Un capolavoro di noia / Gerard Reve, Le sere

21 Luglio 2018

«Il libro non si presta a una massiccia campagna pubblicitaria, visto che non è fatto per il grande pubblico. Molti librai si sono già rifiutati di venderlo. La direzione ha ricevuto una quantità di lettere in cui i lettori manifestavano la propria ripugnanza. Il fatto che ci siano circa mille esemplari ancora non rilegati e difficili da piazzare prova che il libro è “morto e sepolto”». 

 

Il libro in questione è De avonden, scritto nel 1947 da Gerard Reve, e considerato il superclassico della letteratura olandese del novecento. Si descrivono gli ultimi dieci giorni del 1946, così come li vive l’adolescente Frits van Egters, palese alter ego dell’autore, e così come ce ne parlerebbe Kafka se fosse lo sceneggiatore di sitcom ambientate nel dopoguerra in un quartiere periferico di Amsterdam. Benché nel romanzo non accada nulla, e nonostante i settant’anni di ritardo, la stampa anglosassone ha accolto calorosamente la traduzione inglese, senza lesinare sulla parola “classico”. Anno 2018 Le sere approda in Italia per le cure di Iperborea. “Morto e sepolto”: come mai nel 1949 De Bezige Bij, l’editore presso cui uscì il libro, ci vide così corto?

 

 

Fin dalla sua prima apparizione, Le sere ha diviso il pubblico tra chi lo salutava come il romanzo di una generazione e chi ne censurava l’inopportuno nichilismo. Ancora oggi, mentre il libro scompare dai programmi scolastici e un manipolo di fanatici ne perpetua la memoria rileggendolo negli ultimi dieci giorni dell’anno, non pochi si chiedono che significato possa avere per le giovani generazioni «quell’aria di cavolo e pane vecchio, quelle porte scorrevoli, le strade luccicanti del Plan Zuid di Amsterdam, gli “ohi, ohi” della madre di Frits, le maglie bianche che è costretto a indossare, le aringhe (quasi) andate che finiscono comunque a tavola, le frittelle con pezzetti di mela di forma sbagliata, il “vino” ai frutti di bosco e mela». Per finire, l’opinionista di oggi rivolge al libro l’accusa tipicamente olandese di essere “troppo tipicamente olandese”.

 

In un periodo di polarizzazioni identitarie, rimproverare a un libro di essere troppo olandese sembra un’osservazione figlia del proprio tempo. Eppure, qualcosa di olandese, in Le sere, c’è, e venne notato sin da subito. Per lo sferzante romanziere e polemista W.F. Hermans, infatti, «la capacità di osservare accuratamente, con particolare attenzione per la mentalità borghese da soggiorno, rientra a pieno titolo nella tradizione del romanzo olandese», per poi aggiungere che Reve, pur scrivendo un romanzo olandese, ha saputo, come pochi altri colleghi, dargli un respiro internazionale. Al contrario, per Harry Mulisch e per il saggista Rudy Kousbroek lo stile “provinciale” di Reve, se ne ha preservato l’ispirazione, lo ha reso anche intraducibile: opinione parecchio riecheggiata e, come ogni traduttore sa, priva di fondamento. Fatto sta che, accanto al difficile rapporto con gli eredi e alla penuria di traduttori dal neerlandese, è stato proprio il paradossale provincialismo dei Paesi Bassi a confinare De avonden, come del resto molti dei migliori romanzi olandesi, a un’angusta rilevanza. Se non fosse per la splendida traduzione di Fulvio Ferrari, dovremmo rammaricarci di questa lunga attesa. Perché un libro vecchio di settant’anni, se alla fine viene tradotto e pubblicato, si fa appena in tempo a definirlo un “classico” prima ancora di averlo sottoposto a una riflessione critica, che già finisce sepolto dalla frenetica produzione editoriale.

 

Le sere ci mette del suo per passare inosservato. Non fa sfoggio di trovate spiazzanti, non tenta la strada della sperimentazione formale e non ci accompagna in intrecci labirintici. Il che, per uno scrittore all’epoca ventitreenne, ha del prodigioso: chi non scalpita, a quell’età, per dimostrare a tutti che maneggia con ostentata disinvoltura lo strumento letterario? Per l’esordiente Reve, invece, l’ambizione letteraria non deve frapporsi all’ambiziosa volontà che rende questo libro unico: raccontare la noia prendendosi il rischio di annoiare. Con la sua inconfondibile commistione di serietà e ironia, di maniacale precisione e confuso esibizionismo, Reve riesce là dove i cantori dell’ennui hanno fallito, quando nei loro resoconti del male di vivere hanno dato fondo a tutte le proprie risorse intellettuali obbedendo a una tacita convenzione dell’arte narrativa: parlare sì della noia, ma come se fosse la più variopinta delle esperienze. Ad esempio Sartre, che ha riccamente tematizzato la noia («non ho alcuna intenzione di divertirmi a metter tutto questo sulla carta», prova a discolparsi Roquentin sin dalla prima delle 250 pagine di La nausea), ma con un acume analitico che, di fronte alla sobria resa descrittiva di Le sere, rivela il proprio carattere zelante e programmatico. Si potrebbe dire che Le sere sta alla noia come La nausea sta alla parafrasi della noia. In una dichiarazione di poetica, Reve è esplicito al riguardo: a suo parere, in un racconto ambientato in una stanza d’albergo, in cui la solitudine è una tonalità essenziale, si farebbe bene a non nominarla mai direttamente, ma a evocarla descrivendo «la stanza, la luce, l’odore, dove affaccia, la carta delle caramelle al latte o le bucce lasciate in giro».

 

 

In un famoso close reading dell’opera, il critico Kees Fens notò con sottigliezza che «le descrizioni dettagliate dello spazio suggeriscono un’oppressione, una mancanza di spazio; la descrizione accurata del tempo che passa suggerisce un eccesso di tempo». Per Frits descrivere, osservare, ricordare è il dovere ossessivo di colmare i vuoti, fin nei suoi risvolti comici. «Il padre raggiunse la stufa, afferrò la maniglia dello sportello e lo aprì con un gran fracasso. “Sporcherà dappertutto”, pensò Frits, “e io devo stare a guardare. Perché non posso smettere di guardare?” Il padre batté la pipa ripetutamente e con forza contro il bordo dell’apertura e parte del tabacco carbonizzato cadde sul pavimento. Poi richiuse lo sportello con un colpo fragoroso». L’episodio dà misura al tipico passo reviano: sobrio e tripartito, una specie di greve slapstick. La sintassi ordinata e la composta successione delle frasi sono però di continuo attraversate e accelerate da un senso di impazienza, di sfiduciata attesa del futuro, che sono poi il moto stesso della noia. Per finire, Reve si serve di una qualità intrinseca all’arte narrativa, la durata, per conquistare il lettore ai punti: è proprio grazie al ripetersi dello stesso schema narrativo che piano piano ricalibriamo il nostro abituale ritmo di lettura su quello della prosa reviana, soffermando la nostra attenzione su ogni singola parola. Qui, in questa grammatica del tedio, Reve riabbraccia una dimensione poetica, ma integralmente antilirica, che conferisce al libro la sua toccante disperazione.

 

Reve non ha mai fatto mistero di incontrare enormi difficoltà nella scrittura e, allo stesso tempo, di non poterne fare a meno. Tra gli stimoli che lo spinsero a scrivere, decisivo fu quello dello psichiatra junghiano che lo seguì in quegli anni segnati da crisi depressive e da un tentato suicidio. La noia di Frits è anche la vergogna di Reve a buttar giù la frase seguente e il suo impaccio con la forma romanzo: Le sere è in primo luogo una cronaca, quasi il diario di una ossessionata telecamera, che inchioda il romanzo, una volta di più, al suo bisogno di subordinare tutto all’intreccio. Soltanto nel capitolo finale, dopo una lunghissima attesa, sembra innescarsi un meccanismo romanzesco: stavolta, i battibecchi casalinghi sembrano sul punto di esplodere assieme ai fuochi d’artificio di Capodanno; il consueto tono biblico di Frits si tinge della disperazione del Cristo in croce; la parodia – perché Le sere è soprattutto una parodia della vita domestica – si converte quasi in tragedia. 

 

In tutto questo, Frits è un personaggio indimenticabile. La parodia non risparmia nemmeno lui, così consapevole che la vita in società è un gioco di ruoli. La sua buona volontà, i suoi sensi di colpa, il crudo controcanto dei suoi pensieri, ci fanno affezionare agli assurdi rituali della sua tribù famigliare. È una fortuna che Reve abbia scritto Le sere mentre era ancora coinvolto nelle atmosfere che ha saputo ricreare con tanta lucidità. Perché già a trent’anni non si sa più cosa sia la noia, e ripensando all’adolescenza, in cui la noia era un orizzonte ineludibile, ci chiediamo inorriditi: ma com’è stato possibile?

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