Speciale

Gianni Celati / Tempo della visione, tempo della erosione

6 Aprile 2011

L’inquadratura indugia sulla facciata di un vecchio casale abbandonato nel paesaggio vuoto e quasi metafisico della pianura padana. Si sofferma sulla facciata, o su un particolare dell’edificio. Una crepa. Una fenditura. Un muro scrostato. Un infisso divelto. Un buco trasformato in un nido di piante e di erbe selvatiche. La macchina da presa non è mai troppo vicina. Mai troppo invasiva. Si mantiene a una certa distanza. Alla giusta distanza. Abbastanza vicina per vedere, ma anche abbastanza lontana per evitare un eccesso di intimità. Non si muove, la macchina da presa. Sta lì, e guarda. Poi, all’improvviso, in primissimo piano, nello spazio vuoto che c’è fra l’occhio che osserva e l’architettura che è osservata, accade qualcosa. Qualcosa di minimo, ma di decisivo. Un’auto, un camion o un motorino sfrecciano via veloci sulla strada e occupano per un istante il campo visivo. Non sufficientemente veloci da impedire a noi di percepire il loro passaggio, ma – con ogni probabilità – sufficientemente veloci per impedire a chi è a bordo di percepire ciò che non stiamo guardando nel totale, oltre la linea della strada.

 

Visioni di case che crollano(2003) di Gianni Celati lavora sull’immagine così. Cerca prima di tutto di captarne la durata, di materializzare il tempo che in essa (e in noi) lavora. Non sono le case che crollano il vero oggetto dello sguardo di Celati. È il tempo in cui il crollo accade, che gli interessa. Ed è il modo in cui l’immagine può far percepire anche a noi questo tempo/crollo. A prima vista – cioè a uno sguardo di tipo «realistico» o «naturalistico» - il titolo del film potrebbe sembrare ingannevole o menzognero. Non crollano, le case che Celati trasforma in visioni. Il suo film non è un disaster movie catastrofico che cerca nello spettacolo del crollo (o, tutt’al più, nella sua attesa) il suo climax emozionale. Quelle case – quei casali, quelle cascine, quei casolari, quelle fattorie - o sono già crollate o sembrano sul punto di crollare. Lo sguardo «naturalistico» prende atto del già avvenuto o di ciò che è in procinto di avvenire. Solo di quello, e di questo. Segmenta il tempo in una catena logico-sequenziale in cui solo il fatto compiuto o il pericolo che si compia sembra abbiano valore. In realtà, con il suo modo di inquadrare e di mettere in scena, Gianni Celati ci dice che quelle case crollano anche nel tempo della nostra visione. Il crollo non è il prima o il dopo del nostro guardare, è il durante, e il mentre. Anche se noi non lo percepiamo, c’è un tempo dell’azione (e dell’erosione, del decadimento…) che lavora incessantemente sulle cose  e sulle immagini delle cose. Questo, secondo Celati, dovrebbe saper far vedere il cinema: il tempo che lavora dentro l’immagine, la durata della visione. Così, proprio quelle auto che sfrecciano, con la brusca irruzione di una temporalità diegetica e percettiva dentro il visivo, ci obbligano a misurare anche il tempo apparentemente vuoto dell’inazione, e a coglierlo come tempo immanente del crollo. Con Gilles Deleuze potremmo dire che Visioni di case che crollano è il tentativo di Celati di dar forma – sulla scia degli amatissimi Wim Wenders e Michelangelo Antonioni - all’immagine/tempo, e di visualizzare l’agonia di un’architettura come rivelazione epifanica di una più vasta e disorientante e desolante agonia del sociale. Di fronte alla facciate lebbrose di quei casali padani corrosi dal sole e dalla pioggia, di fronte a quel paesaggio di ruderi e calcinacci, di macerie e di rovine, quel che sta lì, nell’immagine, è il segno del passare del tempo. È, forse, il tempo come malattia. Lo dice bene John Berger, autore di saggi fondamentali come Questione di sguardi eSul guardare, scelto da Celati come una sorta di Virgilio che guidi noi visitatori delle immagini (delle visioni…) nell’inferno del paesaggio di rovine. Seduto a un tavolo, in prossimità di una grande curva del Po, Berger legge alcune pagine dattiloscritte, doppiato dallo stesso Celati: «Al giorno d’oggi, uomini e donne si restaurano la faccia cadente, cioè le facce che a poco a poco, a causa dell’età, crollano e diventano una specie di rovina – perché tutto ciò che porta i segni e le tracce del passare del tempo in qualche modo ci spaventa. E così le case che crollano sono sentite come una specie di malattia, una malattia che è semplicemente l’effetto del tempo che passa».

 

Il tempo come malattia. Come patologia inevitabile di un’epoca tesa a rimuovere il tempo e a piallare le sue gibbosità sull’asse liscio del presente. Per questo, allora, far vedere il tempo è per Celati il vero atto politico che il cinema ci può ancora aiutare a compiere: non il filmare «la realtà così com’è», non coglierla nella sua presunta «autenticità», secondo le illusioni dogmatiche care ai feticisti del realismo, ma cogliere il tempo che attraversa il mondo, e mostrare il lavoro che sul mondo produce. Non è un caso che Celati ami – fra i tanti film che ama – proprio Nel corso del tempo di Wim Wenders, a cui ha dedicato uno scritto bellissimo e rivelatore, ora riproposto nel numero di «Riga» a lui dedicato. Nel film di Wenders, Celati vede qualcosa di molto simile al grande cinema di Antonioni (grande nonostante i frizzi e i lazzi con cui cerca ora di denigrarlo, dalle pagine del «Corriere della sera», un critico strafatto di TV spazzatura e di reality trash come Aldo Grasso): vede, Celati, «momenti che non rimandano a nessuna azione né a nessuna attesa, e ci invitano soltanto al guardare per un certo tempo le immagini del film, senza altre promesse. Ciò implica che in quei momenti il nostro punto di riferimento non è più quello fictional dell’azione o della trama, bensì quello non-fictional del tempo che passa durante il nostro guardare» (Quando ho visto Nel corso del tempo, «Riga» n. 28, pp. 122 sgg.). Bisognerebbe vederlo e rivederlo, questo film di Celati, perché in esso c’è un’idea di cinema che non è né documentario né fiction, né docufiction, ma un tentativo di pensiero figurale. Un po’ come figurali sono i maestri che Celati riconosce in un’intervista a Sarah Hill pubblicata sempre su «Riga» (Documentari imprevedibili come i sogni, pp. 55 sgg.). Flaherty, innanzitutto: straordinario non perché ci mostra «il vero modo di vita» della famiglia di Nanuk l’esquimese (sappiamo anzi che Flaherty faceva recitare i suoi personaggi, e che ricreava veri set, arrivando a spaccare a metà un igloo per avere abbastanza luce nelle riprese), ma perché filmando si espone all’incontrollabile, e a situazioni che non possono essere finte. Poi Vertov, per la sua capacità di liquidare una volta per tutte l’idea che al mondo esista qualcosa di banale, o di poco importante, per il suo desiderio di guardare tutto, e di rendere tutto singolare, e per la precisione con cui sa rendere armonico il vivere e il lavorare attraverso quell’eros diffuso nei corpi e nelle cose, senza che niente resti isolato nel vuoto, che ancora oggi fa la grandezza e il fascino di L’uomo con la macchina da presa. E poi, infine, lo Joris Ivens di Pioggia, per come sa cogliere le cose qualsiasi in una contingenza particolare – quella di una pioggia improvvisa – che le rende tutte esemplari, come altrettante immagini dell’essere al mondo. Visioni di case che crollano recupera queste qualità: si espone all’incontrollabile, cancella l’idea di banale, rende esemplare il qualsiasi. Per di più è, a suo modo, ipertestuale, e si sviluppa seguendo diverse piste e differenti binari: da un lato c’è un regista (Alberto Sironi) che sta istruendo un’attrice che recita un monologo teatrale incentrato sulla sparizione del mondo contadino, dall’altro lato c’è una troupe che svolge una specie di inchiesta sui motivi per cui tante case sono state abbandonate, e sul perché gli abitanti se ne sono andati, dall’altro ancora c’è John Berger che introduce, chiosa, provoca, commenta, riflette. E poi c’è il repertorio: le vecchie immagini in bianco e nero di precedenti visioni filmate nella stessa zona (da Delta del Po di Florestano Vancini alle immagini dei documentari di Renzo Renzi e Giuseppe Morandi). Le visioni del passato diventano il set mentale e figurale delle visioni del presente, le immagini crollano su se stesse e in se stesse, ma nello stesso tempo (ancora il tempo…) si generano come le une dalle altre, e dialogano, e si confrontano. Fuori dal tempo, ma nel corso del tempo. A inseguire quello che è il vero progetto di Gianni Celati cineasta: filmare le cose per capire cosa vediamo, come vediamo.

 

[pubblicato in Duellanti, n. 46, Ottobre 2008].

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