Francesco Arcangeli, ritratto di un inquieto

29 Dicembre 2024

Solo all’età di 52 anni Francesco Arcangeli, che era nato nel 1915, divenne docente di ruolo di Storia dell’arte medievale e moderna all’Università di Bologna. Alla vigilia del ’68, il suo ingresso nell’aula dove era stato studente e poi assistente di Roberto Longhi produsse un’esplosione di interesse pari a quella che il suo maestro aveva provocato nel 1934 con la prolusione sull’arte bolognese – da Vitale da Bologna a Giorgio Morandi – che incantò Pier Paolo Pasolini, Giorgio Bassani e Attilio Bertolucci. La linea che Arcangeli avrebbe tracciato per i suoi studenti partiva da Wiligelmo, attraversava il romanticismo europeo (Turner, Constable, Friedrich) e approdava alla pittura emiliana del suo tempo, per la quale sulla rivista «Paragone» nel 1954 aveva coniato la definizione di “ultimi naturalisti” che gli costò qualche incomprensione con Longhi. Morlotti, Moreni, Bendini, Pulga, Romiti e Vacchi stavano per lui accanto a Burri, all’informale europeo e statunitense (un percorso disegnato in Dal romanticismo all’informale, due volumi Einaudi del 1977, e nelle dispense universitarie pubblicate da Il Mulino nel 2005). Il modo di insegnare e le idee sulle quali fondava la sua lettura divergevano in parte da quelle del suo maestro aprendosi alla filosofia di Husserl, Heidegger, Sartre e Camus, e attraversando anche i dilatati confini della fisica e dell’astronomia contemporanei. Arcangeli era tutto, però, fuorché un teorico. Le sue analisi nascevano da un corpo a corpo con le opere antiche e moderne e da un’empatia potente verso quegli artisti che avvertiva quasi fratelli nel leggere il mondo che lo circondava.

jj

Tra il 1967 e il 1974 (anno della morte) sui banchi dell’università ad ascoltare Arcangeli ci fu una nuova generazione di storici e critici dell’arte, – Francesca Alinovi, Flavio Caroli, Pier Giovanni Castagnoli, Massimo Ferretti, Francesca Valli, Vera Fortunati, Adalgisa Lugli (alcuni insegnavano già quando approdai alla facoltà di lettere di Bologna nel 1976) – i quali, come era stato per gli allievi di Longhi, non si sono mossi come puri imitatori del maestro, ma ne hanno interpretato in direzioni diverse gli indirizzi di ricerca, restando tuttavia fedelissimi alla memoria di quell’incontro eccezionale. Tutti ricordano che il vento della contestazione del ’68, per un tacito e condiviso rispetto verso la persona, non entrò mai a fare subbuglio nell’aula dove Arcangeli disegnava un vero e proprio terremoto nella concezione della storia dell’arte.

Arcangeli si era laureato nel 1937 con una tesi sul pittore bolognese Jacopo di Paolo (pubblicata da Fabio Massaccesi nel 2011 presso Silvana Editoriale); negli anni dell’università aveva iniziato a scrivere prose liriche e versi (la letteratura fu una passione che lo coinvolse per tutta la vita), presentazioni e recensioni ad artisti emiliani contemporanei; nel 1942 pubblicò il primo importante saggio d’arte antica, Tarsie, per una collana diretta da Emilio Cecchi (riproposto a cura di Massimo Ferretti per le Edizioni della Normale di Pisa nel 2014); nominato ispettore presso la Soprintendenza alle Gallerie di Bologna nel 1943, durante la guerra con coraggiosa determinazione si dedicò a salvare il patrimonio della Romagna e di Bologna; dal 1940 al 1958, con lunghe interruzioni, fu anche insegnante al liceo; nel frattempo affrontava con vigore inedito la sua critica militante tra gallerie e studi d’artista (testi raccolti nel 1994 da Dario Trento, Arte e vita: pagine di galleria, 1941-1973). Dal 1958, prima di approdare all’insegnamento universitario, diresse le raccolte comunali d’arte moderna di Bologna. Il suo ricchissimo e prezioso archivio, con quelli dei fratelli Gaetano e Nino e della sorella Bianca, è ora conservato presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Carteggi, manoscritti e dattiloscritti restituiscono l’intreccio ampio delle sue relazioni e l’attualità del suo lavoro che oggi appare efficacemente alternativa alla figura del critico/curator “dominus” delle attuali cronache dell’arte.

 

Nel 1970, un anno prima della nascita del DAMS a Bologna, Arcangeli aveva infatti concepito la mostra Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana, sintesi di un impegno che da tre decenni univa in lui lo storico al critico d’arte: partendo da Wiligelmo, attraverso Vitale, Aspertini, Ludovico Carracci, Giuseppe Maria Crespi fino a Morandi, egli dava centralità alla sua terra e usciva dai tragitti più comodi della storiografia artistica per costruire il filo dei “tramandi” dal medioevo al suo tempo. Il “tramando”, termine coniato da lui e ancora oggi in parte assente nei vocabolari, indicava per Arcangeli la forma carsica dei tracciati vitali sottesi all’agire dell’arte. Come chiarisce a più riprese, è «un modo alternativo al modo dialettico», un elemento che anima il «destino» degli artisti nel tempo tenendoli in legame con il passato, il presente e il futuro: «Ma il tramando – dice in occasione del conferimento del premio Feltrinelli nel 1969 – accade oggi nelle … condizioni innovative… dunque …tramando per trasmissione, ma ad un tempo anche per trasformazione. I significati dell’opera si fanno “inesausti” entro la vita della storia, che, per la mia generazione, non e mai stata la storia con la S maiuscola dello storicismo; ma umana, travagliata coscienza del tempo che passa. L’opera è inesausta nei significati anche perché è inesausto il travaglio che è dentro di noi».

j

Giorgio Morandi, che a lungo fu l’epicentro degli interessi di Arcangeli, gli chiese di scrivere una sua monografia, poi respinta con aspra determinazione. La vicenda è testimoniata in un carteggio a tratti disperato e orgoglioso (pubblicato da Luca Cesari nel 2007 in appendice a Giorgio Morandi. Stesura originaria inedita). Attorno a Morandi, in modo davvero stupefacente, Arcangeli disegnò una galassia di riferimenti artistici e culturali – italiani, europei e statunitensi – che non furono accolti con benevolenza dall’appartato pittore bolognese, forse ormai assuefatto a un’idea di critica di stampo crociano e più tradizionale (Brandi, Argan), o forse ormai troppo anziano per comprendere l’orizzonte ampio e i sommovimenti tellurici che il critico disegnava attorno alle sue opere definendo prospettive in continuo mutamento. Il saggio, perciò, uscì nel 1964 presso le edizioni del Milione (poi Einaudi 1981) senza la benedizione del committente, ma resta a tutt’oggi il libro più emozionante scritto sul pittore bolognese che, come un bizantino del Novecento, concentrava ritualmente il suo lavoro sul colore e la luce (quasi) di sole bottiglie impolverate: «… presumiamo di lasciarci chiamare anche, da chi vuole, “morandiani”; e magari lo fossimo, magari avessimo, dentro, la forza uguale e non clamorosa, nascosta ed esemplare, di quest’uomo privatissimo ma intemerato, capace di durare, di resistere alle tentazioni, a un segno che ci pare, in Italia, eccezionale. In questo senso gli amici che più sento vicini sono, sostanzialmente, “morandiani”», aveva scritto Arcangeli su «Paragone» nel settembre del 1956.

j

Le fotografie di Arcangeli che si trovano in rete restituiscono negli anni l’immagine di un intellettuale borghese sorridente, in giacca e cravatta, una vaga allure da attore americano (oltre alla storia dell’arte, il cinema era una passione che lo aveva legato a Longhi). Queste immagini solo in parte corrispondono al tormentato percorso dell’uomo che nel suo lavoro univa rigore morale e inquietudine esistenziale e che, forse anche per questo, fu a lungo tenuto lontano dall’accademia.

A ridosso dei cinquant’anni trascorsi dalla sua morte sono stati ripubblicati in due volumi da La nave di Teseo molti suoi scritti (altrimenti oggi difficilmente recuperabili in pubblicazioni sparse), devotamente raccolti nel tempo da Piero del Giudice che fu allievo di Arcangeli al liceo classico di Parma (Saggi per un’altra storia dell’arte, 2022 e 2023, con introduzione di Vittorio Sgarbi, anche lui sui banchi bolognesi ad ascoltare Arcangeli); e, in questo stesso anno, dall’editore Pendragon una raccolta di versi (Poesie per Gabriella. Stella sola e altri versi, a cura di Marco A. Bazzocchi) e una selezione delle lettere scritte nella lunga vicenda sentimentale che lo legò a Gabriella Festi (Come un ricordo remoto d’amore. Lettere 1943-1969, a cura di Maria Malatesta e Davide Festi). I saggi e le lettere sono scritti di natura diversa, ma uniti nella qualità sempre alta e spiazzante della scrittura. Leggerli perciò richiede una dislocazione su registri dissimili.

k

 

 

La lettura dell’ampia e utile antologia di scritti raccolti da Del Giudice vuole almeno l’avvertenza che la sequenza dei brani, seguendo la cronologia degli artisti come se fossero monografie per ritrovarvi a posteriori “un’altra storia dell’arte” (come recita il titolo scelto per la pubblicazione), non risponde ai tempi della loro stesura e al carattere molto diverso della destinazione di ciascuno. Va tenuto presente che Arcangeli ne ha costruito l’ordito nel corso degli anni affrontandoli all’incrocio di fatti diversi e talvolta lontanissimi nel tempo e nello spazio, seguendo richiami che non di rado colgono alla sprovvista il lettore condotto tra antico e moderno senza soluzione di continuità: “espressione”, “sentimento” e “corpo” sono di fatto i nodi da cui si diparte l’avvincente filo conduttore dell’arte.

j
Francesco Arcangeli durante una lezione al-Liceo Minghetti di Bologna nell'anno-scolastico1942-1943.

Le lettere a Gabriella Festi sono invece risucchiate nel vortice di una passione non corrisposta, e perciò inevitabilmente dense di toni oscuri. Ma anche qui sono molti i riferimenti all’arte e agli artisti, a letteratura, filosofia e politica. Essi convivono, insieme a momenti più intimamente sereni, con un atteggiamento anche contraddittorio nei confronti della modernità che Arcangeli non nascondeva (detestava la televisione di Vianello e Tognazzi con cui invece Gabriella trascorreva piacevolmente le serate, ma amava La dolce vita di Fellini). Quando descrive il paesaggio che va dall’Appennino emiliano alla pianura fino alle spiagge popolari attorno a Rimini (dove andava tutte le estati con la famiglia) che rispondevano pienamente al suo desiderio di vita quieta, modesta, silenziosa in spazi abitati da figure di un “piccolo mondo antico”, Arcangeli sembra quasi contraddire l’intuizione viscerale che lo portò a scoprire negli anni Cinquanta la potenza di Pollock: «Quando io feci il primo volo in aereo, le nubi azzurre e nere sulla Manica, erano proprio un Turner più immenso; e il riflesso d’argento dei grovigli di Pollock, e l’azzurro celeste che c’è dietro, è come un presentimento di altri cieli e di altri spazi», lettera del 24 agosto ’61. Ma a Bellaria «il porto è … delizioso…La spiaggia della pensione è in mezzo a dunette, coperte di pioppo basso … che sotto questo sole splendente danno un bellissimo colore d’argento, una piccola allucinazione … e ci sono sentieri o erba, e la luce lì è alta ma filtrata, e in mezzo il trenino della Rimini-Ferrara ci passa come una cosa di casa», scrive ancora a Gabriella nel luglio del ’59.

Dagli anni Cinquanta fino a quelli della contestazione studentesca, l’occhio inquieto di Arcangeli apriva dunque la strada alle visioni di Gianni Celati e di Luigi Ghirri: sospese lungo la via Emilia, sulle architetture, sulle nebbie, sulle pianure e sui loro abitanti “anarchici e solitari”, “ruvidi e dolci”, “carichi di sentimenti” come i pittori che egli amava.

In copertina, Antonio Rinaldi, Francesco Arcangeli e Gian Carlo Cavalli, 1939-1940 circa.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO

Bollo blu Dona (Mobile)