Giancarlo De Carlo

9 Gennaio 2014

«L’utopie c’est la réalité de demain». L’affermazione di Le Corbusier è ben chiara a Giancarlo De Carlo quando, nel ’72, viene invitato a relazionare circa “il futuro dell’architettura” al Royal Australian Institute of Architects.
Quella conferenza diverrà, per l’architetto genovese, lo spunto per approfondire una sua personale visione dell’architettura che si fonda sulla necessità di tradurre costantemente il progetto in processo, in opera aperta capace di accogliere la forza biografica e narrativa prima che teorica.

 

Con una precisa urgenza rispetto alle piccole e grandi miserie in cui versa buona parte del paesaggio costruito italiano e ad una certa apatia critica che sta attanagliando le facoltà di architettura, Quodlibet ripubblica l’intervento di De Carlo in questa conferenza arricchendola con due saggi dello stesso autore, il primo sul Piano per il centro di Rimini e l’altro sul famoso progetto del villaggio Matteotti di Terni. Ne risulta un agile pamphlet  - L'architettura della partecipazione - spunto da cui ripartire col dibattito sul futuro delle nostre città.

 

 

La forza che traspare da questo saggio è quella di un progettista che si interroga criticamente sulla sua disciplina, ne cerca il senso profondo, ne giudica i fallimenti ed i successi portando alla luce quella che in definitiva è un’idea militante dell’architettura, liberata dal luogo comune e dal dato di fatto. Un’architettura “narrativa”, capace di ascoltare, accogliere, annettere quelle che sono le tensioni della città e dei suoi abitanti. Un’architettura che deve farsi “processo”, scardinando la visione consolidata dell’edificio come un unicum perfetto e concluso.

 

Per fare ciò De Carlo utilizza l’arma della partecipazione, permeando il processo progettuale con la vita e le istanze dei suoi utenti futuri, impegnandosi su un piano più profondo e superando la concezione dell’architettura come fatto meramente creativo. In questo senso «non serve una teoria della partecipazione ma [...] l’energia per uscire dall’autonomia», per “sporcarsi le mani” per “contaminarsi” con il luogo. Solo mettendo costantemente in crisi i principi di «incontaminazione, autonomia, autosufficienza» che hanno lentamente appesantito l’architettura moderna rendendola impermeabile al suo pubblico, per De Carlo, l’architettura diventa «utopia realistica», costruttrice di un’idea di comunità.

 

L’architettura si può dunque salvare se diventa parte integrante del processo culturale di una comunità, se la partecipazione diventa il mezzo con il quale la società costruisce il suo orizzonte di esistenza, il suo “spazio”.
E ciò è valido ancora oggi, nonostante la pratica della partecipazione rischi di diventare abusata anche perché molto spesso utilizzata dalla politica per ammantare di falsa trasparenza attività più o meno speculative. La partecipazione infatti, pionieristica negli anni in cui scriveva De Carlo, è diventata sempre più un’arma nelle mani delle amministrazioni per allargare indiscriminatamente la rosa degli attori potenzialmente coinvolgibili in un processo urbano, dilatando sensibilmente i tempi della decisione ma costruendo una forte base di consenso.

 

 

Questa “istituzionalizzazione” della partecipazione, in contrasto con la sua originale componente “anarchica”, l’ha resa parte integrante del processo economico contemporaneo costringendola in una “gabbia” normalizzante e accettabile che in ultima analisi è servita più alla preservazione di un sistema che al suo scardinamento, facendo entrare in crisi la nozione romantica di partecipazione e rendendola un processo fortemente verticale.

 

La disillusione con cui oggi sono percepite le scelte politiche, il senso di subalternità con il quale si confrontano i cittadini di fronte alle modificazioni della città porta con sé la necessità di rivedere drasticamente il concetto di partecipazione, a favore di un ritorno alla sua componente conflittuale, militante, originale. Una ricerca che liberandosi dell’istituzionalizzazione della partecipazione, la riporti nelle strade attraverso le nuove pratiche della collaborazione e della mixité disciplinare e professionale, costruendo un ulteriore strato critico tra il luogo della politica e i cittadini, ristabilendone così l’orizzontalità.

 

In quest’ottica il libro di De Carlo diventa una piattaforma da cui partire alla ricerca di un nuova prospettiva, un invito alla “rivolta”, a superare l’assuefazione ai luoghi comuni, un inno alla contaminazione. Solo così l’architettura sarà «sempre meno la rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa».

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