Il fallimento di un modello / Italia: il paese insoddisfatto

23 Giugno 2016

Nel 2004 fui invitato a un congresso sull’Italia a Monaco di Baviera, che aveva per titolo, in italiano, “Va bene”. Quando intervenni, dissi che quel titolo non andava affatto bene, perché le cose in Italia andavano invece abbastanza male. E portai vari dati sul declino dell’Italia, che era cominciato da più di un decennio. Il titolo del congresso rivela comunque un cliché diffuso in molti paesi: che in Italia, malgrado tutto, si mangia bene, le donne sono eleganti, ci si gode le città d’arte, insomma, l’Italia è un paese felice. 

In realtà l’Italia è fra i paesi con la popolazione più insoddisfatta. Gli indicatori sociali OCDE su 30 paesi nel 2009 mostrano che l’Italia è il paese con la minor soddisfazione soggettiva di vita, esclusa la Turchia. Dato che non stupisce, perché gli italiani si lamentano quasi di tutto, e specialmente dei politici.

Ma se la situazione non era florida nel 2004, dopo la crisi del 2008 essa è di molto peggiorata. La crisi ha colpito l’Italia più duramente di tutti gli altri paesi europei, esclusi Grecia e Cipro. I numeri annoiano, ma sono essi a dare la misura del disastro. Il PIL pro capite italiano nel 2000 era di 17 punti superiore a quello medio dell’EU, nel 2015 inferiore di quasi 4 punti. Da allora, i consumi sono calati dell’8%, gli investimenti e la produzione manifatturiera del 30%. La disoccupazione ha raggiunto il 12-13%. Le esportazioni hanno recuperato i livelli del 2007, ma tra 2007 e 2014 il commercio mondiale è cresciuto del 20%.

 

Sempre meno italiani sono benestanti. E soprattutto non lo sono i giovani, che non trovano lavoro. Anche perché ci sono tra loro meno laureati che altrove in Europa; nella fascia tra 30 e 34 anni solo il 23,9% sono laureati, contro il 37,9% della media europea (il 31,4% in Germania).

Sono d’accordo con l’immagine che dell’Italia dà Wikipedia inglese: “L’Italia ha una burocrazia di stato inefficiente […] e alti livelli di corruzione, tasse alte e una spesa pubblica che ammonta a quasi la metà del PIL nazionale. Inoltre, la spesa italiana per Ricerca&Sviluppo nel 2006 ammontava all’1,14 del PIL, al di sotto del livello EU di 1,84 […]. Il crimine organizzato in Italia raggiunge il 7% del PIL”. Aggiungiamo che l’Italia è in 44a posizione per competitività – peggio di Filippine, Lettonia, Estonia, Perù.

In Italia le tasse sono troppo alte (al 44%, quinti in Europa, contro una media UE del 40%) ma non possono essere abbassate perché il Paese deve ripagare un debito che è pari al 135% del PIL. Questo enorme debito – inferiore in percentuale nel mondo solo a quello di Giappone e Grecia – è stato accumulato essenzialmente dai governi della cosiddetta Prima Repubblica, i quali hanno comprato il consenso facendo vivere il paese al di sopra delle proprie possibilità, e indebitando le generazioni successive. 

 

Oggi la sinistra di opposizione invoca contro la crisi la classica ricetta keynesiana e rooseveltiana: che lo stato investa massicciamente in lavori di miglioramento delle infrastrutture in modo da diminuire la disoccupazione. Ottima ricetta se non ci fosse l’alto debito, che di fatto lega le mani agli investimenti pubblici. Il bilancio dello stato deve poi fare i conti con una massiccia evasione fiscale, che ammonta a 180 miliardi di euro annui.

Non riusciamo nemmeno a valorizzare abbastanza i cosiddetti “giacimenti italiani”, le bellezze del paese. Un tempo l’Italia era il paese più visitato al mondo; oggi siamo solo quinti, dopo Francia, Stati Uniti, Spagna e Cina. Questo è dovuto al fatto che l’industria turistica non si è modernizzata, resta frammentata in piccole aziende più o meno familiari.

Alle magagne economiche si aggiungono i deficit di libertà e democrazia. Secondo l’Indice della Libertà di Stampa di Reporters without Borders (nel 1° paese massima libertà di stampa, nell’ultima quasi nulla), siamo al 77° posto, la Germania è al 16°. Siamo 29simi nell’Indice di democrazia, mentre la Germania è 13a.

 

 

Il Sud d’Italia sta all’Italia come l’Italia sta all’Europa del Nord. E in effetti il Mezzogiorno è regredito molto più del Centro-Nord. Il crollo del PIL al Sud è stato del 14% rispetto all’8% del Centro-Nord. I consumi sono diminuiti al Sud del 13% rispetto al meno 6% del Centro-Nord.

Indubbiamente abbiamo una classe dirigente inferiore a quella di altri paesi. I nostri manager e imprenditori sono meno ambiziosi e hanno una capacità di gestione insufficiente. In molti casi hanno messo i remi in barca. Nelle aziende si trova il posto di lavoro ai parenti, non agli esperti.

L’istruzione è insufficiente. Come diceva Ennio Flaiano, “tutto quello che non so l’ho imparato a scuola”. L’Italia ha le migliori scuole materne (prima dei sei anni) al mondo, ma man mano che si sale di livello il sistema educativo italiano peggiora. L’Università italiana così attrae pochi stranieri (circa il 2%) contro il 3,4% della media OCSE e l’8,6% della Germania. 

 

Questo deficit di cultura, rispetto ad altri paesi europei, spiega la palma d’oro che l’Italia vince nel cosiddetto Indice di Ignoranza. L’IPSOS ha chiesto a un campione prescelto in 14 paesi (Australia, Belgio, Canada, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Spagna, Svezia, Ungheria, Stati Uniti) di valutare statisticamente certi fenomeni, come: “Qual è la percentuale di immigrati nel tuo Paese?”, “Nel tuo Paese, su 100 persone quante sono musulmane?”, “Nel tuo Paese, su 100 persone quante sono cristiane?”, “Su 100 persone in età lavorativa, quante sono disoccupate?”, “Su 100 persone di età tra i 18 e i 24 anni, quante di loro non sono impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione?”, e qualche altra simile. Si confronta poi la media delle risposte date con il dato reale, e sulla base dello scarto tra la prima e il secondo si calcola l’Indice di Ignoranza. Per dirne alcune, tra i 14 paesi considerati gli italiani sono quelli che sovrastimano di più la presenza di immigrati nel Paese: credono che il 30% della popolazione sia costituito da immigrati, mentre nella realtà sono l’8%. Gli italiani credono che una persona su due in età lavorativa sia disoccupata, mentre i disoccupati sono solo il 12%. Insomma, la massa degli italiani dilata la portata dei problemi sociali del loro Paese, drammatizza le loro cause e i loro effetti, e quindi si dispone a essere preda facile di demagoghi.

 

Anche la tanto decantata creatività italiana si rivela un mito a un’analisi più approfondita. Si prendano le richieste di nuovi brevetti: qui l’Italia non appare nemmeno tra i primi dieci paesi. Con 3979 brevetti depositati nel 2015, siamo indietro alla Gran Bretagna (5037), la Francia (10781) e la Germania (24820).

Solo in pochi aspetti l’Italia primeggia. Ad esempio, nel mondo siamo secondi solo alla Germania per produzione pro capite di energia solare.

Il risultato di tutto questo è che l’Italia, che aveva cessato di essere un paese di emigrazione verso la metà degli anni ’70 per diventare un paese di immigrazione, ha ripreso a far emigrare i propri giovani, soprattutto verso i paesi del Nord Europa. In questi paesi è più facile trovare un buon lavoro perché viene premiato il merito, mentre in Italia si trova lavoro solo se hai conoscenze e raccomandazioni.

Si tratta del fallimento non solo del paese ma di quello che chiamerei il "modello Italia": un’economia fatta di aziende relativamente piccole, “multinazionali tascabili”, e un' industria che eccelle nella dolce vita: moda, design, cibo, alcolici. E dove le industrie sono strettamente legate alla politica e alle amministrazioni per ottenere appalti e vantaggi.

 

La risposta del governo Renzi alla crisi è di puntare tutto sulla velocità. Riforme a tambur battente saltando tutti gli ostacoli parlamentari, a cominciare dall’opposizione interna al partito democratico, che odia Matteo Renzi. Riforma della lenta e inefficiente pubblica amministrazione; velocizzare quel pachiderma che è la giustizia civile e penale (in Italia ci vogliono 520 giorni per arrivare a una sentenza, solo 241 giorni in Europa); velocizzare il potere legislativo eliminando di fatto una delle due Camere del Parlamento, il Senato (fino a ora l’Italia aveva due Camere che facevano esattamente le stesse cose, che votavano esattamente le stesse leggi, ragion per cui l’iter legislativo era lungo e così le riforme si impantanavano). Flessibilizzare il lavoro rendendo per le aziende più facile licenziare, ma favorendo le nuove assunzioni. L’Italia è come un uomo del tutto ingessato, per cui può muoversi a fatica. Credo che le riforme del governo vadano, tutto sommato, nella direzione di rimuovere il gesso. Ma le riforme non bastano, occorrerebbe un cambiamento generale della mentalità su cui la politica non ha presa. Non si possono eliminare la corruzione o la sfiducia nel futuro con dei decreti legislativi. Da noi si dice “Si può portare il cavallo alla fonte, ma è il cavallo che deve bere”; le riforme degli ultimi due anni portano il cavallo alla fonte, ma che cosa farà il cavallo? Le riforme di Renzi avranno successo solo se il paese uscirà dalla crisi, il che non è affatto sicuro. Per ora l’Italia ha una crescita fragile, inferiore a quella degli altri paesi europei (Grecia esclusa).

 

 

Le ragioni del regresso di un paese sono sempre molto complesse, è impossibile determinare se qualcosa è causa o effetto. Ad esempio, potremmo dire che l’alto livello di corruzione (secondo il Corruption Perceptions Index 2014, su 175 paesi l’Italia è 69a; la Germania è 12a) e l’estensione della criminalità organizzata sono cause della crisi economica, ma potremmo dire anche che ne sono effetti. Malgrado tutto, però, c’è un fattore che emerge come preminente. È quello che chiamerei il narcisismo familistico degli italiani. Esso è stato bene illustrato da un film comico di successo, Quo vado? di Checco Zalone. Il protagonista è l’Ideal-tipo, direbbe Max Weber, dell’italiano di oggi: a 38 anni vive ancora con i genitori, viziato dalla madre, ha un impiego pubblico fisso a pochi metri da casa sua, ed è consigliato da un notabile politico locale. È l’Italia mammista, con figli iper-protetti dai genitori, che non crede nel futuro ma solo nel prolungarsi del comfort al presente. Il basso numero di divorzi (0,9 ogni 1000 abitanti, contro il 2,2 della Germania) documenta la terribile solidità della famiglia italiana. Altro segno di questo immobilismo è che il 75% delle famiglie italiane vivono in case di proprietà, rispetto a un numero di affitti relativamente basso. Le aziende restano familiari e non raggiungono le dimensioni che potrebbero renderle competitive a livello globale. Gli interessi familiari sono sempre più importanti dell’etica pubblica – quel che Edward Banfield chiamò “familismo amorale”. A questo familismo amorale si aggiunge una chiusura nazionalista che porta a un atteggiamento anti-europeo. Solo il 33% degli italiani hanno fiducia nell’Europa, ancor meno dei britannici, e certo meno dei tedeschi (53%). Si parla tanto di Brexit, ma nessuno paventa l’Italexit.

 

Da notare che il nazionalismo italiano non è di tipo megalomane, del tipo “Siamo i più bravi, i più forti”, ma di tipo appunto narcisistico: si ammirano i prodotti italiani non perché siano i migliori, ma perché sono “i nostri”. Si ammira se stessi non per le proprie qualità, ma perché si è se stessi.

Nelle democrazie l’uomo e la donna comuni si lamentano sempre di qualcosa, e danno ai politici la colpa di tutto quello che li infastidisce. Da noi si dice: “Piove. Governo ladro!”. Le democrazie mature sono lagnose, rivendicative, prevale la delusione. La mia impressione è che l’Italia sia una democrazia molto matura perché qui la gente si lagna più che altrove, e il prestigio dei politici che gli italiani hanno votato è ai livelli più bassi dell’Occidente.

Molto spesso la magistratura scopre casi di corruzione tra politici, manager, ecc. Ma sarebbe un errore considerare la corruzione una specialità di chi ha potere; in Italia prospera la piccola corruzione quotidiana. Si sale sui mezzi pubblici senza pagare il biglietto, si ricorre a ogni mezzuccio per evadere le tasse (nei ristoranti e nei bar spesso non ti fanno lo scontrino per non registrare l’incasso), si finge di essere invalidi per usufruire di una pensione di invalidità, ci si fa timbrare il cartellino da colleghi per non andare in ufficio, ecc. Questa penuria di civismo, questo stillicidio degli abusi, producono un effetto sistemico di inefficienza e spreco.

 

Un famoso cantautore, Giorgio Gaber, diceva: “Non temo Berlusconi in sé, temo il Berlusconi che è in me”. Il punto è che in tantissimi italiani – anche di sinistra – c’è un piccolo Berlusconi: tendenza all’evasione fiscale e all’illegalità, gigionismo, far prevalere l’interesse privato sul bene pubblico. 

Ora, tutto questo stride con l’immagine che l’Italia aveva dato di sé negli anni ‘60 e ‘70: il paese con il più intenso impegno politico in Occidente, dove il ‘68 era durato non pochi mesi come altrove, ma dodici anni fino al terrorismo sanguinario, con movimenti sociali radicali, femminismo vivacissimo, ecc. Come è possibile che in pochi decenni l’Italia sia divenuta il contrario di se stessa? La Grande Illusione del super-impegno politico italiano degli anni ‘60 e ‘70 fu in realtà l’altra faccia, reattiva, eccessiva, di un’Italia profonda – conservatrice e provinciale – che alla fine avrebbe prevalso una volta diradate le speranze millenariste della Rivoluzione. L’estremismo politico italiano era la fuga in avanti, impotente, di un paese nel fondo anti-moderno. Di un paese che non vuole cambiare.

D’altra parte, mi chiedo se questo amoralismo degli italiani non sia proprio ciò che li rende simpatici agli stranieri; molti dicono che in Italia si divertono più che altrove. Perché gli italiani sono imprevedibili, sempre ai limiti della correttezza. Ciò che piace degli italiani, temo, è effetto proprio dei loro vizi.

 

Questo testo è già stato pubblicato sulla rivista Lettre Internationale di Berlino.

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