Follia / L’Hölderlin di Agamben: forma di vita

21 Marzo 2021

Giorgio Agamben ha concluso ormai da sette anni il suo progetto Homo sacer, dedicando la parte finale di esso – gli ultimi due volumi – al tema della forma di vita.

Non poche delle opere pubblicate dopo la fine di quel progetto possono però essere lette in continuità con le idee con cui si chiudeva l’ultimo volume della serie, L’uso dei corpi (2014): qui, infatti, il filosofo romano ragionava sul concetto di forma-di-vita come alternativa alle dicotomie concettuali – zoe/bios; teologia politica/teologia economica; oikos/polis, ecc. – che avevano caratterizzato la macchina ontologico-politica occidentale lungo tutta la sua storia. Tale concetto era stato pensato come alternativa alla – e al contempo come punto di impasse della – “macchina antropologica” del pensiero occidentale che, per Agamben, fondamentalmente, consiste nella creazione, sempre nuova e sempre generata da dispositivi di potere, di coppie concettuali oppositive, che creano a loro volta, tramite i reciproci rapporti, delle zone grigie di esclusione e di inclusione.

 

La forma-di-vita, per Agamben, non funziona così: essa è una vita che si dà esaurendosi nel suo stesso vivere, senza scarti. Per questo una teoria delle forme-di-vita non può tanto essere dimostrata, quanto, piuttosto, mostrata: come si mostra un quadro, la vita di un animale, o un paesaggio.

In questo senso sono interpretabili molti degli ultimi libri di Agamben: da quello su Pulcinella (2015) a quello su Majorana (2016), dalla sua autobiografia (2017) fino ad arrivare al suo ultimo lavoro, La follia di Hölderlin (Einaudi 2021). 

 

L’ultimo libro di Agamben, fin dal sottotitolo, si presenta come una “cronaca”: un genere letterario specifico, antico, in cui eventi e aneddoti si susseguono in elenco, affastellandosi, creando un mosaico il cui senso è dato solo dall’osservazione del quadro di insieme, e non da un criterio logico o espositivo scelto a priori. 

La struttura del libro, così, assume uno svolgimento cronologico, mostrando, tramite una selezione di testimonianze di contemporanei, di lettere di e a Höderlin, ma anche attraverso una contestualizzazione della vita del poeta nella situazione geopolitica e storico-culturale della sua epoca, quella che Agamben definisce una “vita abitante”.

 

La vita di Hölderlin viene indagata, anno per anno, partendo da un assunto fondamentale: 

“Il problema non è di accertare se Hölderlin fosse o non fosse pazzo. E nemmeno se egli abbia o meno creduto di esserlo. Decisivo è, infatti, che ha voluto esserlo o, piuttosto, che la follia gli sia apparsa a un certo punto come una necessità, come qualcosa a cui non poteva sottrarsi” (p. 21). Malgrado la vulgata biografica, così come la generale opinione dei contemporanei, tenda a dare per assodata la patologia mentale del grande poeta tedesco, il libro di Agamben, piuttosto, si propone di esporne la coerenza in quanto forma-di-vita, una coerenza che la lettura patologizzante non coglie né può cogliere.

 

 

Malgrado l’affermazione sopra riportata cerchi di spostare il focus dell’attenzione dalla (presunta) follia di Hölderlin ai suoi motivi, dalla ricostruzione agambeniana emerge abbastanza chiaramente come il filosofo non consideri Hölderlin un pazzo, quanto, piuttosto, come una persona che decise di assumere una forma-di-vita talmente in radicale disaccordo con i modi e le forme del vivere proprie della sua epoca da non poter essere considerata che folle. 

 

In alcune pagine del libro la follia hölderliniana sembra addirittura assumere la forma di una strategia o di una messa in scena, che il poeta avrebbe assunto per districarsi da possibili accuse di radicalismo politico o che sarebbe stata assunta come forma di dissidenza ironica rispetto al mondo esterno: “In generale molti elementi che nel comportamento di Hölderlin vengono ascritti alla follia possono essere letti come il frutto di una sottile, calcolata ironia” (p. 94).

La tenuta di questa interpretazione – a suo modo estremamente radicale – della follia hölderliniana da parte di Agamben verrà sicuramente discussa dagli esperti dell’autore e non mancherà, certo, di suscitare polemiche.

 

Al pubblico interessato di filosofia, invece, più che della follia di Hölderlin, il libro di Agamben dice qualcosa sull’evoluzione di pensiero del filosofo romano. 

Innanzitutto, non sfugge al lettore esperto di Agamben come la vita di Hölderlin venga pensata dal filosofo sotto il segno non del tragico, ma del comico (per quanto neanche ad esso sia totalmente riconducibile): in questo Agamben prosegue un lavoro sulla commedia che porta avanti da molti anni, e che aveva trovato una trattazione – anche lì attraverso l’esposizione di forme-di-vita esemplari – frontale nel libro su Pulcinella. 

 

In seconda battuta, soprattutto a partire dall’Epilogo, appare chiaro come il testo si situi nel solco delle riflessioni agambeniane sul concetto di “abito”, la hexis aristotelica pensata come alternativa alla coppia dicotomica classica dynamis/energeia (ma anche a quella poiesis/praxis). In questo la hexis agambeniana si pone come pendant, se non come sinonimo, della sopra citata forma-di-vita: un concetto che non è pensabile, ma solo assumibile, vivibile come un avere di cui non si ha possesso se non nel momento in cui lo si incarna: “La vita abitante di Hölderlin è abitiva, perché non consiste in una serie di azioni volontarie e imputabili, ma è piuttosto una forma di vita, un essere affetto in ogni istante dai propri abiti e dalle proprie abitudini. […] La vita abitante di Hölderlin neutralizza l’opposizione fra pubblico e privato, li fa coincidere senza sintesi in una posizione di stallo” (p. 221).

 

Da ultimo Agamben – e questo è un punto che rimane, nella sua problematicità, da approfondire per gli studiosi del filosofo – con questo suo lavoro sembra fare un passo sempre più deciso in direzione dell’ultimo Heidegger: non solo e non tanto a causa del suo interesse per la poesia (e in particolare per quella di Hölderlin), quanto piuttosto per quella che sembra essere una tendenza sempre più marcata a ritirarsi, con il passare del tempo, in una filosofia della Gelassenheit, dell’abbandono venato di nostalgie naturalistiche che aveva caratterizzato pure la filosofia tarda del pensatore di Meßkirch.

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