Come parlano i filosofi
In molti dei suoi tratti più rilevanti la storia della filosofia coincide con la storia di alcune domande.
«Perché l’essere e non il nulla?»; «Che cosa posso sapere?»; «Che cos’è il bene?» sono solo alcune delle questioni che hanno segnato il cammino del pensiero filosofico occidentale.
Fin dalle sue origini, in particolare nel suo momento aurorale greco, la filosofia ha cercato di indirizzare il suo cammino verso una riflessione che ha considerato il fattuale, il quotidiano, il fenomenico come qualcosa di non necessario, di contingente, qualcosa che andrebbe penetrato, in qualche maniera “bucato”, per raggiungere la profondità ontologica – essenziale – che esso manifesta, ma al contempo nasconde.
Solo un ristretto numero di autori, rispetto a quelli che si sono confrontati con le domande ontologiche classiche, ha avuto interesse e capacità di spostare il focus del domandare, mettendo la contingenza al centro del proprio interesse, ma senza avere per questo l’obiettivo di superarla, o di ricondurla a un orizzonte necessario.
Si tratta di uno spostamento minimo, ma al contempo radicale: quello che porta dalle domande relative al “perché” e al “che cosa” – domande ontologiche per eccellenza – a quella sul “come”. Chiedere il “come” di ciò che accade significa rinunciare, programmaticamente, a quella vis penetratoria (non scevra da una certa implicita violenza), propria della domanda ontologica e consegnarsi ai fenomeni, al contingente, al mondo della vita. È la domanda sui “modi di esistenza” – come li chiamava Gilbert Simondon – che caratterizza il XX secolo in alcuni dei suoi momenti filosofici migliori, vale a dire quelli che hanno cercato il dialogo con le scienze, con la storia, con la letteratura, con l’antropologia. È la domanda, ad esempio, di Michel Foucault: un autore che in Italia e in ambito anglofono (oltre che, naturalmente, in Francia) ha avuto una vita postuma notevole, tutt’oggi mantenuta in auge sia da una serie di riflessioni critiche e di edizioni postume, sia da una ripresa dei suoi concetti più importanti (su tutti: biopolitica) da personalità filosofiche rilevanti per i dibattiti contemporanei, come ad esempio Giorgio Agamben, Roberto Esposito, Toni Negri.
Una sorte diversa, purtroppo, è quella che è toccata a un altro grande filosofo del “come”: Hans Blumenberg. Blumenberg, malgrado la sua fama e il grande successo come accademico in vita, è andato incontro a un (immeritato) oblio precoce, se si fa eccezione di un revival di interesse degli ultimi anni in Germania. Anche in Italia Blumenberg rimane un nome rispettato quando nominato tra gli addetti ai lavori, ma ormai sempre meno letto, e ancor di meno pubblicato. Questo a dispetto del fatto che molte delle sue opere principali – per lo più tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso – trovarono sedi editoriali prestigiose nel nostro Paese (Il Mulino, Raffaello Cortina, Marietti) e interpreti importanti (come Remo Bodei).
Eppure Blumenberg e Foucault possono essere considerati due stelle – o meglio, due fuochi – della stessa galassia filosofica: la galassia della contingenza, dell’interesse per la fatticità, per la storia, per le forme di vita.
Blumenberg, infatti, ha legato il suo nome a una disciplina nata – e forse morta – con lui: la metaforologia. Come indica il nome stesso, la metaforologia – su cui il lettore italiano può leggere il capolavoro blumenberghiano, i Paradigmi per una metaforologia, in una delle poche edizioni recenti disponibili nel nostro Paese di un’opera dell’autore, edita da Raffaello Cortina nel 2009 – è una disciplina che si interessa delle metafore che vengono usate dai filosofi per descrivere il mondo. La leva teorica – semplice e geniale al contempo – su cui insiste Blumenberg è che, per comprendere davvero il nucleo teorico della filosofia e delle filosofie, bisogna dedicare un’attenzione radicale al come i filosofi hanno scritto: alle metafore, agli esempi, agli aneddoti, agli aggettivi, agli avverbi dei filosofi. Non c’è nulla dietro quelle forme che non sia già contenuto in esse, nessun noumeno dietro al fenomeno della parola filosofica scritta. Il libro come metafora di rappresentazione della realtà, il riso della donna di Tracia come emblema del rapporto tra filosofia e vita quotidiana, fino ad arrivare alle metafore che innervano profondamente la svolta copernicana della modernità: il lavoro di Blumenberg, tutto da riscoprire, ha toccato molte delle trame nascoste dietro il nostro modo di parlare, di pensare e di formulare concetti.
Si deve a una pubblicazione recente di un filosofo italiano, Nicola Zambon – Persuasione ed evidenza. Sul rapporto tra retorica e fenomenologia in Husserl, Heidegger e Blumenberg (Inschibboleth, Roma 2024) – il merito di mettere in atto il tentativo di rivivificare il portato metodologico blumenberghiano. Zambon, che si pone in questo nella tradizione di illustri predecessori (basti pensare alla gemma filologica ancora insuperata dell’edizione critica dell’opera di Friedrich Nietzsche ad opera di due italiani, Giorgio Colli e Mazzino Montinari), oltre a curare molti degli inediti tedeschi di Blumenberg per l’editore Suhrkamp, ci consegna un lavoro non solo su Blumenberg, ma profondamente blumenberghiano, nel metodo e nell’intento.
Nella veste di quello che solo a una lettura superficiale ha la forma di uno studio riservato unicamente al pubblico accademico Zambon si pone, infatti, una questione inaggirabile per chiunque voglia occuparsi di pensiero filosofico e dei suoi modi espressivi: che rapporto sussiste tra l’evidenza filosofica e la persuasione retorica? E – insieme – che rapporto hanno filosofia e retorica con l’antropologia?
Come fin dall’introduzione al suo volume Zambon rende evidente, la retorica, qui, non è solo la disciplina connessa con l’arte di saper parlare in pubblico, tanto diffusa nel mondo antico euromediterraneo e spesso oggetto degli strali critici dei filosofi. La retorica, per dirla con Blumenberg stesso, «è tutto ciò che rimane al di qua dell’evidenza». Ossia, è ciò con cui abbiamo a che fare tutti i giorni nel parlare quotidiano: la necessità di comprendersi l’un l’altro, di scendere a patti, di trovare terreni concettuali comuni, grigi, sfumati, che permettano di vivere assieme agli animali in grado di parlare che noi tutti siamo. Zambon mostra come – in uno dei movimenti filosofici più rilevanti del XX secolo, la fenomenologia – la questione del rapporto tra filosofia (ossia tra ciò che, a partire dal fondatore del movimento, Edmund Husserl, deve essere assolutamente autoevidente, assimilabile in ciò a una scienza esatta) e opacità dell’espressione linguistica sia il luogo di una problematicità paradigmatica:
«Senza retorica […], la fondamentale capacità dell’essere umano di esprimersi, spiegare, comunicare, convincere, negoziare, descrivere all’interno di contesti storico-culturali di volta in volta diversi […] non si dà cultura. […] Proprio per questo, per il fatto cioè che il nostro linguaggio è storia e al contempo ha una storia, le metafore possono fungere da tracce o indice per una ricostruzione delle variazioni o trasformazioni dell’immaginario simbolico di una data epoca.» (pp. 125-126).
In questo senso le analisi raffinate che Zambon dedica ai percorsi di Husserl e Heidegger (malgrado la radicale diversità delle posizioni dei due autori) evidenziano come entrambi, se sottoposti a un’analisi effettuata tramite la lente metaforologica, mostrino il fianco: né Husserl né Heidegger sono riusciti a cogliere fino in fondo la vera questione su cui si fonda la domanda sui rapporti tra filosofia e retorica, tra pensiero che aspira a una totale autoevidenza concettuale e linguaggio quotidiano: la questione antropologica. A questa Blumenberg aveva dedicato tutta la fase finale della sua produzione, sfociata nel suo capolavoro, pubblicato postumo, Descrizione dell’umano [Beschreibung des Menschen], purtroppo non (ancora) tradotto in italiano.
Riprendendo l’ultimo Blumenberg, Zambon ci mostra che il problema dell’evidenza e/o dell’opacità del linguaggio – del come parliamo noi e di come parlano i filosofi – è legato alla casualità della nostra fatticità, della nostra storia evolutiva di animali sapiens, gettati nella contingenza ed esposti allo sguardo degli altri. È solo a partire da questo fatto evolutivo che è stato possibile – o meglio, necessario – agli umani trovare un metodo d’ingaggio che gli permettesse di fare i conti, quotidianamente, con gli altri (in prima istanza) e poi con se stessi (derivatamente). In questo senso la metaforologia di Blumenberg dimostra che la questione del linguaggio non è pensabile se non a partire dalla sua interconnessione con la famosa quarta domanda kantiana: “Che cos’è l’uomo?”. Questa domanda, però, nell’ottica radicalmente immanente di Blumenberg (e Zambon) è una domanda a cui si può rispondere solo in maniera genuinamente (ed etimologicamente) fenomenologica: è solo dai e nei fenomeni che si dà la risposta, una risposta che è storica, culturale, evenemenziale e inscindibile dai suoi modi di datità, ossia dalle narrazioni che la veicolano.
In questo senso, sia Husserl che Heidegger, mancando di un approfondimento antropologico, o essendo ad esso metodologicamente avversi, hanno mancato di comprendere che quello che è possibile è solo, per citare in conclusione ancora un saggio di Blumenberg, tra i più complessi e affascinanti, un avvicinamento antropologico alla questione della retorica.
Di tale avvicinamento il libro di Zambon rappresenta un esempio, oltre a essere un invito alla riscoperta di un autore come Blumenberg che meriterebbe una nuova fortuna anche nel nostro Paese.