Ripensare l’ospitalità / Lo straniero che viene
Tracciando la genesi del potere statale nel suo Trattato politico, Spinoza indica come sua prima fonte la forza dirompente della moltitudine dei cittadini che, intercettata dai regnanti o dalle istituzioni, è cristallizzata nelle loro figure. Ma l’intercettazione non si risolve in una conquista definitiva e il potere della moltitudine è sempre un potere in prestito. È quindi compito dei regnanti o delle istituzioni il mantenimento dell’imperium giorno dopo giorno, senza alcuna certezza assoluta, cercando di sovrastare gli affetti centrifughi dei sudditi. E cosa succede quando il potere dei regnanti non s’impone più? Succede che l’istituzione collassa. Come ci ha indicato un filosofo spinoziano, Frédéric Lordon, un esempio di collasso lo si trova nel film La Corazzata Potëmkin di Sergej Ejzenštejn: l’ammutinamento dell’equipaggio, indignato per aver ricevuto del pane pieno di vermi come rancio, rompe i rapporti di forza sovrano-moltitudine, rendendo così visibile la morte di un’istituzione. L’indignazione, scrive Spinoza, è la forza che per eccellenza dissolve la sovranità. Il suo motto è: tutto piuttosto che questo!
Nel suo Lo straniero che viene. Ripensare l’ospitalità l’antropologo francese Michel Agier si propone di analizzare come alcuni gruppi di cittadini abbiano risposto alla domanda di accoglienza delle persone migranti in Europa, nel ventunesimo secolo. Il testo è stato recentemente tradotto da Raffaello Cortina Editore ed è stato già commentato su questo sito da Pietro Barbetta.
Per affrontare la presenza di migliaia di persone arrivate negli ultimi anni per vie irregolari, lungo le rotte del Mediterraneo e quella dei Balcani, esistono, oltre all’iter statale, altre pratiche di accoglienza. Si tratta di pratiche di volontariato assunte come «engagement» ossia come impegno personale. Queste pratiche, non dettate dallo Stato, sono sorte proprio in parallelo all’accoglienza delle strutture ufficiali. Sono spesso motivate proprio dalla «vergogna» e dall’«indignazione» verso tale accoglienza ufficiale degli Stati, avvertita come inumana nei confronti in primis dei migranti e dei profughi, ma anche della nostra stessa democrazia e della civiltà dei diritti. Si è trattato di chiedersi come rispondere alla cosiddetta emergenza migratoria. La risposta è stata una serie di azioni immediate: l’offerta di un letto su cui passare la notte; la distribuzione di cibo e vestiti; l’assistenza medica e di ogni genere per chi è costretto a vivere in strada, ecc. Ecco cos’è l’ospitalità privata dei singoli cittadini. Essa rappresenta un gesto quasi sovversivo in cui aprire la porta di casa diventa una sorta di opposizione tanto alle ristrettezze dell’accoglienza statale, quanto alla xenofobia del populismo europeo.
Questi gesti – ci avvisa Agier – non sono completamente assimilabili all’ospitalità come rituale che «gioca per la tradizione antropologica un ruolo essenziale nella comprensione dello scambio sociale». Non possiedono, infatti, quelle funzioni sociali che lo stesso antropologo francese ha potuto riscontrare durante le sue ricerche in Africa occidentale – presso i migranti e i commercianti haoussas – o anche presso le tribù Inuit o i contesti rurali del Brasile. Qui l’ospitalità svolge la funzione di accrescimento sociale: accogliere lo straniero a casa propria, adottarlo, significa trovargli uno spazio nella comunità e, così facendo, creare all’interno di essa «i canali o il tessuto sociale di un’apertura – attraverso l’accoglienza e lo spazio dato ai circolanti (bambini, migranti) – che si prolunga (…) in maniera reticolare verso il limite e all’esterno della società». In altre parole, da una parte l’ospitalità è uno dei tanti fili che collegano gli uomini, una relazione che non può mai formarsi incondizionatamente – c’è bisogno, ad esempio, di una stanza libera per accogliere qualcuno – e che permette di riconoscere l’altro in maniera concreta, quando bussa alla porta di casa. Dall’altra essa accresce, con l’accoglienza di individui stranieri, la società. In cosa si discostano, allora, le pratiche attuali di quest’altra ospitalità europea che dipende dall’iniziativa dei singoli?
Cédric Herrou, contadino della Val Roia, tra Liguria e Provenza, è indagato dalla magistratura del suo paese per aver aiutato illegalmente dei clandestini a penetrare in territorio francese. Condannato nel 2017, è stato assolto nel 2018 dal consiglio costituzionale in nome di quel « principio di fraternità» secondo il quale «un aiuto disinteressato ai migranti, che sia individuale o organizzato, non deve essere perseguito». Sentenza ribaltata all’inizio di marzo 2020, quando Herrou è stato richiamato in appello e l’accusa ha chiesto una detenzione da otto a dieci mesi, con la condizionale. La motivazione si basa sul fatto che l’imputato ha fatto «la scelta di essere al di là della legge», non avendo un obiettivo solo «umanitario», ma «ideologico». Questa storia è uno degli esempi citati da Agier per inquadrare le pratiche di ospitalità odierna come una «declinazione della solidarietà». Oggi non preme ospitare lo straniero per ricalcare, coscientemente o meno, una tradizione, ma per dare un seguito all’indignazione provocata dalle politiche statali. Infatti, soprattutto a partire dal 2015, la maggior parte dei governi nazionali «hanno voluto mostrarsi protettori dei loro cittadini e hanno designato i migranti come una minaccia». La politica migratoria europea si è risolta in un elenco di decisioni – i muri, le espulsioni, i controlli di massa, la presenza dissuasiva della polizia –, conseguenze di quell’atteggiamento che vede la nazione come una casa privata. Ciò comporta che il proprietario accoglie chi vorrà lui e «aprirà la porta o costruirà dei muri secondo la sua sola decisione autoreferenziale, il suo buon senso».
La solidarietà di alcuni cittadini cerca allora di discostarsi da questa posizione e si articola come l’esigenza di decidere autonomamente sulla modalità d’accoglienza dello straniero. Un’esigenza che si traduce in un gesto immediato perché la stessa domanda − l’essere accolti e ascoltati − chiede una risposta immediata e concreta, anche se provvisoria e insufficiente: l’antropologo ci ricorda che l’ospitalità privata non è esente da condizioni, come abbiamo già detto, e si avvicina pericolosamente proprio a quella condizione proprietaria che lo Stato assume per sé: anche il cittadino, di fronte al migrante, decide se accoglierlo in base alla sua buona volontà. Agier intravede delle possibili evoluzioni di quest’accoglienza, come le città rifugio, ma tiene a sottolineare la forza dirompente di questo fenomeno, fino a definirlo un vero e proprio «movimento sociale».
Questo sintagma richiama nuovamente alla mente Spinoza. L’ospitalità come risposta indignata non rimane ferma su se stessa nel rancore, ma si sostituisce a chi considera lo spazio politico come proprietà dei soli “aventi diritto” − evitando le conseguenze di espulsione, reclusione, naturalizzazione dello straniero − e s’impone come sintomo della riappropriazione di un’attività politica, spesso considerata irraggiungibile nelle mani della categoria dei politici.
Come se quei gruppi di cittadini di varie parti d’Europa avessero inconsciamente fatto proprie le parole di Spinoza, quando questi afferma che pensare in termini di Speranza contempla già da sempre il timore del fallimento della nostra capacità di azione singola e condivisa: «Quanto più, dunque, ci sforziamo di vivere sotto la guida della ragione, tanto più ci sforziamo di dipendere meno dalla Speranza e liberarci dalla Paura, e di comandare, per quanto possiamo, e di dirigere le nostre azioni secondo il consiglio certo della ragione».