Ritorno al futuro / Bolaño. La letteratura nazista in America

Iniziamo oggi un nuovo speciale: Ritorno al futuro. L'idea è quella di rileggere libri del passato che offrano una prospettiva capace di illuminare il momento che viviamo oggi. Libri di storia, di antropologia, arte, filosofia, così come romanzi e testi poetici per leggere le nuove forme di autoritarismo del nostro tempo.

 

Le parole che usiamo mi sono state trasmesse e io le

   uso, ma non per farmi capire, non per tentare di
   vuotarmene,
allora perché?
Il fatto è che io non le uso proprio,
in verità io non faccio altro che tacere e picchiare.

[...]

 

Antonin Artaud, Picchia e fotti (trad. Emilio e Antonia Tadini)

 

Si presenta come una raccolta di brevi monografie apocrife, con marcati tratti parodici, su inesistenti scrittori d’oltreoceano che hanno militato tra le fila dell’estrema destra transnazionale, ma La letteratura nazista in America (Adelphi 2013, trad. Maria Nicola), pubblicato originariamente nel 1993 dalla casa editrice spagnola Seix Barral, è anche e soprattutto una storia sotterranea delle lettere americane. È stata scritta a mo’ di dizionario enciclopedico, le cui voci costituiscono un iperbolico catalogo di vite immaginarie molto plausibili, soprattutto quando l’urgenza è proprietà immanente di un periodo storico, accomunate da una certa predisposizione all’eccesso e al fanatismo.

 

Sono autori – per la maggior parte poeti – intellettuali, filosofi, editori che, durante la loro esistenza, coltivarono una forte simpatia per l’insieme di ideologie e di concezioni che costituirono i fondamenti teorici del nazismo, del fascismo e del falangismo. Per alcuni di questi autori fu più di una passeggera attrazione compromettente, tanto che arrivarono ad arruolarsi e a imbracciare le armi per difendere i movimenti politici che attinsero a queste dottrine. Altri addirittura conobbero personalmente Hitler, Mussolini o Franco, facendosi ritrarre in fotografie che poi avrebbero dovuto custodire segretamente sorvolando sull’origine di quegli scatti che presto sarebbero diventati prove tangibili dell’infamia cui parteciparono entusiasti. Tale catalogo, diviso in quattordici sezioni, abbraccia un panorama di autori così vasto e intricato da far credere al lettore che sia stato compilato da innumerevoli specialisti con l’obiettivo di consentire a studenti, insegnanti, professionisti e fruitori occasionali, di verificare una data, chiarirsi meglio le idee su un autore, nutrire una curiosità letteraria su un controcanone ipotetico ma inoffensivo che la Storia ha condannato per sempre all’emarginazione. 

 

 

Le cose però non stanno del tutto così. Roberto Bolaño, che ha ideato e poi redatto l’opera forse con l’aiuto dei suoi alter ego letterari, ha creato un inventario di esaltati la cui lettura, ben lungi dall’essere distaccata, priva di qualsivoglia trasporto emotivo – proprio come dovrebbe essere la consultazione di un manuale di questo tipo, tra l’altro attendibilissimo perché inventato di sana pianta –, è invece contagiata dall’irriducibilità di queste esistenze proclivi al rifiuto delle convezioni, prese da un fanatismo che li rende incapaci di controllo e di moderazione. Il loro potere di seduzione potenzialmente illimitato, ipnotico, è paragonabile a quello dei piloti kamikaze che, nonostante l’addestramento spesso insufficiente, quando non improvvisato, volano sicuri, eroici, verso i loro bersagli. Così, i nazisti di Bolaño sono tutti invasati, potenziali suicidi che antepongono l’estasi del gesto all’efficacia strategica. Simultaneamente più deboli e più forti degli altri, le loro vite testimoniano un’energia istintuale che si fa beffe della minaccia della morte. L’importante è imparare a decollare e l’atterraggio deve essere catastrofico. 

Così, invece di passare rapidamente ad altro, come si fa tutte le volte che un dizionario dissolve un dubbio colmando una lacuna, il lettore si trattiene tra le pieghe di queste biografie più del dovuto, talvolta ammirandone l’intrepidità intellettuale, talaltra scoprendo con orrore di essere stato sedotto da un’invidiabile coerenza che queste figure hanno sviluppato in seno alla più esecrabile delle aree ideologico-culturali.

 

Oltre all’indiscutibile presenza di elementi ferocemente canzonatori, che la critica ha già ampiamente messo in luce, per cui La letteratura nazista in America sarebbe un energico quanto spregiudicato j’accuse contro l’establishment letterario iberoamericano, del quale restituirebbe un’immagine rovesciata ma fedele, l’operazione politica di Bolaño è a nostro avviso ben più complessa e si articola su due direttrici. 

 

La prima direttrice è la costruzione di una genealogia di scrittori che, schierati dalla parte opposta rispetto ai letterati e agli artisti che piansero la morte di Salvador Allende e di Pablo Neruda, ne condividono però il senso di smarrimento provocato dall’estinzione di una scrittura dal marcato sentore epico, di itinerari poetici caratterizzati da elementi fusionali (con la natura e con il popolo cileno, argentino o americano), e della fine dell’idealizzazione della figura del poeta come parte integrante della Storia intesa teleologicamente come cammino verso la vittoria. Non c’è più totalità e il poeta ora non è che un reduce mutilato. Come se queste figure ci suggerissero, coi loro fallimenti esistenziali e artistici, che la fine di un’epoca letteraria marcata da ambizioni totalizzanti e da un patriottismo mistico, dagli accenti corali, fosse avvenuta ben prima degli anni Settanta e che il merito artistico delle avanguardie storiche fu l’ostinata messa in scena, tanto speranzosa quanto disperata, della propria estinzione. 

 

Invece di insistere sull’antisemitismo come elemento che sintetizza in sé l’irriducibile irrazionalità del nazismo, Roberto Bolaño lavora alla caratterizzazione dei suoi nazisti americani calcando la mano sulla loro disposizione quasi spontanea all’eccentricità. In questo senso, allora, questi personaggi sono più pazzi che paranoici: ogni loro pensiero e azione, così come la loro “torrenziale furia creatrice” (p. 40), non sono dettati dalla ferma convinzione dell’esistenza di una congiura (quella ebraica), bensì dall’irriducibilità di chi è ossessionato dallo spettacolo estetico fino a immolare la propria vita alla rappresentazione dell’esperienza autentica. La maggior parte di questi autori trasgredisce anche i codici di un certo tipo di letteratura che, in epoca di dittatura, si concentra sulla sfera interiore e si astiene dal comprendere il momento storico in cui invece è inequivocabilmente immersa, nonostante tenti, invano, di considerarsi depoliticizzata. I nazisti di Bolaño veicolano esperienza vissuta, per questo motivo sono fatti della stessa sostanza dell’aneddotica.

 

 

La seconda direttrice, che diventa esplicita con i personaggi di Pedro González Carrera (pp. 75-81), Franz Zwickau (pp. 103-105), Willy Schürholz (pp. 106-111), i fratelli Schiaffino (pp. 171-191) e soprattutto con Carlos Ramírez Hoffman e le sue poesie aeree, cui è dedicata tutta la penultima sezione (pp. 195-220), è il disvelamento del legame che intercorre tra l’arte d’avanguardia e i regimi totalitari: le innovazioni e le rotture formali non è detto che veicolino contenuti progressisti. Da Hitler a Pinochet, i governi del terrore e l’arte d’avanguardia non sono mai stati incompatibili, così come l’innocenza non è mai stata una caratteristica intrinseca della letteratura. O meglio: la mancanza assoluta di colpa o di responsabilità morale e/o giuridica, non costituisce di per sé alcuna garanzia per la valutazione della qualità artistica, e viceversa. 

 

Il modo in cui Bolaño affronta e disvela questa compatibilità in La letteratura nazista in America è significativo per varie ragioni – tra queste c’è il fatto che il modello a cui lo scrittore cileno si riferisce nella composizione del libro, in un punto preciso e cruciale del testo, è abbandonato e superato. 

Dalla prima alla dodicesima sezione, Bolaño si muove nel solco ben codificato delle biografie fittizie, tradizione di cui fanno parte, nella letteratura moderna, opere come La sinagoga degli iconoclasti di Wilcock, la Storia universale dell’infamia di Borges, i Retratos reales e imaginarios di Alfonso Reyes e le Vite immaginarie di Schwob – le quali a loro volta discendono dalla prosa enciclopedistica. 

Questa tradizione, com’è chiaro anche nel racconto di Danilo Kiš “Enciclopedia dei morti” (in Enciclopedia dei morti, Adelphi, 1988), per mezzo dello stratagemma delle false attribuzioni, trasforma l’erudizione e l’archivio – la volontà di verità, esattezza e universalità dell’enciclopedia – in vettori speculativi che spingono la narrazione nel territorio della letteratura fantastica. 

Lo stesso Borges, nel saggio “Magie parziali del Don Chisciotte” (Altre inquisizioni, Feltrinelli, 1963), segnala come l’elemento metanarrativo, di cui è fortemente impregnata anche La letteratura nazista in America, sia uno dei motori principali della letteratura fantastica, ovvero di quella letteratura che fa dell’indagine sui limiti del reale il proprio tema (cfr. Rosemery Jackson, Il fantastico. La letteratura della trasgressione, Tullio Pironti, 1986). Una delle figure fondamentali della letteratura fantastica è l’ucronia: l’attrito tra il reale e il possibile lascia sorgere una storia universale alternativa: il “what if” generato dall’artificio ucronico problematizza la necessità della storia reale, l’insieme dei nessi e delle cause che la compongono. Analogamente, nel caso dell’operazione di Bolaño, la questione non riguarda l’opportunità – come fosse una scelta arbitraria, una provocazione o un divertissement – della costruzione di un controcanone di scrittori americani filofascisti, ma l’indagine sulla natura del legame che unisce letteratura d’avanguardia e ideologia nazista.

 

Qual è la natura di questo legame? Bisogna attendere la penultima sezione di La letteratura nazista in America perché una risposta cominci a profilarsi. La biografia di Carlos Ramírez Hoffman, l’infame, si presenta diversa dalle altre fin dall’inizio. Per la prima volta nel libro, il narratore manifesta se stesso:

 

“Emilio Stevens era il moroso (la parola moroso mi fa venire la pelle d’oca) di María Venegas […]” (p. 195).

 

Si tratta di Arturo Belano, alter ego dell’autore cileno, poi narratore di Stella distante e personaggio fondamentale de I detective selvaggi

Come molti degli altri profili antologizzati, Ramírez Hoffman è poeta, soldato e nazista; tuttavia egli è anche tra i pochi cileni a comparire nel libro, e unico tra questi a partecipare attivamente alle azioni repressive messe in atto dalla giunta militare in seguito al colpo di stato del settembre 1973. 

Questi due elementi segnano un passaggio nel testo dal carattere parodico-satiresco a quello drammatico. Nel caso di Ramírez Hoffman, Bolaño abbandona il distacco proprio del piglio enciclopedistico, in favore di uno sguardo votato all’immedesimazione e all’empatia. 

 

 

Le conseguenze di questo cambio di registro e di prospettiva sono evidenti nella struttura narrativa: la vicenda di Ramírez Hoffman non è narrata secondo i codici della biografia immaginaria, avvicinandosi invece a quelli del poliziesco. Di più: questo salto rappresenta uno spartiacque fondamentale nell’opera dello scrittore cileno. La storia di Ramírez Hoffman è infatti ripresa, riscritta ed espansa in Stella distante, in cui l’infame Ramírez Hoffman diventa Carlos Wieder. È lo stesso Bolaño a chiarirne le circostanze: fu Arturo Belano a raccontare all’autore la storia di Carlos Ramirez Hoffman – ma rimase insoddisfatto del risultato in La letteratura nazista in America. Così, i due si rintanarono nell’appartamento dell’autore in Spagna e, guidati dai sogni e dagli incubi di Arturo, scrissero Stella distante (cfr. l’introduzione all’edizione statunitense di Stella distante: Distant star, New Directions, 2004).

 

La circolazione di temi e personaggi, se non proprio di intere e conchiuse narrazioni, tra diverse opere narrative diventa da quel momento una costante nel corpus dello scrittore cileno. Questa circolazione permette a Bolaño di fare un uso peculiare dello stratagemma della falsa attribuzione: Carlos Ramírez Hoffman in La letteratura nazista in America e Carlos Wieder in Stella distante sono lo stesso personaggio pur avendo un nome diverso; analogamente, il Lalo Cura del racconto “Prefigurazione di Lalo Cura” (Puttane assassine) non è lo stesso personaggio del Lalo Cura di 2666, pur portando lo stesso nome. Se in Borges, e nella tradizione della biografia immaginaria, l’utilizzo di opere e riferimenti biobibliografici fittizi genera quell’attrito realtà/finzione che è il motore della narrazione, in Bolaño l’asse di questo procedimento si sposta, rivolgendosi all’interno: esso genera una serie di rimandi paradossali tra le opere e tra i personaggi che vi agiscono. La logica paradossale delle false attribuzioni interne (un esempio su tutti: il Lalo Cura di “Prefigurazione” è un assassino; quello di 2666 è invece uno dei pochi poliziotti in grado di comprendere e dunque di porre fine all’abominio degli assassinii di donne a Santa Teresa) spinge l’opera di Bolaño in una dimensione di fondamentale ambiguità: gli opposti sembrano ora toccarsi e appartenersi. È solo in questa dimensione, a partire da essa, che la natura del legame tra letteratura d’avanguardia e ideologia nazista può essere indagata e sviscerata – che i sogni e gli incubi di Arturo Belano possono trovare espressione.  

 

Cos’è questa dimensione rarefatta in cui gli opposti sembrano appartenersi e toccarsi? Nell’analizzare, in Cultura di destra, le radici e le ramificazioni delle ideologie di estrema destra, lo storico, filosofo e germanista Furio Jesi utilizza una riflessione di Oswald Spengler. Scrive il filosofo tedesco: “L’unica cosa che permette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue: idee senza parole” (Anni decisivi. La Germania e lo sviluppo storico mondiale, trad. di V. Beonio-Brocchieri, Bompiani, 1934, p. 8; il corsivo è nostro).

La critica che Jesi sviluppa riguardo alla natura dei valori originari delle ideologie di estrema destra parte proprio dalla posizione di Spengler, per cui questi valori e queste figure sono delle “idee senza parole”: restie a lasciarsi nominare, afferrare e rappresentare nella dimensione non-esoterica, prosaica, della parola comune; idee che esistono in una tale rarefazione simbolica che, più che la parola e la pagina scritta, si addice loro “un gesto, e possibilmente […] un gesto rituale” (Furio Jesi, Cultura di destra, Nottetempo, 2011, pos. ebook 198). 

Se l’operazione critica di Jesi è volta allo smascheramento del vuoto su cui questi valori poggiano, l’operazione letteraria di Bolaño consiste invece nell’affondare in quel vuoto: nessuno, meglio dei poeti, è in grado di abitare e nominare la rarefazione simbolica – lo spazio vuoto – delle idee senza parole. 

 

 

Così, nell’opera dello scrittore cileno, il fatto che Ramírez Hoffman/Wieder incarni, rappresenti e realizzi i valori dell’ideologia nazista è intimamente legato al suo essere poeta; lo stesso alter ego e narratore della vicenda, Arturo Belano, partecipa all’investigazione di Romero, poliziotto cileno incaricato di farla finita con Ramírez Hoffman/Wieder, in quanto poeta. Il simile conosce il suo simile: analogamente, ne La lettera trafugata di E.A. Poe, il cavaliere Auguste Dupin riesce dove la polizia ha fallito poiché condivide con il criminale un tratto essenziale: entrambi sono rei “di filastrocche e cantilene” (E. A. Poe, “La lettera trafugata”, in I racconti: 1831-1849, Einaudi, 2009, trad. Giorgio Manganelli, pos. ebook 9189) – entrambi sono poeti.

In Poe l’intimità tra poesia e crimine deriva dalla “capacità di colui che ragiona di identificare il proprio intelletto con quello del suo avversario” (“La lettera trafugata”, pos. ebook 9269): il poeta è un ragionatore. In Bolaño, al contrario, dal Manifesto infrarealista fino a 2666, il poeta va dritto verso il fallimento perché lo persegue, si nutre esclusivamente di contraddizioni, è un fanatico della poesia come gesto, come gesto vano:

 

“I nostri parenti più prossimi: i franchi tiratori, gli abitanti solitari delle pianure che devastano i caffè cinesi dell’America Latina, i macellai nei supermercati con i loro tremendi dilemmi individuo-collettività; l’impotenza dell’azione e la ricerca (a livelli individuali o impantanati in contraddizioni estetiche) dell’azione poetica” (Manifesto Infrarealista).

 

In entrambi i casi, il poeta e il criminale, il poeta e il nazista, parlano la stessa lingua. Se in Poe questa lingua è la dimensione astratta della logica, in Bolaño si tratta di uno spazio vuoto, un buco in cui il poeta sceglie di affondare, kamikaze o speleologo suicida. 

 

Così, la parola poetica – e poi, per estensione, la letteratura stessa – diventa veicolo di un’ambiguità irriducibile: essa nomina, promette e annuncia ogni abominio (le torture e gli omicidi della giunta militare in Cile nell’episodio di Ramírez Hoffman in La letteratura nazista in America, in Stella distante e in Notturno cileno; l’occupazione da parte dell’esercito dell’Università nazionale autonoma del Messico in Amuleto; lo sterminio di donne in 2666) e allo stesso tempo è lo scudo, l’amuleto contro di esso. 

 

In Notturno cileno, padre Sebastián Urrutia Lacroix, noto nell’ambiente letterario cileno con il nom de plume H. Ibacache, è critico letterario e “reo di filastrocche e cantilene”, poeta; è anche sostenitore entusiasta del cambio di rotta del paese in seguito al colpo di stato di Pinochet, a cui impartisce lezioni private intorno al marxismo – poiché è capace, come il ragionatore di Poe, “di identificare il proprio intelletto con quello del suo avversario”. È un uomo in pace con se stesso, con le proprie scelte e la propria condotta, fin quando un giovane invecchiato non gli insinua la colpa nei pensieri “con le infamie che ha sparso in giro a [suo] discredito in una notte fulminea” (Notturno cileno, Adelphi, 2016, p. 11, traduzione di Ilide Carmignani). Una notte, ospite del salotto di María Canales – uno dei pochi a Santiago de Chile in cui si possa discutere di letteratura dopo il golpe –, incrocia lo sguardo di un bambino, il figlio di María Canales, Sebastián. Mentre la tata porta il bimbo di sopra per metterlo a letto, il piccolo Sebastián lo guarda e padre Urrutia Lacroix ha “l’impressione che quei grandi occhi vedessero cose che non volevano vedere” (p. 106). Poi la voce comincia a girare, e infine l’arresto, negli Stati Uniti, del marito della Canales conferma l’assunto: nelle cantine della Canales, mentre di sopra si discute di letteratura, il marito della donna, agente della polizia segreta cilena, tortura e uccide gli avversari del regime. La colpa si insinua nella testa di padre Urrutia Lacroix d’improvviso, come in un sogno o in un incubo: “sono io il giovane invecchiato? È questo il vero, il grande terrore, essere io il giovane invecchiato che grida senza che nessuno lo ascolti? E se il povero giovane invecchiato fossi io?” (p. 123).

Analogamente, in Amuleto, la madre di tutti i poeti messicani Auxilio Lacouture, rinchiusa in bagno mentre l’esercito occupa l’Università nazionale autonoma del Messico, immagina – sogna o vede – “una folla di giovani, un’infinita legione di giovani che si dirigeva da qualche parte […]. Camminavano verso l’abisso. […] Ombra o massa di bambini, camminavano inesorabilmente verso l’abisso. […] Stavano cantando. I bambini, i giovani, cantavano e si dirigevano verso l’abisso. […] Una canzone appena percettibile, un canto di guerra e di amore. […] E quel canto è il nostro amuleto” (Amuleto, Adelphi, 2010, pp. 138-141, trad. Ilide Carmignani).

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