La scala delle temperature

22 Marzo 2014

Pubblichiamo la prefazione dal volume di Luca Trevisani, Water Ikebana Stories About Solid & Liquid Things pubblicato da Humboldt Books

 


 

I feel
emotional landscapes
they puzzle me
State of Emergency

nihil est toto, quod perstet, in orbe.
cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago
[…]; nam quod fuit ante, relictum est,
fitque, quod haut fuerat, momentaque cuncta novantur.
[…] Nec species sua cuique manet, rerumque novatrix
ex aliis alias reparat natura figuras […]

Sono parole di Ovidio, nelle Metamorfosi (XV, 177-8, 184-5, 252-3: «In tutto il mondo non c’è cosa che duri. Tutto scorre, e ogni fenomeno ha forme errabonde […]: quello che è stato si perde, quello che non era diviene, ed è tutto un continuo rinnovarsi […]. E anche la forma non dura, a nessuna cosa, e la natura, che tutto rinnova, ricava dalle figure altre figure»). A volte viene da pensare che le forme dell’immaginario contemporaneo, in apparenza fra loro distanti e l’una all’altra irriducibili, possano invece essere ricondotte a un numero limitato di archetipi comuni: infinite varianti di ben individuati prototipi che si rincorrono epoca dopo epoca. L’una dell’altra, della propria origine, più o meno consapevole. Se questa ipotesi avesse un minimo di plausibilità, esisterebbero – sarebbero esistite – età dell’immaginario che, per la forza fondativa di certi episodi che hanno segnato in modo indelebile quella determinata temperie storica, hanno gettato fondamenta sulle quali un po’ tutti, a venire, si sono trovati a edificare. Se così stessero le cose, una di queste età – fondativa per definizione – sarà senz’altro da ravvisare nel principato augusteo. Cosicché le strutture dell’immaginario contemporaneo si potrebbero ricondurre, volta a volta, a un canone virgiliano, a un canone oraziano oppure a un canone ovidiano. Orientate cioè a un principio della Fondazione (della Genealogia, dell’ethos, della virtus), a un principio dell’Esistenza (della Stimmung o dell’Aura; di quella che appunto Orazio, in una sua indimenticabile Epistola, chiama «ventosità») o a un principio della Metamorfosi.

 

 

Se così fosse non avrei dubbi a collocare l’opera ricca e strana di Luca Trevisani sotto quest’ultimo cartellino. Dal corpus delle Metamorfosi – magari passando per la curiosa interpretazione «antropologica» che gli diede Jean-Jacques Rousseau nel Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini –, per la precisione da XIII, 898-968, è tratto del resto il mito di Glauco che, insieme a un’altra curiosa interpretazione «politica» del principio-metamorfosi come il Don Camaleo di Curzio Malaparte (dove messo alla berlina è un fenomeno che ben conosceva dall’interno, Malaparte, come il «trasformismo» degli Italiani: a partire dal loro alquanto metamorfico, già-socialista Duce…), dà il titolo-coacervo al film e al progetto che lo comprende: Glaucocamaleo. Racconta infatti Ovidio del bellissimo pescatore Glauco, figlio del dio del mare Poseidone e di una ninfa Naiade, di cui s’invaghiscono fanciulle umane e divine (nonché, e mal gliene incoglie, la maga Circe). Col sopraggiungere della vecchiaia e lo sfiorire della sua bellezza, Glauco concepisce l’idea di porre fine alla propria esistenza. Sennonché, dopo aver osservato che i pesci da lui pescati, mangiata un’erba cresciuta in prossimità della riva del mare, riprendevano vigore e si ributtavano in acqua, prova a cibarsi a sua volta di quell’erba magica: e si trasforma allora (o forse torna a essere…) un’immortale creatura marina, un tritone che da allora sta a guardia dello stretto di Messina: per sempre vicino a Scilla, cioè, sua amante d’un tempo. Mirabile storia questa, fra le infinite che gremiscono il poema di Ovidio, che infatti un suo grande lettore come Dante citerà nel passo del Paradiso più teso verso il trascendimento della propria forma umana («Nel suo aspetto tal dentro mi fei, / qual si fé Glauco nel gustar de l’erba / che ’l fé consorto in mar de li altri dèi. // Trasumanar significar per verba / non si poria; però l’essemplo basti / a cui esperïenza grazia serba»: I, 67-72).

 

 

Una tradizione, quella ovidiana, illustre quanto minoritaria: forse perché considerata (a torto) come intermedia fra le altre due, di essa in termini quantitativi senz’altro maggiori. Il canone ovidiano, invece, trovando per definizione il suo fondamento – paradossale fondamento, certo – proprio nell’instabilità e nella mutevolezza, non si può considerare intermedio fra alcunché: dal momento che esso rilutta al posarsi in stati estremi, scorre e fluisce sempre, vive appunto nell’incessante metamorfosi. Sosteneva Italo Calvino, il quale volentieri s’iscriveva entro tale «funzione» (per dirla alla maniera di Contini), che se l’immaginario italiano moderno ha avuto in qualche sospetto l’attitudine meravigliosa (si pensi solo al latitare d’una tradizione surrealista) è stato proprio per l’oblio in cui sarebbe caduta, da noi, la tradizione ovidiana allo snodo decisivo fra XVIII e XIX secolo: se è vero che il fantastico «richiede di saper nello stesso tempo distinguere e mescolare finzione e verità, gioco e spavento, fascinazione e distacco, cioè leggere il mondo su molteplici livelli e in molteplici linguaggi simultaneamente», un suo ingrediente indispensabile sarà da considerarsi appunto il meraviglioso (che nell’accezione comune è sin troppo automatico assimilare al fantastico, ma da esso sarà pure bene non separare troppo rigidamente – come volevano invece certi strutturalisti, oggi, sin troppo pentiti…).  

 

 

Il meraviglioso non nega la realtà dei fenomeni, non è una via di fuga. Non è altro, in effetti, che un dispositivo ottico della mente. Lo si potrebbe definire la lente d’ingrandimento che poniamo sui fenomeni naturali: i quali in quest’ottica «aberrante» (come la definirebbe un altro nume tutelare di Trevisani, Jurgis Baltrušaitis) ci appaiono a quel punto, d’improvviso, mostruosi e appunto fantastici: ma sono invece solo percepiti da una prospettiva inconsueta, non canonica, curiosa. I Mirabilia Urbis altro non erano che gli antenati delle guide turistiche moderne: illustravano, di città interminabili come Roma, i tesori nascosti quanto le glorie universalmente celebrate, le vestigia prestigiose dell’Antico come i luoghi «curiosi» nascosti nelle pieghe del Moderno. Non è un caso che un altro «viaggiatore meravigliato», Carlo Emilio Gadda, abbia dato il titolo Le meraviglie d’Italia (in seguito ribattezzati – con metafora piuttosto disforica, essendo la Certosa del titolo quella di Milano… – Verso la Certosa) ai suoi strepitosi reportage: che si concentrano su riserve nascoste del Tesoro d’Italia (l’Abbazia di Collemaggio in Abruzzo, con le sue «tre rose»; o il Duomo di Como, andato alle fiamme nel 1935 per la «favilla» scintillata dall’«apparecchio di un operaio saldatore») o, con ancora maggiore curiosità, su mirabilia contemporanei, e perfettamente quotidiani, come la Borsa di Milano o le cave di marmo sulle Alpi Apuane.

 

 

Proprio quest’ultima prosa, pubblicata su un giornale nel ’34 e collocata in coda al volume del ’39 (per essere poi tralasciata dall’Autore nella ne varietur del ’61), è quella che tipologicamente meglio mi pare possa essere accostata all’instabilità di genere che, come vedremo, è il più saliente connotato dei testi di Water Ikebana. Nelle poche turbinose pagine di Gadda coesistono, si alternano e a tratti si fondono tra loro, generi del discorso difformi e anche assai distanti: come la definizione geografica del luogo («Il cosiddetto agro marmifero apuano lucchese è circoscritto dalle fosse del Magra e del Serchio, dal tenue greto della Aulella, dalla fascia rivierasca della Versilia» ecc.), l’analisi scientifica del territorio («I marmi apuani, bianchissimi, sono costituiti da carbonato di calcio puro, talora venati da ossidi metallici: le indagini più recenti hanno accreditato l’ipotesi che essi abbiano origine marina» ecc.), la sua riconsiderazione in termini sociali ma anche etico-morali («I cavatori, in certi casi, lavoravano a credito, tacitati dal padrone con acconti, in attesa di tempi migliori: tale è il vincolo che lega, alla millenaria intrapresa, la gente di questa montagna apuana» ecc.), la sua disamina storico-economica («La produzione annuale, nei primi quattordici anni del secolo e nei dieci del dopoguerra, raggiunge e supera le trecentomila tonnellate» ecc.), l’appunto personale che colloca l’occhio dell’osservatore «in situazione» («Il trenino eroico sale ad avanti-indietro, superando un tracciato pendolare come quello della vecchia porrettana, invertendo cinque o sei volte la marcia: si studia di non precipitare dal colmo delle arcate» ecc.) e persino la considerazione gnomica, per non dire filosofica («Le civiltà umane sono elaborazioni dello spirito, tuttavia fondate sopra un mezzo, o materia, che ne è insieme l’antefatto e il supporto» ecc.). Si capisce come, con siffatte caratteristiche, libri quali Le meraviglie d’Italia siano stati pigramente riposti in un ambito «minore», entro la nostra storia letteraria: incollocabili ircocervi, fuoriformato riottosi a ogni incasellamento di «genere», a ogni ortodossia di tradizione.

 

 

A un principio-metamorfosi è improntata la stessa forma instabile che per questo suo progetto, nel suo labirintico dispiegarsi cross-mediale, ha scelto di adottare Trevisani: in cui la propagginazione non lineare di temi e motivi replica, in chiave tecnologica, la medesima struttura iper-digressiva, avanti lettera rizomatica, del poema ovidiano (i suoi «racconti incastonati in altri racconti» che tanto affascinavano Calvino: il quale li leggeva, non a caso, come la più sorprendente profezia del cinema a venire: «ogni verso come ogni fotogramma dev’essere pieno di stimoli visuali in movimento»). Una residenza artistica, nel 2012, presso il museo Macro; un film, Glaucocamaleo appunto, presentato in novembre al Festival di Roma; il libro, Water Ikebana, che vi accingete a leggere (o avete appena letto); infine (?) un evento espositivo, al museo Marino Marini di Firenze, che ha per titolo di nuovo Glaucocamaleo. Come in ogni Metamorfosi che si rispetti, vano sarebbe chiedersi quale aspetto, quale stato materiale dell’immaginario di Trevisani si collochi all’origine di questo suo percorso (non contando certo, in tal senso, la successione cronologica delle relative epifanie esterne). Interrogato al riguardo, l’artista potrebbe ogni volta dare una risposta diversa. Proprio come nel cosmo di Ovidio, fatto secondo Calvino «di qualità, d’attributi, di forme che definiscono la diversità d’ogni cosa e pianta e animale e persona», tutte queste manifestazioni «non sono che tenui involucri d’una sostanza comune che – se agitata da profonda passione – può trasformarsi in quel che vi è di più diverso».

 

 

Il ciclo di opere da Trevisani esposte al Macro – quando tutta questa storia è cominciata – recava del resto un titolo eloquente: Identity is a cloud. Let’s write down the book of water. Se del percorso è ipotizzabile un’origine, un’arkè soggettiva biografica o appunto identitaria, essa ha la consistenza impalpabile, la lontananza intangibile di un grappolo di riferimenti virtuali (la cloud del Web), di una forma celeste o di un fenomeno atmosferico. Ma di quella nuvola ciò che conta, cioè di cui possiamo concretamente fare esperienza, non è che il precipitato del suo liquefarsi. Appunto l’acqua: che il libro infatti, sin dal titolo, celebra e «sagoma» – capriccioso adynaton, quello che lo intitola – in tutte le forme possibili e immaginabili: sostanza esemplare della «materia ininterrotta», come viene definita all’inizio di Water Ikebana, del «flusso delle cose» che tanto ossessiona Trevisani (si ricorderà come Calvino ascrivesse il poema ovidiano alla «contiguità tra tutte le figure o forme dell’esistente, antropomorfe o meno»). Talché – e a dispetto delle fascinazioni dell’autore nei confronti di riti sciamanici (ma passati al filtro di Aby Warburg, sintomatica la sphraghìs del Serpente), di misteri rosacrociani (il phare forse da lui più venerato essendo Yves Klein) e aure simboliche – non posso che simpatizzare per il suo materialismo: cui del resto nessun nipotino di Ovidio, a sua volta figlio di Lucrezio, può derogare.

 

 

Il puntiglio di Trevisani, peraltro, prevede che ciascuna delle forme che di volta in volta assume il suo lavoro (l’allestimento museale, per ovvie ragioni, non è ancora possibile prenderlo in considerazione – sebbene il testo, nel capitolo Urpflanze, già lo prefiguri) ricapitoli en abîme – come l’ontogenesi, ogni volta, nei confronti della filogenesi – la medesima instabilità complessiva. E dunque il libro si conclude con delle immagini; esattamente come il film – a differenza di quasi tutta la videoarte in circolazione – è gremito di parole, scritte e parlate. Ma cosa sono poi, in definitiva, questo libro e questo film? Entrambi oggetti polimorfi, o appunto metamorfici, in quanto tali risulteranno diegeticamente irrisolti – così almeno sono risultati, agli occhi di certi spettatori – in quanto narrazioni; mentre d’altra parte appariranno sin troppo razionali, e come vedremo ideologicamente orientati, per essere ascritti al regime dell’installazione (in effetti l’inizio del film, con la pur straniata conversazione fra due beckettiani sgusciatori d’ostriche filosofi, ha l’impostazione dell’apologo drammatizzato; mentre la scrittura di Water Ikebana piega a tratti – specie quando tocca certe figure di architetti visionari, nei confronti delle quali l’autore pare nutrire un trasporto non solo intellettuale – verso il saggio biografico; altre volte prende piuttosto – al contrario – la forma della descrizione naturalistica se non proprio del Baedeker, della guida indirizzata al viaggiatore curioso: esortato a percorrere col proprio corpo quei sentieri, a fare coi propri sensi quelle esperienze che nessuna descrizione riuscirà mai a «tradurre» in forma davvero esaustiva).     

 

 

Si potrebbe opinare che l’incollocabilità di genere che connota il suo lavoro sia un portato dello spiccato anti-antropocentrismo di Trevisani (che all’inizio dell’ultimo episodio di Water Ikebana, tra il serio e il faceto, sbotta la propria militanza «contro l’individuo e l’uomo in generale, contro la nostra specie»; mentre proprio a questo tòpos del pensiero moderno – dal Leopardi delle Operette morali al Giorgio Manganelli, altro sicuro phare, che si accorge di come il paesaggio alieno dell’Islanda non «presupponga l’uomo che guarda» – è dedicato il gag metafisico dal quale prende le mosse, come detto, il Glaucocamaleo filmico). Ma – con perfetta anfibologia «metamorfica» – si potrebbe altresì sostenere il contrario. Certo è che le immagini più perturbanti, in Glaucocamaleo, sono quelle girate dal drone, un elicottero giocattolo con a bordo una micro-camera, che ci offre a un certo punto una sua «soggettiva». Occhio davvero alieno, questo, poiché non appartiene ad alcun corpo umano, nemmeno come sua protesi tecnica. Seguono, con successione di montaggio esemplare della logica denarrativa del film, splendide immagini di un sottobosco stillante d’umidità, dal quale essuda una schiuma gorgogliante che pare uscire dritta dal video-capolavoro del post-human, appunto: Cremaster di Matthew Barney.

 

 

Ecco, leggendo Walter Ikebana dopo aver visto le sequenze di Glaucocamaleo, mi è parso che a tratti il commendevole anti-antropocentrismo di Trevisani finisca per confliggere, o entrare almeno in una dialettica senza possibile sintesi, con un altro suo ideologema evidente: la celebrazione della vita, dell’energia, del titanismo quasi romantico (sebbene, con quella che è allora forse una Verneinung, l’autore a un certo punto questo possibile etimo lo discosti da sé) degli architetti-demiurghi, o dell’arrampicatore solitario col suo mettersi alla prova conradiano (quella che Primo Levi chiamava «la carne dell’orso»), o del genio che lancia il suo eureka inascoltato (l’inventore del super-ghiaccio, Geoffrey Pyke, ma anche il suo erede odierno: Kary Mullis, Premio Nobel per la Chimica del 1993, convocato come prestigiosa voice off). Giungendo a sostenere (non a caso era citato, in precedenza, il «correlativo oggettivo» di Eliot) che «la natura non esiste, la natura non è niente, è solo una superficie riflettente in cui l’uomo vede la propria immagine e, riconoscendola, costruisce la propria storia».

 

 

È questa in particolare la matrice dei capitoli più partecipati di Water Ikebana, Kinkaku-Ji e Time After Time: non a caso collocati al baricentro del libro. Sono pagine in cui, sintomaticamente, la temperatura della scrittura s’innalza in misura percettibile. Quando Trevisani indulge a interpretare le imperfezioni e il degrado del rivestimento di polistirolo della «scandalosa» chiesa di Mater Misericordiae a Baranzate, anziché come casuale addizione di forma e supremo hasard objectif (al modo delle craquelures sul Grande Vetro, insomma), come «libro della Natura» da «leggere», sistema oscuro di riferimenti che è però in qualche modo indirizzato alla nostra decodifica («abbiamo iniziato a leggere le macchie del mondo per poi passare ai fondi di caffè, e non sarebbe per nulla strano iniziare a osservare anche questi arabeschi di polistirolo nello stesso modo, frutto di una scrittura automatica non più di stampo surrealista, ma postindustriale»), viene alla memoria un passo meraviglioso di Leonardo di cui si ricorderà il Vasari (ma che si spinge ad anticipare Rorschach e Jung): «non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchie de’ muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi, ne’ quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime», perché «nelle cose confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni». Leonardo! Nonché il titanismo romantico, addirittura l’Homo mensura dell’Umanesimo D.O.C.: l’antropocentrismo universale, paranoico e totalitario, che umanizza ogni paesaggio, in tutte le forme della natura credendo di ravvisare la traccia del nostro corpo (ancora Leonardo: «Adunque potrèn dire la terra avere anima vegetativa, e che la sua carne sia la terra, li suoi ossi sieno li ordini delle collegazioni de’ sassi di che si compongono le montagne, il suo tenerume sono i tufi, il suo sangue sono le vene delle acque, il lago del sangue che sta intorno al core è il mare oceano»). E allora anche la polemica presa di distanze di Trevisani dal maggior erede contemporaneo di questa tradizione, Max Sebald («questo non è un libro di Sebald»), ha il valore di una negazione freudiana.

 

 

Ma a ben vedere questa medesima ambivalenza era propria già del nostro remoto prototipo: se è vero che Le Metamorfosi celebrano sì il principio della contiguità universale ma anche, insieme, la dottrina della metempsicosi, della continuità della vita al di là del muro del tempo, che Ovidio eredita da Pitagora (già, proprio l’inventore dell’Homo mensura…). Il fatto è che, fortunatamente, se di un pur post-apocalittico neo-umanesimo si può parlare a proposito di Luca Trevisani, non siamo certo di fronte a un nuovo protagonismo del soggetto individuale. La vita umana – che malgrado tutto trova in certe pagine di Water Ikebana una sua celebrazione sorprendente, e proprio per questo quasi commovente – non è in alcun modo la tiritera risaputa dell’individuo storico-biografico-aneddotico. Come alla fine del suo percorso finiva per ammettere il più grande pensatore materialista del XX secolo, Gilles Deleuze, «la scrittura ha fondamentalmente a che fare con la vita». Ma quando Deleuze dice «vita», appunto, non intende la biografia individuale bensì un’energia che trascende il soggetto. Sulle orme di Bergson, infatti, soggiunge: «la vita è qualcosa più che “personale”» (di conseguenza «è disgustoso» chi riduca la letteratura «ai propri affari privati», è «veramente la letteratura da supermercato, da bazar, da best-seller, la vera merda»). Al contrario scrivere significa cogliere qualcosa della vita che «scorre in te». Lo stesso – vettore della metafora compreso, naturalmente – potrebbe ben dire Luca Trevisani (che ad ogni buon conto, nel capitolo cui dà l’allusivo titolo di Kinkaku-Ji, il tempio di Kyoto cui Mishima dedicò Il padiglione d’oro – tanto ci sarebbe da dire, su questi intertitoli… – evoca appunto «i pensieri di Bergson e Deleuze»).

 

 

C’è un saggio miracoloso, di quell’altro grande umanista materialista che è Jean Starobinski, che prende il partito di leggere quello che nella vulgata è il massimo caposaldo del soggettivismo psicologico, Madame Bovary, esclusivamente come atlante delle possibili reazioni dei nostri corpi al variare della temperatura e dell’umidità. S’intitola La scala delle temperature, ed è forse il miglior viatico a un’idea di scrittura quale la vagheggiava, a sua volta alla fine del proprio percorso (nell’ultima pagina da lui vergata delle incompiute Lezioni americane), quel Calvino che ho già avuto modo di citare, qui, e con le cui parole è giunto il tempo di concludere: «magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…».  

 

Prefazione dal volume di Luca Trevisani, Water Ikebana Stories About Solid & Liquid Things pubblicato da Humboldt Books

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