Margherita Sarfatti / Una donna di potere nell’Italia fascista

28 Ottobre 2018

Poco prima della fine del percorso espositivo della mostra dedicata a Margherita Sarfatti al Mart di Rovereto i curatori hanno esposto la gigantografia di una foto scattata alla Biennale di Venezia del 1930.

 

Mart, Sala «Mostre in Italia».


Margherita Sarfatti è ritratta al centro dell’immagine, unica donna accanto a sei uomini. Di fotografie simili se ne trovano parecchie, sui tavoli documentari della mostra del MART come in quelli della mostra gemella al Museo del Novecento di Milano: foto di gruppo di comitati responsabili di mostre e manifestazioni culturali, ritratti istituzionali del sistema di gestione delle arti in Italia negli anni Venti e Trenta. Sarfatti vi appare regolarmente come la sola donna, e a ognuna di queste immagini si potrebbe accompagnare come didascalia una definizione tratta dall’incipit della biografia intellettuale che Simona Urso le ha dedicato: «l’unica donna, forse, cui nel periodo fascista fu permesso di avere peso politico e intellettuale pari a quello degli uomini». In effetti, solo cinque anni prima che fosse scattata quella fotografia alla Biennale, Sarfatti era stata la sola donna “parlante”, cioè invitata a tenere una relazione, al Convegno per le istituzioni fasciste di cultura di Bologna (29-30 marzo 1925): uno degli atti fondativi dell’organizzazione culturale fascista, dal quale sarebbe uscito il Manifesto di Gentile. 

 

In quel 1925 Sarfatti si trova all’apice del proprio potere culturale e politico. Le due mostre si occupano soprattutto del primo, dettagliando le fasi ascendente e discendente della sua influenza nel campo dell’arte, sia attraverso le opere degli artisti da lei fiancheggiati come critica e curatrice di mostre (oltre che come acquirente e mediatrice di acquisti per collezioni pubbliche e private), sia attraverso un ricchissimo apparato documentario proveniente dagli archivi di cui le due istituzioni sono depositarie (il Fondo Sarfatti, che insieme a una parte della sua biblioteca privata è conservato all’Archivio del ’900 del Mart, e il Fondo «Archivi del Novecento», conservato al Museo del Novecento di Milano). Sarfatti è la prima «critica d’arte donna» italiana (come recita la scheda informativa nella sala «Artisti allo specchio» della mostra del Mart): la ricostruzione dettagliata della sua traiettoria biografica è pertanto di estremo interesse, come lo sono tutte le vicende di rottura del “tetto di cristallo” che impedisce l’accesso al vertice delle gerarchie sociali ai dominati per genere, etnia o scarsità di capitali economici e culturali. E si tratta per di più di una donna che riesce a conquistarsi e a conservare potere per circa un decennio in un contesto all’apparenza ben poco favorevole: gli anni dell’ascesa e consolidamento del fascismo, un regime tutt’altro che disposto a concedere spazio alle donne al di fuori del loro ruolo tradizionale di vestali del focolare domestico. 

Quali sono le condizioni che permettono questa rottura del tetto di cristallo? Quali sono le “doti”, i “capitali” sociali che consentono a Sarfatti di occupare ruoli e posizioni ancora mai occupati da una donna? Innanzitutto, un notevole capitale economico e culturale: nata a Venezia da una ricca famiglia ebraica, i Grassini, in ottime relazioni con l’amministrazione e il patriarcato cittadini, Sarfatti riceve un’istruzione eccezionale per una ragazza della sua epoca. Grazie a una serie di governanti e istitutori privati (tra i quali il fondatore della Biennale di Venezia, Antonio Fredeletto) parla, legge e scrive inglese, francese e tedesco, e riceve una formazione letteraria, filosofica e artistica aggiornata ed estranea ai canoni e agli habitus mentali delle istituzioni scolastiche. 

 

Sposatasi diciottenne con un avvocato socialista, Cesare Sarfatti, di cui condivide la fede politica – anche se per entrambi si tratta di una scelta dettata più dall’ambizione che da un’effettiva condivisione dell’interpretazione marxista della società – si trasferisce nel 1902 a Milano, capitale del socialismo italiano, la città più pienamente moderna d’Italia, trampolino di lancio, di lì a pochi anni, del futurismo di Marinetti. Milano è la base su cui Sarfatti costruisce un capitale suo proprio, dopo quelli culturale ed economico ereditati dalla famiglia: un capitale di relazioni sociali che affonda le radici sia nel mondo dell’arte e della letteratura, sia nella politica – socialismo turatiano ed emancipazionismo femminile prima, socialismo mussoliniano, interventismo e fascismo poi. 

 

Museo del Novecento, Sala IV: «Il salotto di corso Venezia». Da sinistra a destra: Gian Emilio Malerba, L’attesa, 1916; abito Zuckerman, Milano 1924-26; Pompeo Borra, La composizione (Le amiche), 1924.


Al centro di questa rete di relazioni che da Turati Kuliscioff e Majno (presidente della Lega Femminile) si espande progressivamente a Notari (scrittore scandaloso ed editore intraprendente) Marinetti Boccioni e Mussolini, sta il salotto di Margherita, aperto ogni mercoledì dal 1909 in avanti: uno dei «più rinomati e frequentati» di Milano, secondo il giornalista Adolfo Franci, autore nel ’22 di un viaggio in Italia alla scoperta dei centri letterari e artistici della penisola. «La signora Sarfatti s’intende un po’ di tutto – le donne son terribili quando s’intendono di tutto –: pittura e scultura, critica e poesia. Possiede – dicono – una bella raccolta di quadri moderni, è valorosa scrittrice, delicata poetessa, traduttrice geniale e molte altre cose ancora. Per giunta ha tenuto a battesimo tutti i giovani promettenti. Nella sua casa ospitale si può sorseggiare una tazza di tè quasi caldo con crostini quasi imburrati e conoscere le più chiare personalità del mondo politico, letterario e artistico milanese» (A. Franci, Il servitore di piazza, Vallecchi, Firenze 1922, pp. 120-121). 

 

La descrizione di Franci, sotto il paternalismo e una punta di misoginia contro le intellettuali (e forse già di antisemitismo, nell’allusione alla tirchieria della padrona di casa), ci lascia intravedere il soft power dell’istituzione salotto, che all’inizio del ’900 già da più di due secoli è lo strumento con cui le donne della nobiltà e dell’alta borghesia – le dominate della classe dominante – si sono ricavate spazio e potere nel mondo delle arti, della cultura e della politica. Per Sarfatti, però, il salotto non è un punto d’arrivo ma di partenza, per accedere a posizioni intellettuali più moderne e istituzionalmente riconosciute: la critica d’arte e di letteratura sui quotidiani (dapprima su quelli più provinciali della sua città d’origine, poi su «L’Avanti!» e «Il Popolo d’Italia»); la cura di mostre, di cui firma l’introduzione ai cataloghi; la partecipazione a comitati organizzativi e giurie di premi d’arte in Italia e all’estero. Sarfatti incarna però soprattutto la figura moderna del critico d’arte che promuove e fiancheggia – e in larga misura crea – un movimento artistico: il «Novecento», dal 1926 «Novecento Italiano». 

 

Museo del Novecento, Sala IX: «Il “Novecento italiano” e la sua organizzazione». Mario Sironi, Prima Mostra d’Arte del Novecento italiano, 1926, manifesto.


Nel corso degli anni Dieci Sarfatti aveva avuto stretti contatti con i futuristi, pur manifestando una diffidenza per gli esiti più estremi delle avanguardie: in un articolo del 1913 aveva parlato, a proposito del cubismo, di un’arte destinata a rimanere senza pubblico in quanto «senza freni e senza misura nel desiderio incomposto del nuovo» (cit. in A. Negri, Margherita Sarfatti e Milano 1902-1923. Alcune osservazioni, nel catalogo unico delle due mostre). Negli anni dell’immediato dopoguerra, perciò, forte del capitale acquisito in relazioni sociali e legittimità intellettuale, e del capitale politico che le deriva dal legame amoroso e intellettuale con un Mussolini divenuto Presidente del Consiglio, Sarfatti si lancia nell’impresa di promuovere un proprio movimento artistico, legandolo al nome di sette pittori attivi a Milano – tra i quali il maggiore è, a suo parere, Mario Sironi – e inquadrandolo in quel “ritorno all’ordine” che caratterizza l’intero panorama artistico postbellico europeo. 

 

A contendere la primazia al Novecento di Sarfatti nel campo dell’arte, e, in particolare, nel campo dell’arte più prossima al nuovo potere politico, ci sono altri gruppi, altri movimenti – come quello, similmente orientato al “ritorno all’ordine”, ma non per questo meno antagonistico nei confronti di Novecento, radunato intorno alla rivista «Valori plastici» (1918-22) e che ha in Carrà il proprio leader; o i futuristi di Marinetti, forti anch’essi di un notevole capitale politico che deriva al movimento dall’interventismo, dai numerosi artisti caduti e feriti in guerra, dalla prossimità all’impresa fiumana e al sansepolcrismo; o infine i “toscani” supportati da riviste come «Il Selvaggio» e «L’Italiano» e raccolti intorno ad Ardengo Soffici, “rinsavito” dall’avanguardismo degli anni Dieci e fascista della prima ora. 

Il conflitto che negli anni Venti divampa per l’egemonia nel campo delle arti è ben inquadrato dai due biografi statunitensi di Sarfatti, Philip V. Cannistraro e Brian Sullivan: «Alla metà degli anni Venti Marinetti, Ojetti e Margherita erano i leader delle tre principali correnti artistiche del tempo, in competizione fra loro per affermarsi e conquistarsi il riconoscimento del Partito fascista. Quando il Novecento di Margherita cominciò ad assumere un’aura ufficiale, la seconda generazione di futuristi marinettiani si pone come una sorta di “opposizione di sinistra”, mentre Ojetti divenne il portatore dei classicisti accademici, ossia dell’“opposizione di destra”». Sebbene Mussolini partecipi, tenendo anche un discorso, alle prime due mostre di Novecento e Novecento Italiano nel 1923 e nel 1926, già alla Biennale di Venezia del 1924 Ojetti sottrae a Sarfatti uno dei sette pittori originari del gruppo, Ubaldo Oppi, che ottiene una propria sala personale con catalogo curato da Ojetti, mentre la sala dove espongono i «Sei pittori del Novecento» viene aspramente criticata, tanto che il gruppo finirà per sciogliersi nei mesi successivi. Sarfatti cambia allora strategia, allargando l’etichetta di «Novecento» (divenuto «Novecento Italiano») a comprendere un centinaio di artisti che espongono in due mostre alla Permanente di Milano nel 1926 e nel 1929 – tra questi, anche Carrà e Soffici, o altri pittori estranei al circuito sarfattiano come Casorati. Nel comitato d’onore di «Novecento italiano», oltre a Mussolini come Presidente, compaiono anche Marinetti e Ojetti, che, secondo Cannistraro e Sullivan, «avevano aderito al comitato, con riluttanza, per ragioni di opportunismo politico», mentre «Margherita li voleva nel suo gruppo per via di quella sua ambizione a diventare l’“impresario” indiscusso della cultura artistica italiana» (p. 345). 

La strategia non risulta però vincente. Per l’opposizione dei suoi rivali – tra cui sta acquistando potere il pittore Cipriano Efisio Oppo – Sarfatti non riesce a tenere a Roma, come avrebbe desiderato, la seconda mostra di «Novecento Italiano» del 1929; in quello stesso anno, Mussolini ripudia la connessione, suggerita a più riprese da Sarfatti, tra fascismo e Novecento.

 

Mart, Sala «Da Dux a Acqua passata». Lettera di Mussolini a Margherita Sarfatti, Roma, 9 luglio 1929: «Gentile Signora, […] Questo vostro tentativo di far credere che la proiezione artistica del Fascismo sia il vostro ’900, è ormai inutile ed è un trucco!».


Privata di legittimità in Italia, Sarfatti concentra le sue energie sull’organizzazione di mostre di arte italiana all’estero, ma non per questo cessano le campagne contro di lei, che fin al 1928-29, all’epoca dei primi rigurgiti di antisemitismo in concomitanza con i Patti Lateranensi, avevano cominciato a sottolinearne le origini ebraiche. Dopo la lettera di Mussolini del ’29, gli atti di ripudio e di esclusione si moltiplicano: nel 1932 non viene invitata all’inaugurazione della Mostra del Decennale della Rivoluzione fascista, le viene impedito di continuare a scrivere sul «Popolo d’Italia», le viene sottratto il controllo dell’organizzazione delle mostre di arte italiana all’estero; nel 1933 viene estromessa dal comitato organizzativo della Triennale di Milano; nel 1934 viene sostituita dal figlio di Mussolini Vito nella direzione di «Gerarchia», il mensile ufficiale del regime di cui era stata direttrice responsabile – ma in realtà vera direttrice –  fin dal 1922. Nel 1938 verranno le leggi razziali, che la spingeranno a lasciare l’Italia per Parigi e il Sudamerica, dove rimarrà fino al 1947. 

 

I germi della parabola discendente del potere culturale e politico di Sarfatti sono, quasi paradossalmente, contenuti nei presupposti che le avevano consentito di occupare posizioni di potere fin’allora impensabili per una donna. Come scrive Urso, Sarfatti «commette […] l’errore di non comprendere che in una società di massa il rituale va governato da istituzioni, non da singoli individui illuminati, sopravvalutando così il proprio ruolo» (Urso, cit., p. 14). Il percorso di Sarfatti, in altre parole, essendo costruito a partire da privilegi eccezionali, fondato su un indubbio merito personale ma estraneo ai percorsi legittimanti delle istituzioni scolastiche e culturali, era difficilmente compatibile con un contesto radicalmente mutato all’inizio degli anni Trenta, quando il sistema espositivo e del mercato d’arte italiano si struttura in una rigida gerarchia fondata sui Sindacati artistici e diretta da uno dei suoi nemici, Cipriano Efisio Oppo. È significativo che negli stessi anni in cui si svolge la parabola discendente di Sarfatti si avvii un altro percorso di “rottura del tetto di cristallo”, quello di Palma Bucarelli, di una generazione più giovane, prima direttrice donna di un museo italiano, la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. A differenza di quella di Sarfatti, la traiettoria di Bucarelli è completamente interna alle istituzioni: dopo una laurea regolarmente conseguita, Bucarelli entra come funzionario nella burocrazia statale delle arti grazie a un concorso pubblico. Proprio a Bucarelli toccherà il compito di liquidare ufficialmente il «Novecento», con la stesura della voce dedicata nell’Enciclopedia italiana (1934): «in breve perfino la parola Novecento divenne anacronistica per essere caduta nella spicciola moda commerciale, così che si ebbero i tappeti novecento, i caffè novecento, i mobili novecento». 

 

Ma quanto ha contato, nella perdita d’influenza di Sarfatti, la fine della sua relazione con il capo del governo Mussolini, che i biografi collocano tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta? Di questa relazione, cominciata poco prima o durante la prima guerra mondiale, di questo rapporto che costituisce uno degli elementi chiave del soft power di Sarfatti, ho appena accennato, seguendo, in questo, la linea adottata dai curatori delle due mostre, che ne parlano pochissimo: nella mostra milanese ne rende conto soltanto la cronologia posta all’inizio del percorso espositivo; in quella di Rovereto si parla di un «legame intimo» con Mussolini soltanto nella scheda informativa presente nella sala «Da Dux a Acqua passata».

 

Mart. Sala «Da Dux a Acqua passata». Renato Bertelli, Testa di Mussolini (Profilo di continuo), 1933; Thayat, Condottiero (Dux con pietra miliare), 1929.


Benché finora abbia seguito i curatori delle due mostre, non sono convinta che il passar quasi sotto silenzio un elemento biografico così importante renda un buon servizio alla ricostruzione della figura storica e del ruolo culturale di Sarfatti. È vero che, come scrive un’altra delle sue biografe, Rachele Ferrario, in un intervento pubblicato in catalogo, «è tempo di rileggere la sua figura di intellettuale che inizia il suo proprio percorso ben prima di affiancarsi a Mussolini» (p. 34) – è importante, insomma, far uscire Sarfatti dal cono d’ombra di Mussolini. 

Ma è anche vero che sminuire l’importanza della relazione tra i due comporta il rischio di non mettere in giusto rilievo il fondamentale ruolo svolto da Sarfatti nella genesi del fascismo, la sua funzione di «assistente modesta ma appassionata del nostro capo», come afferma lei stessa in un’intervista all’NBC del 1934. L’influenza politica di Sarfatti su Mussolini è importante sia a livello ideologico, e questo fin dagli anni Dieci (già nel 1913 Sarfatti condivide con Mussolini l’impianto della rivista «Utopia»), sia nella costruzione della mitologia mussoliniana in Italia e all’estero con la redazione della biografia Dux (pubblicata a Londra nel 1925, in Italia da Mondadori nel 1926), la cura dell’ufficio stampa estera della presidenza del consiglio, la redazione come ghost writer degli articoli firmati da Mussolini per i periodici statunitensi di Hearst. Le stesse mostre all’estero sono da leggere all’interno di un programma di «colonialismo estetico» e di legittimazione fuori dai confini del regime mussoliniano. 

 

Mart, Sala «Da Dux a Acqua passata». Margherita Sarfatti, Dux, Mondadori, Milano 1926.


Ad annebbiare, nelle due mostre, la relazione amorosa tra Sarfatti e Mussolini, non è tanto, credo, la discrezione nei confronti di un gossip, quanto una difficoltà maggiore. È possibile portare all’attenzione del pubblico contemporaneo un personaggio così fondamentale nella storia delle arti e nella storia delle donne, e insieme così implicato con il regime fascista? È necessario nascondere l’eccezionale importanza di una donna nella genesi del fascismo, per poterne riproporre la figura ai visitatori di una mostra nel 2018? 

Le risposte a queste domande non sono facili – anche quando, come fa il direttore del Mart Gianfranco Maraniello nella sua pagina d’introduzione al catalogo, si affermi decisamente che «le istituzioni museali in Italia hanno oggi il compito di mettere in prospettiva tali eventi e, soprattutto, le opere che ne sono testimonianza e opportunità per non proseguire nella più frequentemente adottata censoria latenza che, forse, ha significato anche diffusa incapacità di elaborazione del trauma» (p. 19). Un’affermazione così netta è però preceduta da una premessa che sembra deresponsabilizzare la protagonista dei due percorsi espositivi: «Come una falena che ha corteggiato pericolosamente il fuoco, il rapporto al fascismo e la vicinanza a Benito Mussolini sono stati – per usare un suo stesso titolo – la “colpa” che le ha però garantito di esercitare i propri talenti e di rimanere al centro della scena politica e culturale del Paese in un’epoca dove difficilmente si è potuto distinguere una dimensione dall’altra». Sarfatti la falena, Mussolini il fuoco. Non siamo ancora pronti – e pronte – per pensare che il fuoco, sotto certi aspetti, abbia potuto anche essere lei?

 

Per saperne di più

  • Margherita Sarfatti. Il Novecento Italiano nel mondo, a cura di D. Ferrari, con la collaborazione di I. Cimonetti e Archivio del ‘900, Mart, Rovereto, 22 settembre 2018-24 febbraio 2019
  • Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano, Museo del Novecento, Milano, a cura di A.M. Montaldo, D. Giacon, con la collaborazione di A. Negri, 21 settembre 2018-24 febbraio 2019
  • Il Catalogo unico per le due mostre, a cura di D. Ferrari D. Giacon, A.M. Montaldo, con la collaborazione di A. Negri, è edito da Electa, Milano 2018
  • Simona Urso, Margherita Sarfatti: dal mito del «Dux» al mito americano, Marsilio, Venezia 2003
  • P.V. Cannistraro, B. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce, Mondadori, Milano 1993, p. 345
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