Galleria Anna Maria Consadori, Milano / Gli occhi di Steinberg
I ritratti di Steinberg non mi vengono molto bene. Gliene ho fatto più di uno, frugando tra le sue foto, ma nessuno mi ha mai soddisfatto pienamente. Il punto è che in un suo ritratto, perché sia proprio vero, non si può non cogliere, insieme ai lineamenti del volto, il carattere della sua mano, delle sue dita, della punta dei suoi polpastrelli. Perfino delle unghie. Del suo corpo intero, insomma. Quindi non è sufficiente guardare le foto e scavare nei segni della sua faccia.
Steinberg inoltre, davanti al fotografo, normalmente recita. Finge. Come fingono e recitano i suoi disegni.
Steinberg ha disegnato e impresso in modo indelebile nella nostra mente il ritratto dell’America. In particolare di Manhattan, del suo aspetto e della storia. Come nessuno aveva fatto prima li ha tradotti in linee, ce li ha fatti vedere e scoprire. I suoi disegni si sono sovrapposti alle immagini reali, di persone e di cose, facendole diventare in questo modo un prodotto della sua mano.
Per fare questo ha catturato un segno e, da grande domatore, la penna in mano come una frusta, l’ha messo ai suoi ordini.
Le difficoltà incontrate nell’addomesticare il segno talvolta si vedono e si notano anche i suoi moti di ribellione, restio a farsi guidare. Ma molto più spesso le pagine si illuminano dei momenti in cui quel segno è felice nell’essere domato e può mostrare, nei suoi guizzi, la sua sapienza e intelligenza. Ecco allora lo spettacolo dei due talenti all’opera.
Anche io mi sono misurato con il segno, ho provato a sfidarlo, ma ho potuto servirmi dell’addestramento di Steinberg, ho studiato i suoi metodi e le sue mosse, li ho trasformati in lezioni che per me sono state fondamentali. Per questo gli voglio molto bene.
Tralasciando per ora il problema del ritratto e tornando a pensare alle mani e al corpo di Steinberg, mi accorgo che è proprio lì che mi piacerebbe entrare: aggirarmi nel labirinto dei suoi corridoi, incrociati e intrecciati l’uno con l’altro arrivare fino alla mente. E una volta lì non mi basterebbero pagine e pagine per annotare la quantità vertiginosa delle cose che vi si sono accumulate, trasformate nel passaggio attraverso lo specchio onnivoro e deformante dei suoi occhi.
Eccoci arrivati finalmente agli occhi.
Cosa fare? Fissarli, penetrarli, studiarli?
Anche lì sarebbe bello entrare e riuscire a usarli: vedere con quegli occhi. Assaporare il piacere dell’ubiquità che danno quegli occhi: ora davanti all’immensità di un panorama, ora nel dettaglio di una mappa, ora nello sguardo di un falco volteggiante nel cielo. Mentre ci sporgiamo dalla finestra di un grattacielo e guardiamo ciò che il grattacielo sta vedendo da quell’altezza, ne siamo nello stesso momento ai piedi, o seduti su una poltrona barocca che è parte di un disegno che sta appena nascendo.
Il senso di ubiquità non lo possiedo per natura e personalmente non soffro di vertigini, ma queste due sensazioni le ho avute davanti a un disegno secondo me straordinario di Steinberg, fatto per una copertina del "New Yorker" nel 1994:
Proviamo ad entrare in quest’angolo di stanza: la prima cosa che ci viene incontro è una sedia – che più tardi potrebbe servirci.
Se poi ci avviciniamo ad una delle due finestre, per esempio quella di sinistra, appena ci sporgiamo veniamo risucchiati da un gorgo vertiginoso. Seguiamo gli occhi di Steinberg come fossero i nostri occhi, quasi attratti da una corrente. Dal vano della finestra siamo scesi in strada e guardiamo da sotto il grande palazzo a destra, che sembra leggermente levitare, con i pedoni incollati al marciapiede per non perdere l’equilibrio. Subito dopo ci giriamo, avviandoci verso il primo incrocio, forse per attraversarlo.
Nel frattempo qualcosa di simile è avvenuto nella finestra di destra. Gli occhi sono scesi davanti al negozio di libri e ne osservano da sotto in su, impressionanti, l’enorme facciata, spostandosi nello stesso tempo sugli altri palazzi – anche questi lievemente sospesi.
Le auto, tetragone e ignare delle nuove inclinazioni prospettiche, non hanno mai smesso di circolare, schiacciate dal punto di vista che, immobile, continua a venire dalle finestre.
Finito il disegno Steinberg non smette di giocare e incolla sul davanzale della finestra di destra un rettangolino di carta su cui ha disegnato un gatto. L’animale più caratterialmente disinteressato alle nostre congetture. È lui l’osservatore.
Non toccato dalle vertigini guarda sotto di sé, dandoci incurante le spalle. E se a quel punto ci sedessimo sulla sedia che abbiamo trovato all’inizio e aspettassimo che il gatto annoiato si voltasse, scopriremmo che ha la faccia di Steinberg.
Questo testo è stato scritto in occasione della mostra di Tullio Pericoli, Saul Steinberg, Andrea Ventura e Paolo Ventura, Omaggio Milanese a Saul Steinberg, presso la Galleria Anna Maria Consadori, via Brera, 2 – Milano. La Mostra resterà aperta fino al 23 dicembre. Orari: da martedì al sabato dalle ore 10 alle 13 dalle 15 alle 18; la domenica dalle 15 alle 19.