Adriano Favole / Vie di fuga

22 Settembre 2018

Nel cuore dei miti cosmogonici degli aborigeni australiani c’è il sogno. In principio era il Dreamtime, il Tempo del Sogno, poi venne il tempo del racconto. Gli antenati totemici di queste popolazioni iniziarono a cantare il mondo attraversandolo, tracciando con il canto la morfologia delle terre. Cantarono i deserti, gli oceani, i fiumi, le catene montuose, «andarono a caccia, mangiarono, fecero l’amore, danzarono, uccisero – racconta Bruce Chatwin in Le vie dei canti – e in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica. Avvolsero il mondo intero in una rete di canto». Quelle ancestrali guide vagabonde erano stati poeti, dice Chatwin, nel senso etimologico della parola, poiésis, ovvero creazione.

Molti dei loro successori nel corso dei secoli hanno abbracciato la filosofia del walkabout, un vagabondaggio rituale per ripercorrere le rotte di quei canti creativi e tenere in vita la terra e la sua storia, perché «una terra non cantata è una terra morta».

Il nomadismo fertile e demiurgico degli aborigeni australiani si trova nel quarto degli otto passi che Adriano Favole raccoglie in Vie di fuga (Utet, 2018) una guida per uscire dalla propria cultura, ma soprattutto per trovare una ragione di questa urgenza di evadere e valicarne i confini.

Il viaggio, la migrazione dell’uomo lungo le rotte della sua immaginazione, della sua insoddisfazione e della sua curiosità, ha realmente inciso la fisionomia del mondo e si configura come primo sintomo della necessità dell’essere umano di uscire dalla gabbia della propria cultura, del suo atavico bisogno d’altrove che ancora ci pulsa nella testa e ci morde le gambe.

 

Non tutte le migrazioni, però, sono avvolte dalla poesia del sogno. Nello stesso capitolo, infatti, Favole racconta dei Tāvaka di Futuna, un paradiso naturale della Polinesia occidentale. Qui, nonostante la meraviglia del paesaggio e una struttura sociale fortemente inclusiva basata sulla cultura del dono e della condivisione – o forse anche in ragione di questo – si è sempre cercato di fuggire (“E mamafa le agaifenua!” dicono i locali, “La nostra cultura è pesante”, come i cesti pieni di tuberi da portare sulle spalle, come un’offesa).

Già nell’Ottocento le cronache riportavano le tragiche storie dei Tāvaka, ragazzi anche giovanissimi che si lanciavano su imbarcazioni di fortuna (vaka) verso un altrove che spesso coincideva con la morte. Oppure cercavano disperatamente di imbarcarsi come clandestini sulle navi di passaggio, nascondendosi nelle stive e augurandosi di sopravvivere al loro desiderio di fuga.

«Tāvaka, in polinesiano, non è solo il viaggio, quanto piuttosto il desiderio di lasciare l’isola, di esplorare nuovi orizzonti, anche a prezzo della morte» precisa Favole, e da questa “cronica malattia pestilenziale”, come veniva descritta dai missionari europei dell’epoca, l’umanità non è mai guarita. Anche le migrazioni di oggi, benché affondino le radici primariamente in guerra, violenza e miseria, contengono qualcosa di quella peculiarità tipicamente umana che nel viaggio trova la dimensione del nostro esistere nel mondo.

«Abbiamo piedi e non radici» ricorda l’autore, e mentre nel mondo, lontano e vicino a noi, si parla di alzare muri, di irrigidire i confini, di chiudere porte, porti e culture, Favole ragiona sul nostro essere irrimediabilmente aperti, liminari, in fuga, si interroga sul perché nessuna cultura riesca mai a chiudersi veramente, a bastare a se stessa e si chiede perché, nonostante tutto, le culture continuino da sempre a dialogare, a cercare di estendere i propri confini, a ibridarsi e ad aprire vie di fuga.

 

«Cresciamo inevitabilmente in platoniche caverne che nascondono l’orizzonte: siamo tuttavia fatalmente attratti dagli altrove» e la cultura è una caverna piena di fessure da cui filtra la luce. Cresciamo dentro la nostra cultura come in una conchiglia: come i piccoli invertebrati di fiume che si costruiscono il guscio con le briciole del minuscolo spazio che abitano, ci costruiamo una corazza che ci accompagna e che percepiamo come incompleta, provvisoria, arbitraria. Siamo così, ma potremmo essere altro, la nostra corazza non è liscia e compatta bensì screziata, cangiante, la nostra caverna è “un dedalo di cunicoli comunicanti”. Ma se la cultura è un artificio che si innesta sul sostrato biologico dell’essere umano, esiste in noi un’innata tensione alla ricerca di vie d’uscita. 

L’incontro con una diversa cultura apre ventagli di possibilità e ci mette davanti a noi stessi, alla nostra «ridicola posizione tra microbi e stelle» (P.L. Berger, Homo ridens. La dimensione comica dell’esperienza umana, il Mulino. Bologna 1999), al nostro essere «forme di sogni, un impasto opaco senza disegno» a cui Prometeo ha regalato conoscenza, inquietudine e occhi strabici, un po’ rivolti al passato, un po’ al futuro. 

 

 

Dobbiamo uscire dalla nostra cultura per riconoscerci e per metterci in discussione, perché la conoscenza di sé passa necessariamente attraverso l’altro. E il viaggio è solo una, la più esplicita e immediata, delle vie di fuga praticabili; il libro di Favole ne raccoglie molte altre, come indizi e suggerimenti per rintracciare il movente (e la giustificazione) del nostro bisogno di fuggire.

Altre vie di fuga avvengono tramite l’immaginazione, come il rito, il sogno, la menzogna, il teatro, la danza, la poesia, il cinema, il romanzo e tutti i modi di uscire da sé, rappresentarsi, guardarsi da fuori, fingersi diversi e rintracciare nello scarto che si crea possibilità inesplorate, soluzioni alternative.

Altri esempi perfetti sono il gioco e la comicità, il potere di ribaltare la realtà quotidiana, di stravolgerla per aprire una crepa e poi tirarne i bordi. Il gioco, la satira, il riso, le favole sono “vie di fuga e di ritorno”, creano demistificazione, rompono le catene del sacro: «La società è nuda nel breve spazio della risata. La voragine burlesca ricrea il vuoto, apre spazi divertiti sul carattere vacuo della natura umana, chiamata a ricostruire incessantemente se stessa».

 

Lo spaesamento di Ionesco, lo straniamento brechtiano, anche i miti, contenitori di “grumi di pensiero” e “cellule staminali della realtà sociale”, mettono a nudo le incongruenze della nostra vita, il fatto che siamo così ma potremmo essere diversi. Si tratta di forti smottamenti, capaci di aprire faglie nella realtà ordinaria, suggerire nuove traiettorie e mondi alternativi e per questo, spesso, sono avvertiti come pericolosi dalle forme di potere, vie di fuga come minaccia al loro istinto di conservazione.

Se l’uomo è condannato a ricostruire se stesso continuamente tramite la cultura, le forme di potere economico-politiche nei casi peggiori tentano di manipolare e di ostacolare il processo di “antropo-póiesi” (F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma-Bari 2013), la costruzione culturale dell’uomo.

L’imposizione di simboli, miti, linguaggi, la manipolazione dell’informazione, l’appropriazione culturale, la ricerca di uniformità, e poi la chiusura dei confini, l’apologia dell’identità (che non è cultura, ma la sua “cintura di castità”) sono solo alcuni dei passi fondamentali del processo di colonizzazione della cultura. Basti pensare alle dittature del Novecento, alla propaganda nazi-fascista, agli enormi tentativi di monopolizzare la fabbricazione dell’essere umano che hanno portato alla Shoah e prima ancora all’olocausto dei nativi americani e che si sono ripetuti in tutti i casi di negazione culturale in America, Africa, Asia, Oceania…

 

Le vie di fuga ci proiettano verso l’altro e guardando l’altro vediamo noi stessi, ciò che siamo e ciò che potremmo essere, come potremmo cambiare: «solo estendendo significati, modi e stili di vita che ci sono familiari in direzioni altrui ci rendiamo conto del loro carattere arbitrario», più lo strano diventa familiare (più ci avviciniamo all’altro, ci sforziamo di guardare attraverso i suoi occhi), più il familiare sembra strano, discutibile, forse anche sbagliato. Per questo le vie di fuga non vanno d’accordo con i totalitarismi.

Ma nessuna cultura è mai riuscita a chiudersi definitivamente e completamente: «siamo esseri meta-culturali, non semplicemente prodotti e produttori di cultura. È la capacità di uscirne che ci definisce. È la capacità di progettare, di guardare al futuro, di immaginare altri mondi. Fugge da sempre Homo Sapiens, [...] l’inquietudine meta-culturale anima il passo e l’immaginazione».

E nel fuggire ci muoviamo gravati dalla nostra cultura, imbrigliati nella nostra ragnatela di simboli. «Le culture sono alquanto vischiose» e non esiste un terreno culturalmente neutro su cui intavolare un dialogo; ogni incontro comporta la fatica di uscire dalla propria cultura per entrare nell’altra, consapevoli delle lenti culturali che colorano il nostro sguardo, degli inevitabili vizi di interpretazione, della distanza da colmare e della possibilità di scoprirsi, nell’incontro con l’altro, un po’ meno saldi e un po’ più fragili.

La proposta di Favole è testare questa capacità di attraversamento culturale, mettere alla prova le proprie parole, i propri linguaggi, le categorie e i sistemi simbolici in cui siamo invischiati per incontrare l’altro in un dialogo che rispetti l’etimologia della parola stessa, che sia un attraversare (dia) i confini, anziché chiuderli. Il movente di questi otto passi per uscire dalla propria cultura viene dalla nostra atavica predisposizione ad andare altrove, ma la ragione per impegnarsi a farlo appare oggi più urgente che mai, in un tempo di assurde chiusure che non tengono conto di quanto i confini culturali siano porosi e labili e di come soltanto nell’attraversamento e nella contaminazione possa generarsi cultura nuova e, rigenerandosi, sopravvivere.

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