In media veritas

29 Gennaio 2016

Vivere la rivoluzione della tenerezza: è l’esortazione che Papa Bergoglio ha pronunciato pochi mesi fa durante la sua visita a Cuba. Nonostante il termine tenerezza sia una parola specifica del vocabolario dell’attuale pontificato, se esso viene usato a Cuba, in associazione oltretutto alla parola rivoluzione, ricorda immediatamente una delle frasi più famose legate al nome di Che Guevara: bisogna essere duri senza perdere la tenerezza.

 

Difficile sottrarsi all’impressione che in tal modo il Papa abbia inteso rendere particolarmente esplicita la sua intenzione di riappropriarsi degli spazi secolarizzati, inserendosi con abilità nel gioco prospettico fra religione e laicità basato sulla infinita e reciproca sostituzione: come le società secolarizzate hanno invaso e occupato la sfera del sacro, così ora la religione invade il loro spazio mostrando tutta la sua capacità di invenzione politica, a partire naturalmente dal linguaggio. Da qui l’uso del termine rivoluzione che non cessa di indicare la possibilità di cambiare se stessi e la storia, a dispetto dei fallimenti e dell’eterogenesi dei fini connaturati ai tentativi concreti di cambiamento radicale. In un momento di crisi senza fine della politica Bergoglio cerca così di appropriarsi di una delle parole fondanti il legame fra gli uomini e la loro azione comune, cercando di rivitalizzare, su un diverso piano, la speranza e l’ideale che essa sa evocare anzitutto attraverso l’esempio e la storia personali, garanzie necessarie di un linguaggio credibile e, nel caso specifico, di una forza di cambiamento che sembra volersi estendere oltre la Chiesa e la dimensione spirituale.

 

Proprio perché Bergoglio non esita a mettere in gioco se stesso come uomo nel mondo, la frase che ha pronunciato a Cuba fa riflettere tanto sulla funzione legittimante del linguaggio utilizzato quanto sul fatto che nel dire siano inscindibili l’agire e l’essere agiti dal mondo cui si appartiene. A Cuba il termine rivoluzione è naturalmente famigliare per la storia di speranza, ma anche di sofferenza, che esso evoca e se il suo utilizzo da parte del Papa sembra sottintendere la disponibilità al dialogo, dunque a porsi nello spazio non solo lessicale dell’altro, l’associarlo alla parola tenerezza comporta subito lo spostamento del punto di vista: di conseguenza la parola rivoluzione diventa sinonimo di disponibilità all’incontro, non più conflitto, e la durezza, che nelle parole di Che Guevara era associata in modo polare, cioè indissolubile, alla tenerezza, si separa da quest’ultima poiché la storia l’ha rivelata non soltanto come forza resistente e coraggiosa. Bergoglio, infatti, ha parlato a un popolo che ha conosciuto la rivoluzione, soprattutto nella sua realizzazione, anche come durezza che inasprisce e avvilisce e lo ha fatto usando il termine tenerezza, che ai cubani richiama l’antica speranza rivoluzionaria disattesa ma che, al tempo stesso, indica, nelle intenzioni del Papa, l’amore del Vangelo, vale a dire il conforto e la protezione che gli esseri umani possono donarsi perché a loro li ha donati un dio ribelle che ha scelto di soffrire e di morire come un uomo. La parola tenerezza diventa così simbolo, vale dire segno di un vero e proprio incontro, reso possibile dalla necessità condivisa di reagire alla sofferenza. A garantire questo incontro e a legittimare il linguaggio papale dandogli forza e, per certi versi, agendolo, sembra essere stata anzitutto la storia delle fallite speranze e dei tentativi di riscatto che accomuna nei suoi esiti, al di là delle storie fra loro diverse e per certi versi assai lontane, Cuba e il Sudamerica, dunque Bergoglio e i cubani, prima che le strategie comunicative. Proprio questa storia sembra dar ragione anche della predilezione del Papa per la scrittura neotestamentaria, quale parola tenera e sovversiva del Cristo che accoglie nel suo abbraccio di amore e di solidarietà tutti coloro che sono oppressi, così come per il Cantico dei Cantici, che della tenerezza può essere considerato il maggiore riferimento religioso. La valorizzazione da parte di Bergoglio di questa assunzione teologica di un sentimento umano è tutt’uno con la sua predilezione della storia francescana, una storia rivoluzionaria, soprattutto per la Chiesa, anche per la scelta dei frati minori di vivere nel mondo e insieme ai laici.

 

Dell’attenzione del Papa al mondo dà conto, del resto, l’efficacia del suo stile comunicativo che fa tornare alla mente la sprezzatura di cui scrive Baldassar Castiglione nel suo Cortegiano, l’uomo che mette alla prova i suoi ideali in una realtà in continua mutazione, agendo con la disinvoltura che solo può dare la sapienza di sé e del mondo. La sprezzatura consiste, infatti, nel «fuggir quanto più si po, e come un asperrimo e pericoloso scoglio, la affettazione» mostrando invece ciò che si dice come se fosse espressione spontanea, tanto da sembrare improvvisata, pronunciata senza fatica, e celando, di conseguenza, l’arte che sostiene la grazia di tanta naturalezza. L’esibizione erudita, al contrario, rende il discorso fasullo rischiando oltretutto di suscitare il sospetto «negli animi del populo di non dover essere da quella ingannati»: meraviglia e fiducia discendono piuttosto dal discorso semplice che dice cose grandi. Un risultato difficile da raggiungere, cui si può tendere se la disposizione genetica e la storia da cui si proviene sono confortate da un patrimonio culturale, quindi da una solida costruzione di sé, da cui attingere gli strumenti necessari a restituire il proprio sentimento della vita: la grazia della sprezzatura non è tecnica affabulatoria, ma affabilità, vale a dire espressione di una realizzata armonia interiore capace di sostenere una parola politica forte perché inscindibile dal modo di essere di chi la pronuncia.

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