Hodor: come si diventa ciò che si è / The Game of Thrones: come funziona
L'articolo contiene informazioni sul finale della puntata trasmessa dalle reti italiane in prima visione il 30 maggio 2016.
Kill ’em all
The Game of Thrones, in italiano Il trono di spade (scompare quindi nel titolo tradotto il riferimento al gioco, presente nell’originale, e fondamentale per capire la machiavellica costruzione della narrazione), è una serie televisiva che ha introdotto un elemento del tutto nuovo nelle narrazioni popolari contemporanee.
Se già serie come The Walking Dead, Breaking Bad e, forse in misura ancora maggiore, Sons of Anarchy avevano cominciato a utilizzare lo strumento della morte di un personaggio principale come effetto scenico scioccante e inaspettato, che crea una sensazione di insicurezza nello spettatore, di solito abituato a dare per scontata la presenza dei “suoi” protagonisti per l’intera durata dello show, The Game of Thrones eleva questo espediente a sistema. Viene presentata una serie lunga (e a tratti quasi stucchevole) di protagonisti, divisi geograficamente, per lignaggio, per ascendenza e per ruolo. Lo spettatore, all’inizio, è quasi confuso dal proliferare delle casate e delle ambientazioni, dai nomi altisonanti e dalle genealogie familiari complesse. Lo sfondo su cui si intrecciano le storie è eminentemente politico: malgrado ci siano delle concessioni al fantastico – ed è quasi un paradosso, visto che la serie è ascrivibile al genere fantasy – siamo molto lontani dall’archetipo di Tolkien. È una brutalissima realtà quella di Westeros, il mondo in cui le vicende vengono narrate. La violenza e l’intrigo politico, l’assassinio, la guerra, il tradimento sono le componenti basali che regolano la vita (e la morte) dei protagonisti, tutti legati più o meno a doppio filo ad una delle casate che si dividono il potere nel mondo ideato da George R. R. Martin nella sua serie di romanzi A Song of Ice and Fire.
In The Game of Thrones, infatti, la morte dei protagonisti, spesso dei personaggi più amati dal pubblico, è una costante: la struttura “decentrata” della narrazione, per cui non c’è una figura accentrata di eroe, ma un pluriverso di azioni, attori e territori, rende possibile l’identificazione con una serie di protagonisti. Ed è questo il punto in cui Martin e i registi della serie colpiscono: proprio perché la serie si basa su un mondo in cui le storie parallele sono molte e fitte è possibile eliminare, con dei colpi di scena notevoli, uno o più dei protagonisti senza ledere la narrazione.
Vengono annientate intere famiglie, distrutte casate, linee di discendenza, figure (apparentemente) centrali, come succede nell’episodio emblematico The Rains of Castamere (episodio 9, stagione 3) in cui viene massacrata quasi per intero la famiglia Stark (per comprendere l’emotività dei colpi di scena è interessante guardare i video che riportano le reazioni di fan della serie alle scene più sconvolgenti degli episodi, come il seguente.
Ma forse la cosa più interessante – da un punto di vista “filosofico” – è l’incertezza esistenziale che la serie trasmette allo spettatore: viene rotta la linearità della narrazione, viene messa in questione la rassicurante identificabilità con i protagonisti: con la loro esistenza viene messa in pericolo anche la nostra. Non esistono compiti ineludibili, eroi che non possono essere sacrificati nella logica narrativa del “gioco dei troni”: i protagonisti sono marionette di un caso – o meglio della necessità terribile e schiacciante – di una vita fin troppo realistica, date le precondizioni “fantastiche” della narrazione.
Questa assurdità e al contempo (paradossale) verosimiglianza “mortalistica” della serie (se si esclude la recente resurrezione di uno dei protagonisti) viene esemplificata in maniera magistrale da un monologo di Tyrion Lannister, il nano geniale e anticonformista interpretato da Peter Dinklage, sul cugino “un po' tardo” Orson Lannister, che dopo aver “picchiato la testa” non faceva altro che schiacciare insetti con una pietra grugnendo “kuh”.
Tyrion racconta questo aneddoto al fratello Jamie, andato a trovarlo nella cella, poco prima della sua programmata esecuzione. All’obiezione del fratello, che sostiene che gli insetti schiacciati da un pazzo non significano di certo molto di fronte alle migliaia di uomini, donne e bambini uccisi ogni giorno, diventa palese che in realtà il significato è – al contrario – lo stesso: come senza significato “l’orologiaio cieco” Orson decide secondo il suo disegno imperscrutabile della vita e della morte degli insetti, così la vita lo fa con noi, e così i narratori fanno con i protagonisti de The Game of Thrones.
Ecce Hodor
Nel 1888 Friedrich Nietzsche scrive a Torino, in pochissimi giorni di scrittura incandescente, uno dei capolavori inarrivati del genere autobiografico: Ecce Homo.
Non vorrei, né sarebbe possibile analizzare in questo contesto il libro, per cui basti limitarsi a una delle interpretazioni possibili del sottotitolo, apparentemente paradossale: come si diventa ciò che si è.
Come si può diventare ciò che già si è?
In realtà non si può fare altro, e ci vuole tutta una vita, ci dice Nietzsche.
Ci vuole una vita intera per realizzare quello che fin dall’inizio siamo, per rendere atto quel determinato quantum di potenza individuale che la natura, il caso e la necessità ci hanno assegnato. Non esistono vite incompiute, progetti irrealizzati, vite che non dicono tutto il loro potenziale: il potenziale coincide con la vita, senza riserve, e bisogna viverla tutta, affinché esso si realizzi, senza che ne possa avanzare alcunché.
In The Game of Thrones, uno dei personaggi che fin dall’inizio ha ispirato più simpatia nel pubblico è sicuramente il mezzo gigante Hodor, interpretato dal DJ nordirlandese Kristian Nairn. Fin dalla prima stagione “Hodor” è un buffo aiutante della casa Stark: enorme, innocente, forte e goffo, che si esprime solo attraverso la parola – apparentemente priva di significato – “Hodor”. Qualsiasi sia la gamma emozionale, la finalità o la situazione che Hodor deve esprimere, sarà “Hodor” la parola che verrà scelta per portarla a verbalizzazione.
Hodor assumerà anche un ruolo fondamentale nel salvare e trasportare uno dei figli del defunto Eddard Stark, Bran, nell’estremo Nord, salvandolo dalla persecuzione di cui la sua famiglia è oggetto e da molti altri pericoli.
Bran svilupperà nel corso della narrazione le sue doti di veggente, sviluppando la capacità di viaggiare estaticamente nel passato, di vederlo, e persino di viverlo.
Quello che però Bran, nel suo apprendistato sciamanico ad opera dell’immortale attore-feticcio di Ingmar Bergman, Max von Sydow, imparerà è che la presenza nel passato non è scevra di pericoli. Non solo chi guarda troppo spesso il passato rischia di restarne intrappolato, ma rischia anche di essere visto, udito, percepito dagli attori delle vicende trascorse, alterando così la linea temporale.
In una di queste situazioni, in cui Bran si sofferma troppo a lungo nella sua casa natia del passato prima che gli eventi tragici all’inizio della serie ne portassero al radicale e drammatico cambiamento, compare il giovane Hodor, che ancora parla e non ha preso il nome derivato dal suo curioso monolinguismo. Proprio mentre Bran ha la visione di questo passato idillico, il luogo in cui il suo corpo privo di coscienza è rinchiuso viene attaccato da un’orda di mostruosi non morti, gli Estranei, e Hodor e la sua altra compagna di viaggio Meera Reed devono fuggire, portando Bran – ancora privo di coscienza – sulle spalle, fuori dal rifugio.
I non morti incalzano, Bran non riprende coscienza (ed inoltre è paralizzato nella parte inferiore del corpo), la fine del tunnel che conduce all’esterno della grotta in cui erano accampati è vicina, ma Hodor capisce che solo chiudendola dall’esterno e tenendola ferma con la sua forza e la sua imponente mole potrà dare il tempo a Meera di portare Bran in salvo.
Meera grida disperata ad Hodor “Hold the door” (“Tieni la porta”), e quel grido, tramite la coscienza di Bran ancora presente nel passato giunge fino alle orecchie del giovane Wylis, il futuro Hodor, che cade a terra in preda alle convulsioni, ripetendo ecolalicamente “Hold the door” fino allo sfinimento, storpiando quelle tre parole decisive, mischiandole, sovrapponendole, fino a fare di “Hold the door” “Hodor”.
Il destino di Hodor si compie in quel preciso istante, sia nel passato che nel futuro: nel futuro Hodor morirà per tenere chiusa la porta da cui i non-morti vorrebbero uscire, mentre nel passato Wylis perde la sua identità, la sua possibilità di esprimersi, in virtù proprio di quel compimento futuro. Wylis era fin dall’inizio Hodor, ed Hodor, fin dall’inizio sarebbe stato colui che avrebbe tenuto chiusa la porta di fronte agli orrori e alla morte che minacciavano Bran Stark.
Nel momento del compimento del suo destino Hodor incarna il suo nome, diventa “colui che tiene chiusa la porta” e si consegna con un gesto eroico al paradiso dell’immaginazione (pop) collettiva, diventando ciò che, già da sempre, è.