Gian Piero Piretto. La vita privata degli oggetti sovietici

20 Marzo 2013

Che odore ha l’Urss? Dolce, forte e intenso, quasi nauseabondo come Mosca Rossa, il profumo delle élite sovietiche e poi del popolo, prediletto anche dai beoni per la sua alta gradazione alcolica? O sapore di sciroppo alla frutta, erogato dai distributori pubblici di acqua gassata (la poetessa Bella Akhmadullina gli dedicò nel 1960 versi quasi erotici), dal gusto annacquato dal perenne defizit dell’economia pianificata? Forse, l’inconfondibile “afrore sovietico”, un misto di pesce essiccato e vapore di banya collettiva.

 

Dopo aver esplorato la cultura visuale staliniana, Piretto disegna un Museo delle Cose sovietiche, ricostruendo la memoria degli oggetti che per settanta anni hanno accompagnato la vita quotidiana del sovok (l’homo sovieticus). Ambiti, sognati, agognati, attesi per ore o giorni o anni, nelle immancabili code. Il catalogo è lungo, suddiviso per voci: da polpetta a Sputnik (il più elegante), da carta igienica (che sa di insaccato del popolo, o viceversa secondo una barzelletta corrente all’epoca), a samovar (l’istinto borghese da estirpare, ma resistente tanto da riconfluire nel décor imperiale staliniano, o nella subcultura degli stilyagi, giovani “ossessionati dalla moda” occidentale, immortalati in un bel film di V. Todorovsky del 2008). Fino al Cadavere di Lenin reificato data la familiarità dei russi con esso: in questi giorni è “resuscitato” al Vdnkh di Mosca, dove una copia del corpo imbalsamato del leader del proletariato mondiale giace in uno pseudo-mausoleo come quello sulla Piazza Rossa, non morto però ma addormentato: che russa dolcemente, sollevando il petto. Dai copriscarpe di gomma all’infrangibile bicchiere a faccette, alla temibile (se smarrita) “numerochka” (contromarca del guardaroba, strumento sadico di potere sfruttato dalla durezza implacabile delle guardiane), dall’esile borsa a rete per la spesa all’automobile Pobeda (Vittoria); bottiglie di vodka e papirosy (sigarette dal tabacco scadente ma dalla durata maggiore); lampadine nude, emblema del progresso elettrificato.

 

 

Oggetti, elettrodomestici e utensili – elitari o popolari, prodotti in massa o introvabili, invidiati o infamati, conferiti come premio agli eroi nazionali, pubblicizzati in réclame dal sapore più patriottico-propagandistico che consumistico, che ne sottolineavano funzionalità, rigore e solidità a spese del design. Spesso marchiati dalla scarsità che accompagnò ciclicamente la vita dell’Impero, il famigerato “defizit”: “il vuoto, la carenza di uno o più articoli dal mercato, le non cose”, riassume l’autore.

 

Una difficile reperibilità che ne fece oggetti quasi sacralizzati: non a caso l’immagine più bella che ne riassume la mitologia è la descrizione di Walter Benjamin (nel suo saggio sulla Mosca anni ‘20 in Immagini di Città) della venditrice di sigarette e tabacco come “Una madonna sovietica con bambino”. Mentre l’emblema più inquietante ne è la vetrina sovietica, di cui sopravvivono oggi alcuni esemplari nella provincia russa: dove, come in uno scenario teatrale, si esibiva ai passanti una finta abbondanza, salvo poi varcare la soglia del negozio per trovare scaffali vuoti. Un “trauma infantile” che giustifica il culto russo, ancor oggi, per l’accumulo e il remont (restauro o riparazione). Distintivi e pecette, la giacca di Brezhnev stracarica di medaglie. Non di trash, ma di “camp sovietico” si tratta, per Piretto. Che racconta il suo campionario attraverso poesie, film, romanzi, pittura dedicati a quegli oggetti. E tante storie: di come krasny (traducibile con “rosso” ma anche con “bello”), ad esempio, diventò il colore del Comunismo.

 

Ilya e Emilia Kabakov, L’uomo che volò nello spazio dal suo appartamento

 

Il vero cuore del libro, però, è la dialettica/conflitto tra pubblico e privato, tra spazi aperti e chiusi nel perduto mondo sovietico: la stessa che è stata messa in scena dagli artisti concettualisti Ilya ed Emilia Kabakov, nel grandioso progetto Monument to a Lost Civilization (l’Urss appunto), esposto per la prima volta a Palermo nel 1999, e di recente per la prima volta anche a Mosca alla galleria Red October.  Una serie di trentasette installazioni che mettono al centro non gli oggetti ma gli spazi del mondo sovietico (stanze in condivisione, ospedali e laboratori scientifici, scuole, musei, uffici santuari della burokratia, teatri), per esplorare la possibilità di una felicità individuale nella costrizione del collettivismo forzato. Tra cui il bellissimo “L’uomo che volò nello spazio dal suo appartamento” (1976): una stanza vuota con luce alla Rembrandt che passa attraverso un foro nel soffitto, dal quale un uomo è appena schizzato nello spazio dalla sua triste kommunal’ka (dalla brochure introduttiva: “L’opera mostra la vita della perduta società sovietica. Gli autori delineano la tensione tra il reale e l’ideale, la battaglia per sviluppare la propria individualità e umanità nei confini di una società strettamente autoritaria”).

 

Se molti di quegli spazi, pur consunti, ancora resistono al crollo dell’Urss in attesa del prossimo, drastico remont, gli oggetti oggi tornano di moda come oggetti di culto. A Mosca, a dicembre ha aperto il nuovo Museo del Design Sovietico che sta avendo grande successo: in mostra televisori, aspirapolvere, scooter copiati dalla Lambretta, tappezzerie d’antan, chitarre elettriche e videogiochi “preistorici” come la mitica Battaglia navale made in Urss. Edulcorati dal tipico afrore, resi trendy e riavvicinabili. Ma scordatevi “Good Bye Lenin”: l’Ostalgie non sfiora per niente i russi.

 

Gian Piero Piretto, La vita privata degli oggetti sovietici. 25 storie da un altro mondo, Sironi Editore, 2012

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