Sentire / Assolutamente musica: Murakami incontra Ozawa

3 Dicembre 2019

Parlare di musica, lo sappiamo, è una sfida. Specie se si tratta di musica assoluta e non di opera. Ma paradossalmente questo libro, nato come una conversazione tra lo scrittore Murakami e il direttore d’orchestra Ozawa, non ci fa caso. 

Il segreto sta nella naturalezza: con grande semplicità Murakami si ritrova a parlare di musica con Ozawa, all’epoca convalescente. Gli incontri, che si succedono l’un l’altro, giovano alla salute del direttore d’orchestra e rivelano allo scrittore se stesso. Murakami scrive infatti: «Nel corso dei nostri incontri ho capito di voler rendere conto di una risonanza naturale del cuore. La risonanza del cuore di Ozawa, ovviamente, che ho ascoltato con la massima attenzione. Dopotutto, io facevo le domande e lui rispondeva. Ma spesso nelle sue parole sentivo l’eco del mio cuore» (p. 11).

Nella Prefazione Murakami mette le mani avanti definendosi un dilettante. Fin dalle prime pagine, però, l’oculatezza delle scelte musicali rivela un ascoltatore sopraffino, mentre Ozawa, serenamente, si lascia interrogare su temi grandi e piccoli, arcinoti o privati, interpreti poco conosciuti o di prima grandezza. Come volevasi dimostrare, nella Postfazione Ozawa rivela: «Nessuno ama la musica quanto Haruki. Sia la musica classica che il jazz. Non solo la ama, ma la conosce benissimo» (p. 301).

 

Il terreno su cui germogliano gli ascolti musicali è l’incontro raro e prezioso di due anime e due diverse sensibilità che via via molto scoprono di avere in comune: il rigore dello studio, la disciplina della scrittura, certi abiti mentali. Ma – si chiederà forse a questo punto il lettore – la letteratura e le librerie non son forse piene di incontri eccezionali? E invece no, almeno non sul terreno della musica.

 

Seiji Ozawa, a sinistra, e Haruki Murakami, a destra. © Nobuyoshi Araki.


Stupefacente è che i due saltino, in men che non si dica, alcuni ostacoli. Il primo è una barriera d’accesso: non è così comune che un musicista voglia parlare a lungo del suo lavoro con un non-musicista. Come scrive benissimo Giorgio Manganelli nel suo Una profonda invidia per la musica. Invenzioni a due voci con Paolo Terni: «Il mondo della musica, in quanto tale, era visto come un inaccessibile “hortus conclusus”, abitato da un linguaggio separato e misterico la cui conoscenza tecnica ra presupposto intransigente: chiunque tentasse una qualsiasi esternazione, pur amando e conoscendo la musica, sentiva l’obbligo di cautelarsi con avvertimenti come “non me ne intendo, ma…”». Molti interpreti sono convinti che la musica parli di per sé e che non sia necessario tradurla in parole. Depositarie del significato ultimo del lavoro degli interpreti dovrebbero essere solo le incisioni o, per chi ha la fortuna di assistervi, le esecuzioni dal vivo. Un tempo, probabilmente, era vero. Ma in un mondo in cui chi compra la nostra attenzione reputa un successo guardare un video per quindici secondi di fila, la Prima Sinfonia di Mahler (il compositore cui è dedicata la Quarta conversazione di Assolutamente musica) che dura un’ora ha bisogno di riflessione, ascolti ripetuti, discussioni.

 

Il secondo ha a che fare con lo scorrere del tempo e con la propria biografia. Come gli scrittori talvolta provano un certo straniamento o addirittura disagio nel rileggersi dopo anni, così non molti interpreti accetterebbero con serenità di riascoltare le proprie incisioni («Non avevo mai ascoltato con tanta concentrazione dei concerti diretti da me», confessa a p. 210). Invece Ozawa è zen: osserva se stesso nel trascorrere degli anni e delle esperienze con umiltà, limpidezza e obiettività, talvolta con partecipazione talaltra con distacco, senza mai concedersi la debolezza (o la lusinga?) del rimpianto del tempo che fu. 

 

Fin dalla prima pagina si capisce che i due fanno sul serio, proponendo al lettore un ascolto comparato di diverse versioni dello stesso brano: il primo capitolo è infatti dedicato soprattutto al Terzo Concerto in do minore per pianoforte e orchestra di Beethoven, discusso nelle interpretazioni di Glenn Gould diretto da Leonard Bernstein e poi da Herbert von Karajan, Rudolf Serkin e Bernstein, Serkin e lo stesso Ozawa, Mitsuko Uchida e Kurt Sanderling. Il primo capitolo offre quindi una scuola dell’ascolto che tutti possono seguire attraverso il minutaggio preciso di quella data esecuzione annotato nel testo, allineando i grandi interpreti e le loro peculiarità, insieme ad alcuni momenti celebri. Come quando Bernstein, contravvenendo a una consuetudine – non si parla prima del concerto – annunciò: «State per ascoltare quella che definirei un’interpretazione non ortodossa del Concerto in re minore di Brahms. Non posso dire di essere totalmente d’accordo con la concezione di Gould e ciò solleva il quesito del perché io lo stia dirigendo»: in pratica una bomba mediatica. 

 

Molte osservazioni fulminee colgono nel segno come il colpo di piatti della Prima Sinfonia di Mahler (quarto movimento): Murakami domanda, ad esempio, quale sia la caratteristica più importante di un direttore d’orchestra quando deve prendere una decisione improvvisa. «Non si tratta tanto della capacità del direttore di decidere – ribatte Ozawa – quanto di capire, grazie alla sua esperienza, come l’orchestra deve respirare. Ma lei sarebbe sorpreso se le dicessi quanti direttori non lo sanno fare!» (p. 67).

 

Le sei conversazioni, intervallate da quattro interludi (esilarante Le bacchette di Eugene Ormandy) più un breve focus sulla Seiji Ozawa International Academy Switzerland, si dipanano tra l’inizio del 2010 e il novembre del 2011 e procedono toccando temi noti, ma senza dubbio originali per l’ascoltatore comune, quali, ad esempio: la globalizzazione del suono delle compagini orchestrali, la lettura della partitura, l’opera, cosa significhi insegnare a un’orchestra, il pubblico di Milano, chi è un artista e chi no, la rivoluzione dell’ascolto degli anni ’60 del Novecento, il blues a Chicago e il jazz in Giappone, il rapporto tra la scrittura e la musica, oltre naturalmente all’ascolto di innumerevoli capolavori come il Sacre du Printemps di Stravinsky e la Sinfonia fantastica di Berlioz. L’andamento rapsodico, tipico della conversazione, dà freschezza e leggerezza al libro. Murakami pone domande con grande intelligenza e tatto (lo scrittore, appassionato di jazz, si autodefinisce un dilettante pieno di onestà e curiosità, ma come si è detto è un ascoltatore attento, dalla cultura enciclopedica e dai sensi acuti), con l’interesse a volte naïf di chi non è del ramo, ma senza i pregiudizi dell’habitué. Il confronto su temi musicali che Ozawa e Murakami portano avanti in questo libro – molto più di discussioni sulla musica, in cui fra le righe s’intravede un bel rapporto, di reciproca stima, accoglimento e amicizia, un incontro umano che è indispensabile affinché si raggiunga questo risultato – indicano la strada verso una certa raffinatezza dell’ascolto cui tutti gli ascoltatori possono tranquillamente ambire purché ne abbiano voglia. Un altro pregio è che abbiano evitato il rischio del genere “conversazioni tra celebrità”: mai vedremo all’opera l’atteggiamento di adorazione acritica del fan e l’accondiscendente supponenza del maestro. Infine, Ozawa si lascia andare a ricordi personali (Bernstein, di cui Ozawa è stato assistente, doveva dirigere il Fidelio di Beethoven al Theater an der Wien. «Quella volta c’ero anch’io, a Vienna. Pensi che ero seduto di fianco a Karl Böhm! [...] è stato lui a offrirmi il biglietto. Mi ha passato quello destinato a sua moglie. All’epoca io ero sempre in bolletta, mi avevano invitato a dirigere qualcosa a Vienna, ma pagavano poco. [...] Per questo Böhm mi ha dato quel biglietto», p. 157) e osservazioni sui critici musicali o sui colleghi (“Lenny” Bernstein nell’ultimo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven era lento come una lumaca!, p. 37. Oppure: «il Maestro Karajan [...] anche se conosceva le opere a memoria nota per nota, quando dirigeva teneva sempre gli occhi chiusi», p. 184). 

Una sola nota dolente: errori materiali, invisibili agli occhi di un traduttore (differenza tra partitura e spartito, provino in luogo di audizione, settori invece di sezioni dell’orchestra, i celeberrimi – e inesistenti – corni francesi) si sarebbero facilmente evitati affidando il testo in lettura a un consulente musicale. 

 

Concludendo: se – specie in Italia dove l’educazione musicale si riceve ancora nel 90% dei casi per trasmissione famigliare e non come un contenuto educativo di base identico agli altri appreso nella scuola dell’obbligo – ai lettori arriverà il messaggio che parlare di musica si può e si deve (pur richiedendo la musica d’arte una certa attenzione prolungata nel tempo), e che chiunque potrà ascoltare la classica provandone piacere, allora questo libro non solo avrà fatto centro, ma avrà compiuto anche una missione salvifica. Quella di non lasciare indisturbati nell’irrilevante riserva degli indiani dello “specialismo” (con tanto di discorsi tecnici e riviste specializzate ad allietare la combriccola de’ noi altri) dove si sono autoreclusi i musicologi e gli storici della musica, i critici, gli interpreti e gli insegnanti, i direttori dei teatri, etc. 

«Se dovessi dire – scrive Murakami – quanto sia alto il muro che separa il professionista dal dilettante, [...] be’, è quasi insormontabile. [...] Cercare la via più efficace per superare quel muro è un lavoro prezioso. Ed è una via che dovremmo essere in grado di trovare, in qualsiasi campo artistico, quando c’è un comune sentire» (p. 74).

 

Murakami Haruki, Ozawa Seiji, Assolutamente musica, Traduzione di Antonietta Pastore, Torino, Einaudi 2019, pp. 312

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