici: nel senso che si avvale di espedienti eterni, che poi sono gli unici efficaci. Se leggiamo Euripide, o lo vediamo a teatro, difficilmente proveremmo qualcosa di simile alla catarsi di Aristotele – non sappiamo più nemmeno cosa significhi realmente la parola. Aristofane, invece, in mano a un buon regista, fa ancora ridere, eccome. Ora, uno dei trucchi più eterni ed efficaci del comico è il totale sovvertimento di tutta la sfera del reciproco comprendersi. E Jean Talon ha buon gioco nel pescare i materiali dei suoi racconti nelle relazioni di viaggi in paesi remoti, e poi nei diari e nei libri di etnografi, esploratori, antropologi. Si va dalle memorie di Alvar Nunez Cabeza de Vaca, partito nel 1527 alla scoperta della Florida, fino ai Cannibal Tours organizzati alla fine del secolo scorso da agenzie che promettevano ai clienti «il viaggio più esotico che si possa fare al mondo». Ma il risultato è sempre lo stesso: si potrà pure ritornare a casa sani e salvi dal «mondo selvaggio», il che è già molto, e magari pure con un bagaglio di conoscenze tutt’altro che trascurabili. Ma l’ombra di un beckettiano fallimento incombe, a conti fatti, su tutti questi incontri ravvicinati con l’alterità. Da questo punto di vista, il libro di Talon (non so quanto volontariamente) potrà essere interpretato come una salutare antidoto a tutta quell’aura di sublimità che una certa nobile filosofia, soprattutto francese, ha attribuito ai concetti di «altro», «alterità» e così via. Fondare un’etica e una visione del mondo sul presupposto della bontà dell’«altro» è una follia uguale e contraria al pregiudizio sulla sua malvagità.
Talon si ritaglia uno spazio narrativo vagamente fantozziano, libero da questa opprimente alternativa, nel quale l’«altro» è qualcuno che fa ridere o, in alternativa, qualcuno che ti piglia per il culo. Questa è la vera utopia, il paradiso in terra. Tanto più che il non comprendere, o se vogliamo la comprensione parziale e deformata, sarà un problema dal punto di vista angustamente scientifico, ma è capace di creare meravigliose mitologie. Si legga in questa chiave il capitolo del libro di Talon intitolato Bronislaw Malinowski e l’amore libero. Vivendo tra i nativi dell’arcipelago delle Trobriand, Malinowski scoprì, o pensò di scoprire, una società così libera dal punto di vista dei costumi sessuali da giustificare lo scalpore suscitato, ben oltre i confini accademici, dal suo capolavoro, La vita sessuale dei selvaggi, pubblicato nel 1929. Un freudiano geniale e poco ortodosso come Wilhelm Reich non aspettava altro che una documentazione del genere per elaborare le sue teorie sulla morale sessuale coercitiva. In realtà, quella documentazione era tutt’altro che oggettiva. Stranamente, lo stesso Reich non sospettò nemmeno l’ombra di una gigantesca proiezione. Quanto alla libertà, quei melanesiani vivevano in un reticolo di tabù diverso, ma non meno coercitivo di quello di moltissime società. Il fatto è che la libertà sessuale è un fatto possibile, ma meramente individuale: nessuna società è in grado di promuoverla. L’errore, come sempre, era nel tipo di domande che lo studioso poneva ai suoi informatori. Decenni dopo, qualche vecchio nativo si ricordava ancora di quel bizzarro uomo bianco che, a differenza dei missionari, continuava a fare domande imbarazzanti sul sesso: non tanto imbarazzanti, però, da far rifiutare ai nativi il tabacco offerto in cambio delle interviste. In qualche modo, siamo tutti trobriandesi, perché se siamo trattati bene, tendiamo a rispondere a chi ci interroga fornendogli proprio le informazioni che vorrebbe sentire.
Come se ne esce? Ne esce solo chi ha la saggezza di cominciare la sua ricerca solo dopo aver capito qual è la domanda giusta. Una sola assenza mi ha stupito nel libro di Talon, quella del grande Marcel Griaule, lo studioso della cosmogonia dei dogon del Mali, l’autore di Dio d’acqua. Mi aspettavo di trovarlo in Incontri con i selvaggi perché Talon, prima di diventare uno scrittore, ha rivestito i panni, non meno difficili da indossare, di personaggio di un libro altrui. È lui infatti il deuteragonista, o se si vuole la «spalla», delle strepitose Avventure in Africa di Gianni Celati. Ad ogni modo, Griaule aveva trovato una chiave per entrare in una delle culture più enigmatiche e diffidenti del mondo, e questa chiave non era una teoria o una scoperta, ma una domanda da porre. «Chi viene a bere il sangue dei sacrifici?» Quando i sapienti dogon si sentirono interpellati in quel modo, capirono che parlare con quel francese armato di taccuino e matita non sarebbe stata una perdita di tempo. Noi passiamo la vita a cercare risposte, e poco ci occupiamo di come formulare le nostre domande. Ed è per questo che il nostro tempo trascorre nell’ignoranza. I Griaule si contano sulle dita di una sola mano: e non sto parlando dell’antropologia, ma del sistema delle conoscenze in generale. Tornando al libro di Talon, mi colpisce l’unico caso di autentica empatia e reciproca comprensione che ci viene raccontato. Perché da una parte c’è un uomo, il grande esploratore artico Knud Rasmussen, e dall’altro un tipo molto particolare di «selvaggio»: un orso bianco. Quella di Rasmussen inizia come una storia di caccia. Ma a un certo punto, la situazione cambia radicalmente, perché il cacciatore e la bestia cacciata si ficcano in un guaio letale per entrambi. E mentre lottano per la vita, Rasmussen scorge negli occhi dell’orso qualcosa che non avrebbe mai immaginato di vedere: la riconoscenza.
Cosa ci vuole dire Talon, infilando questo aneddoto nella sua raccolta di incomprensioni? È più facile intendersi con un orso bianco che con un qualunque bipede appartenente alla razza umana, che sia un cannibale della Nuova Guinea o nostra moglie? È un bel tema da meditare, mi sembra. Che l’uomo sia l’unico animale dotato di linguaggio ce lo insegnano a scuola; che poi capisca quello che dice e quello che ascolta, è tutta un’altra faccenda.