Victor Stoichita, l’Europa in cornice
Homo Europæus dalla cima dei capelli alla punta delle scarpe, anche fisicamente Victor Ieronim Stoichita pare provenire da un altro tempo. Impeccabilmente, invidiabilmente parlante tutte le lingue del Continente (il suo italiano è stupefacente), è oggi fra i maestri assoluti di una disciplina, la storia dell’arte, che per sua natura abbraccia uno spazio al di là di tutte le lingue e tutte le frontiere. L’Europa in cui è nato (nel 1949 a Bucarest), quella in cui ha scritto (principalmente in francese) e insegnato (dal 1991 all’Università di Friburgo, in Svizzera) sono state, nel tempo della sua formazione e della sua maturità, per antonomasia il luogo dell’apertura e del dialogo. Lo ricorda lui stesso, in abbrivo alla bellissima conferenza (colla quale ha inaugurato nel 2018 il corso di Cultura Europea che è stato invitato a tenere al Collège de France) su Les Fileuses de Velázquez. Textes, textures, images (Fayard, pp. 52, € 12): l’etimologia di «Europa» viene da due parole greche, eurýs («largo, esteso in lontananza») e óps («sguardo, occhio»), sicché rinvia a uno sguardo esteso. L’Europa ha occhi vasti e profondi: proprio come quelli – abbaglianti di celeste – con cui Stoichita mi guarda, lievemente divertito ma dai modi sempre squisiti, mentre squaderno i suoi libri (una piccola parte dei suoi libri) sul tavolo dell’albergo romano in cui ci siamo dati appuntamento, e che ha un nome inevitabile: Hotel Cosmopolita.
L’occasione della sua visita è stata la ricca mostra su Ovidio alle Scuderie del Quirinale, ed è stato anche festeggiato dall’Accademia di Romania: cioè il luogo in cui risiedeva quarant’anni fa, quando studiava con Cesare Brandi. Di quella residenza a Roma, risultata poi davvero decisiva, si favoleggia a lungo nel primo volume della sua autobiografia, uscito nel 2014 da Actes Sud e ancora non tradotto da noi: il titolo, Oublier Bucarest, suona duro colla propria terra d’origine (ma forse solo per un lettore italiano). Il volume successivo, proprio sugli anni passati in Italia, Stoichita lo sta scrivendo nelle pause dei suoi vagabondaggi, delle sue mille conferenze e seminari. Una vita da clericus vagans, invidiabile quanto inattuale: in lungo e in largo per un continente che all’improvviso rialza muri e dazi, frontiere che ci eravamo illusi di esserci lasciati alle spalle e che, solo qualche decennio fa, hanno sparso il sangue di milioni di europei. L’albergo in cui chiacchieriamo si trova a due passi da Piazza Venezia: qui fu dichiarata una guerra che il paese in cui ci troviamo lo uccise, quasi. La prima cosa che gli chiedo è quanto l’Europa di oggi sia ancora quella della sua giovinezza, e cosa abbia ancora da insegnare al «mondo grande e terribile» di cui parlava Gramsci.
S.: È un sentimento ambivalente, il mio. Perché è vero che mi sono sempre sentito un cittadino europeo, ma è vero pure che sono nato e cresciuto in un paese chiuso e diffidente come la Romania, anche se per fortuna in un ambiente famigliare intellettualmente molto aperto. Quella di allora era un’Europa fatta di centri e periferie; per gli intellettuali rumeni di allora il centro restava Parigi, ma anche Roma e il suo mito avevano lo stesso significato. Questa nostalgia del centro, una volta partito dalla Romania, mi è passata. L’Europa è riuscita a rifondarsi proprio lasciando da parte questa scissione, fra centro e periferie, che non ha più motivo di esistere.
C.: Fra l’altro dove vivi è quasi esattamente il centro, in senso geografico, dell’Europa.
S.: Questo si deve a un caso… L’Europa di oggi mi dà un senso d’inquietudine, come a tutti. Cerco di restare ottimista, di pensare all’Europa come a un’unità culturale che, sulle basi greco-romane e giudeo-cristiane, tanto ha dato al mondo intero. Per evitare la disgregazione che rischia, forse l’Europa deve recuperare proprio la sua funzione di centro ideale, non vergognarsi di averla svolta, smettere di sentirsi sempre così in colpa. Credo che il mondo abbia ancora bisogno dei nostri valori.
C.: Il tuo ultimo libro uscito in italiano, L’immagine dell’Altro (vedi la recensione di Valentina Manchia) recensito è dedicato proprio al costituirsi dell’identità europea attraverso lo sguardo rivolto, spesso in termini piuttosto discutibili diciamo, sull’altro da sé.
S.: Sono partito da una domanda: come si forma l’immagine dell’alterità in un’epoca chiave, fra Rinascimento e Barocco, in cui si cristallizza un canone estetico europeo basato su una certa nozione di bellezza e armonia, prospettiva, spazialità e composizione? Qual è il posto dell’Altro, in questo cosmo perfettamente ordinato?
C.: Lo studioso che ha più riflettuto sulla categoria dell’esilio, Edward Said, invitava a distinguere tra l’esiliato vero e proprio, l’espatriato e l’emigrato: tre figure contigue ma che si muovono per motivi diversi (anche se queste distinzioni non vanno troppo irrigidite, in un tempo in cui le destre insistono a distinguere fra il «rifugiato» e il «migrante economico», come se la fame non fosse un motivo serio per espatriare…). In uno dei suoi saggi Said cita Auerbach, che a sua volta cita un passo del teologo del XII secolo, Ugo di San Vittore…
S.: … «l’anima acerba concentra il suo amore su un posto nel mondo; l’uomo forte ha esteso il suo amore a ogni posto nel mondo; l’uomo perfetto l’ha saputo estinguere». Ho trovato il passo di Said in un saggio di Tzvetan Todorov e mi colpiva questa coincidenza, di un bulgaro che scrive a Parigi citando un palestinese che scrive a New York, che cita un tedesco che scrive in Turchia, che cita un mistico tedesco che scrive anche lui a Parigi; si parva licet mi dicevo che anche un rumeno in Svizzera, in fondo, poteva rientrare in questa genealogia. Certo le parole di Ugo di San Vittore oggi suonano un po’ forti. Questa circolarità mistica non mi può appartenere, ma la vedo all’orizzonte come una meta irraggiungibile: essere di nessuna parte e quindi di tutte le parti.
C.: A un temperamento come quello di Said invece si attaglia meglio. Faccio fatica in effetti a immaginare espatriati – «extraterritoriali», per usare la nozione più neutra di George Steiner – più diversi di te e Said. Non c’è pagina di Oublier Bucarest in cui si avverta l’agonismo drammatico, il risentimento antagonista, l’afflato quasi eroico dell’esiliato; c’è invece un aplomb, una serenità, una «leggerezza apparente» – per dirla col nostro Leopardi – che ne fa un testo abbastanza unico nella “letteratura extraterritoriale”.
S.: Sono contento se si percepisce questo. Ho cominciato a scrivere Oublier Bucarest per i miei figli, per trasmettergli quel mondo sparito che era la Romania d’oltrecortina, poi mi sono accorto che mi faceva bene prendere questa distanza nella scrittura. Scriverlo ha avuto una funzione anche terapeutica. Certo conosco bene la letteratura della memoria scritta dopo la caduta del Muro, e si tratta quasi sempre di testi di denuncia. A volte scritti drammaticamente bene, più spesso solo querimoniosi. A questo genere avevo ben chiaro che volessi sfuggire. Anche se poi certi drammi, nel testo, non sono rimossi: persone incarcerate, come mio nonno e mio zio, anche morte in carcere, il controllo soffocante dello Stato su ogni ambiente intellettuale. Mi premeva però rendere soprattutto l’assurdo, il grottesco di certe situazioni.
C.: Conta anche che al centro della narrazione ci sia quella che potremmo chiamare una breve “primavera di Bucarest”, che fu anche l’occasione in cui riuscisti ad andare a studiare in Occidente.
S.: Sì, fra il ’65 e il ’72 circa. Per mera strumentalità politica Ceaușescu voleva creare l’immagine di una Romania enfant terrible del blocco dell’Est, fra la Cina e l’Unione Sovietica... La mia generazione ne ha approfittato, come nel mio caso, ma l’aspetto tragico è che credemmo fosse vero, che davvero il Paese si aprisse e si stesse creando una “terza via”. Non fu così. Nel ’72 Ceaușescu con la moglie fece un viaggio in Cina e in Corea del Nord, e al loro ritorno ci fu una riunione del Partito dalla quale uscirono le famigerate «tesi di luglio» che segnarono la fine di quella stagione. Poi negli anni Ottanta andò sempre peggio, subentrò una paranoia del potere, furono tempi davvero tragici. Anche chi coltivava ideali socialisti dovette prendere atto che Ceaușescu non aveva niente di sinistra. Nazionalista all’estremo contro russi e ungheresi, antisemita; dal punto di vista antropologico, semplicemente un fascista.
C.: Non so se è una bestialità ricondurlo alla destra rumena pre-1945…
S.: … come no?… certi reduci della Guardia di Ferro riuscirono a far parte della Securitate!
C.: All’Accademia di Romania, qui a Roma, hai fatto una bellissima conferenza sulla “diaspora intellettuale rumena” del Novecento, impiegando come case studies le figure di Paul Celan, Emil Cioran e Robert Klein (il grande storico dell’arte che si suicidò – come Celan a Parigi nel ’70 – alla Villa «I Tatti» di Firenze nel ’67). Ma c’è un’altra koinè di rumeni in esilio che furono grandi maestri dell’Assurdo: Tzara, Ionesco. E leggendo certi episodi di Oublier Bucarest è a questa tradizione che viene da pensare… Forse anche la fine corrusca di questa storia, il processo a Ceaușescu ripreso dalla televisione, può essere letto in questa chiave.
S.: Fu una vergogna. Gli avrebbero dovuto fare un vero processo, ma fu impossibile per ragioni pratiche…
C.: … un po’ come a Mussolini nel ’45…
S.: … mi sento di dire che sarebbe stata meglio una morte brutale come quella di Mussolini. Quello suo non fu in alcun modo un processo, mentre fu atroce quella finzione, la parodia di processo che si fece a Ceaușescu. Una farsa davvero da teatro dell’assurdo, nonché una nemesi: perché fu resa possibile da come lui stesso aveva pervertito, negli anni precedenti, il sistema giuridico rumeno.
C.: Veniamo ora alla tua biografia prettamente intellettuale. Un contributo alla critica di te stesso. Mi colpisce il romanzo di una doppia formazione: nella giovinezza i tuoi studi sono improntati a un forte appello alla tradizione, all’archeologia e alla filologia classica, e anche il periodo di formazione a Roma – sebbene Brandi non fosse certo uno storicista tradizionale – ti conferisce un’impostazione molto strutturata. I tuoi primi libri, in rumeno, sono monografie (suppongo appunto assai tradizionali) su figure come Duccio di Buoninsegna, Simone Martini e Pontormo. Poi negli anni Ottanta c’è una specie di latenza. Per un bel pezzo non pubblichi quasi nulla, e il saggista che scrive dopo è un altro. Capovolgi quell’impostazione iniziale, metti al centro il problema della meta-rappresentazione cui dedichi il libro che all’inizio degli anni Novanta ti dà la fama internazionale, L’invenzione del quadro.
S.: Sì, c’è stata una svolta. Quando ho deciso di lasciare per sempre il mio Paese mi sono trasferito in Germania, a Monaco all’inizio degli anni Ottanta, e lì mi sono confrontato con la nuova storia dell’arte, nuove domande e una nuova generazione di studiosi. La figura-chiave è stata Hans Belting.
C.: Però quella robusta formazione tradizionale forse è rimasta, a rinsaldare le basi dei tuoi lavori. Quando leggo il caposcuola della semiotica della pittura, Louis Marin, o certi suoi colleghi e discepoli geniali come Daniel Arasse o Hubert Damisch, mi rendo contro della differenza che li divide da te: i tuoi studi hanno un fondo di erudizione, di spessore storico e competenza anche sul contesto culturale dei fenomeni osservati, che irrobustisce un’audacia di pensiero e speculazione che in altri casi, invece, dà talvolta l’impressione di voli inebrianti spiccati senza uno slancio sufficiente.
S.: Sono un ibrido. Rumeno di prima formazione italiana e di seconda formazione tedesca e anglosassone, con contatti col mondo dello strutturalismo francese. I compagni della scuola francese che hai citato, e che io apprezzo molto, certo sono diversi. In realtà Belting discende da Warburg e dalla tradizione germanica. Spero che questa ibridazione frutti qualcosa di buono!
C.: Leggendo uno dopo l’altro, come è capitato a me, due libri che si pongono agli estremi del tuo percorso, L’invenzione del quadro (il Saggiatore 1998) ed Effetto Sherlock (ivi 2017), si riconosce un tema comune, quello dell’ostacolo posto alla percezione. Lo sguardo intralciato dagli schermi che si frappongono tra l’occhio e l’oggetto, nel libro più recente, in qualche misura trova la sua risposta nel libro precedente, dedicato allo sfondamento dello spazio nella meta-rappresentazione.
S.: Il titolo che avevo pensato all’inizio per Oublier Bucarest era Le frontiere invisibili. È un concetto che ho preso da uno storico tedesco degli anni Trenta, Ernst Kornemann, secondo il quale le vere frontiere dell’Impero romano non erano quelle naturali, territoriali, bensì quelle mentali, culturali. È un concetto che ha un significato diverso per un rumeno, proveniente da una provincia dell’Impero come la Dacia o la Tracia, uno nato nella terra che in Occidente incarna, con Ovidio, l’idea stessa dell’Esilio. Quando tornavo a Roma dalle estati passate a Costanza, cioè all’antica Tomi, Brandi esclamava sempre: «Ah, ecco il nostro Ovidio!». Ma quella che era per lui la terra dell’Esilio era per me, invece, quella dell’Origine. Un capovolgimento che mi colpiva moltissimo. E ricordo quanto mi infastidisse da ragazzo leggere le descrizioni del Ponto ghiacciato, delle montagne, delle nevi… mi chiedevo se ci fosse stato davvero, da quelle parti, Ovidio (un interrogativo che oggi qualcuno si pone sul serio). Poi ho capito che quella geografia immaginaria era un perfetto esempio di «frontiera invisibile». E oggi uno degli ultimi capitoli di Oublier Bucarest si conclude con una citazione dalle Epistulæ ex Ponto: «esiliato all’estremità del mondo, su una spiaggia abbandonata, in una contrada selvaggia sotto nevi perpetue».
C.: Ecco, ma ha un significato che la tua avventura di cittadino europeo, che rivendica con orgoglio l’apertura di uno spazio senza frontiere, cominci in effetti con un saggio geniale, L’invenzione del quadro appunto, che ricostruisce la tradizione dell’apertura, dentro l’immagine, di una finestra aperta su un altro ambiente (che magari riflette quello dal quale stiamo guardando, come nell’esempio canonico delle Meninas di Velázquez)?
S.: Non ci ho mai pensato, ma è possibile ci sia una qualche proiezione personale, sì. È vero che soffro di una forma moderata di claustrofobia. Insomma, in effetti mi piacciono gli spazi aperti. Non potrei quasi vivere senza passare qualche settimana al mare: il mare aperto, l’orizzonte. Lì veramente mi ricostruisco.
C.: Hai mai scritto sul paesaggio? Non il paesaggio inquadrato, rappresentato, meta-rappresentato, ma proprio l’en plein air…
S.: Poco, ma m’interesserebbe. Ho molti appunti sull’orizzonte, mi piacerebbe lavorare su questo. L’orizzonte è un confine a sua volta, ma dinamico. Invece ho scritto diverse volte del cielo. Cieli in cornice (Meltemi 2002) è un libro sulla rappresentazione della visione nella pittura di El Greco, Zurbarán e Velázquez in relazione alla mistica spagnola.
C.: In questi casi però il cielo è sempre un’illusione ottica; c’è sempre un soffitto, a porre un limite allo sfondamento della visione. Ricordo un pezzo fantastico di Giorgio Manganelli su Tiepolo, Il soffitto come palcoscenico, sul quale Roberto Calasso ha impostato un intero libro (Il rosa Tiepolo, Adelphi 2006).
S.: Certo, il soffitto è una superficie-chiave: rappresenta l’illusione di aprirsi verso il cielo, un cielo che scende sulla chiesa o una chiesa che si apre verso il cielo. Ci sono esempi strepitosi, nel Barocco italiano e non solo. Anche la nuvola è un oggetto importante in questo tipo di figurazione, perché è di un’assoluta ambiguità. Ti pare di riconoscere qualcosa, e subito dopo no. Come il Cristo, la Vergine o gli Angeli: ci sono e non ci sono.
C.: Nella sua Teoria della nuvola (Costa & Nolan 1984) Damisch ha pagine molto belle su un quadro di Correggio…
S.: … Giove e Io, fantastico. La nuvola come metamorfosi possibile, che prende figura umana o divina restando nella sua ambiguità fra visivo e tattile.
C.: Un altro tuo tema prediletto è quello dell’illusione. Ben al di là delle teorie della Gestalt, o della trattazione del tema per esempio in Gombrich. In effetti nei tuoi libri poni sempre in questione con forza le categorie di realtà e di realismo. In Effetto Sherlock una citazione chiave è da un testo giovanile di Émile Zola che non conoscevo, Lo schermo, del 1866: «ogni opera d’arte è come una finestra aperta sulla creazione; inserito nel vano della finestra, c’è come una sorta di Schermo trasparente, attraverso il quale si percepiscono gli oggetti più o meno deformati […] e questa riproduzione, che non può essere fedele, cambierà ogni volta che un nuovo schermo verrà a frapporsi tra il nostro occhio e la creazione. […] Lo schermo realista è una semplice lastra di vetro, molto sottile, molto chiara […]. Lo schermo realista nega la sua stessa esistenza». Qui Zola, riprendendo il classico argomento di Leon Battista Alberti, pare anticipare il concetto di realismo come lo porrà Roland Barthes: in chiave appunto di illusione, di dispositivo retorico che inganna o comunque simula una realtà, in effetti, inaccessibile. Questo tema mi pare decisivo oggi che, dopo il postmodernismo, tanto in ambito propriamente filosofico che artistico e letterario si fa un gran parlare di «ritorno alla realtà», «nuovo realismo» eccetera. Al di là della pertinenza dell’istanza in termini etici, forse prima che politico-sociali, occorrerebbe restare sempre consapevoli di questa riserva gnoseologica.
S.: Il realismo non è che un sistema di rappresentazione. Anche autori che sono stati letti in questa chiave, per esempio Caravaggio, realizzano in effetti sempre sistemi di sdoppiamento. Nell’Immagine dell’Altro parlo di due quadri quasi contemporanei, il Narciso (la cui autografia viene oggi contestata, ma a me qui non importa perché, se pure non l’ha dipinto lui, funziona in effetti come epitome del suo stile) e La buona ventura. Lo sdoppiamento della personalità e l’incontro effettivo con l’Altro (la zingara che legge la mano al giovane gentiluomo) compongono un chiasmo: l’identità narcisistica e il faccia a faccia sono due aspetti dello stesso problema di rappresentazione.
C.: Nella tua opera c’è quello che magari è solo un dettaglio, che però m’incuriosisce. In quasi ogni tuo libro a un certo punto viene citato un film di Hitchcock. A volte coinvolgendolo nell’analisi, altre restando come una spraghìs, alla stregua dei cammei che recitava lui stesso nei suoi film. A parte l’effettiva cultura artistica di Hitchcock, da ultimo sempre più riconosciuta come decisiva nella sua opera, mi colpisce questa tua relazione col cinema. A colpirmi nei tuoi libri, specie nei più recenti, è come la loro straordinaria cultura storica e sottigliezza interpretativa si coniughi con una godibilità di lettura evidente anche a un lettore non specialista. Forse il cinema in questo ti ha aiutato.
S.: Da ragazzo ero un vero aficionado, il cinema mi dava un piacere davvero epidermico, irresistibile. Poi, diventato uno studioso, certo è subentrata un’attenzione diversa, ma quel fondo di immediato «piacere del testo» è rimasto. E chi meglio di Hitchcock – che la nouvelle vague canonizza proprio perché autore popolare presso il grande pubblico, ma in effetti molto colto e straordinariamente raffinato – può incarnare questo doppio livello? Questa doppiezza cerco di perseguirla in ogni cosa che scrivo: che è sempre rivolta a un pubblico certo intelligente ma non necessariamente specialistico. È una grande ambizione questa, che deriva dalla mia passione per la letteratura. Il mio nonno materno era uno scrittore, ma la mia ambizione letteraria deve fare i conti con le difficoltà linguistiche che, al di là delle apparenze, limitano il mio modo di esprimermi. Per scrivere veramente letteratura devi possedere una lingua, ma io di lingue ne ho molte e quindi non ne ho nessuna, forse. Mi devo difendere con quello che ho.
C.: Nella conferenza all’Accademia di Romania hai parlato a lungo di questa questione della lingua, e del problema del nome proprio (cruciale, per esempio, in Celan-Antschel). All’inizio della sua autobiografia, Sempre nel posto sbagliato (Feltrinelli 2000), Said inizia proprio col suo nome, che tutti pronunciano sempre in modo appunto sbagliato. Che è un modo per rendersi conto di come nessuna parola che pronunciamo coincide mai davvero con la cosa cui si riferisce. Ma è un problema che riguarda anche te: io stesso pronuncio il tuo cognome – che bisognerebbe scrivere «Stoichiţă» – ogni volta in modo diverso (è stato utile il tuo suggerimento, di provare a pronunciarlo come in dialetto calabrese, con l’ultima «a» aspirata…). Al di là dell’aneddoto, questa tua vita fra le patrie e fra le lingue quanto condiziona il tuo vissuto, o insomma quella che un riflesso condizionato ideologico non ci consente più di chiamare a cuor leggero la tua «identità»?
S.: Cerco di risponderti in modo indiretto. Mia moglie Anna Maria Coderch è spagnola, abbiamo anche scritto insieme un libro su Goya (L’ultimo carnevale, il Saggiatore 2002). E i nostri figli sono nati a Monaco negli anni Ottanta. Dunque hanno, diciamo, tre lingue madri. Quando chiedevano a nostra figlia Maria cosa sentisse di essere lei a sei o sette anni rispondeva decisa: «ich bin bayerisch», «sono bavarese». Ora Maria è psichiatra a Berlino, si sta specializzando in psicoanalisi transculturale, chissà cosa risponderebbe! Invece nostro figlio Pedro, artista e autore di fumetti filosofici sposato con una toscana e padre di un figlio italo-spagnolo-rumeno, la prendeva anche lui alla lontana, spiegava tutta la situazione, e alla fine concludeva: «non lo so, forse sono europeo». A me è successo questo: quando a un certo punto mi si è presentata la possibilità di trasferirmi negli Stati Uniti mi piaceva il tempo che passavo lì, quello dei campus è un ambiente appunto cosmopolita. Ma a trecento metri di distanza ti rendi conto che se vai lì devi diventare americano. E non ce l’ho fatta. Allora mi sono detto che volevo restare… cosa? Quello che sono riuscito a rispondermi è che resto irriducibilmente europeo.
***
L’ultimo libro di Victor Stoichita, Des corps. Anatomies, défenses, fantasmes (appena uscito da Droz, pp. 391 ill. a colori, € 24), come le sue precedenti “raccolte di saggi”, può vantare un’invidiabile compattezza: dal momento che s’impernia – anziché su contributi più o meno d’occasione – su cicli di conferenze a tema, trovando nella fattispecie un baricentro nelle “Bernard Berenson Lectures” tenute ai Tatti di Firenze (dove lo studioso passerà un’ulteriore residenza la prossima primavera) nel 2017. Il sottotitolo articola con esattezza il cluster tematico messo a fuoco: naturalmente gli elmi e le armature (come nel prodigioso Carlo V di Tiziano) e più in generale gli indumenti (dal Giotto degli Scrovegni, ancora, alla panoplia di corsetti e farsetti della ritrattistica Escuriale) ma anche e più sottilmente i tatuaggi e gli stessi contegni dei volti, rivestiti da queste apparecchiature epidermiche e muscolari, sono tutti “seconde pelli”: ossia «dispositivi di protezione» che danno corpo, è il caso di dire, a un’«umanità aumentata» che mediante questi paraphernalia rappresenta sé stessa e i propri ruoli e mansioni. Se ogni ritratto è una rappresentazione del potere, spirituale o terreno, della persona raffigurata, i suoi attributi esteriori sono una prima sfera, spesso ingombrante ma talvolta intollerabilmente intima, di quest’aura. E, anche laddove il corpo si sottragga, esso potrà risultare non meno incombente, o infestante, nella forma spettrale del “corpo mancante” (detto come si dice, per metonimia, dell’“arto mancante”).
Una versione più breve di questa conversazione è stata pubblicata su “Alias” di “Il manifesto” il 1/03/2020.