Gli ultimi giorni di Roger Federer

8 Agosto 2023

Quello che possiamo sperare è che l’ultimo libro di Geoff Dyer non sia il suo addio alla scrittura. Non perché Gli ultimi giorni di Roger Federer e altri finali illustri (Il Saggiatore, 2023) sembrerebbe annunciare la fine della sua carriera, visto il tema crepuscolare, non che ci sia piaciuto tanto, anzi, ma perché delude. Riflessione personale sull’età matura della vita artistica, diventa per lo scrittore inglese l’occasione di chiedersi cosa ne sarà del suo talento nell’ultima parte della sua esistenza. E qui Dyer — nato nel 1958 — sembra soprattutto mettere le mani avanti: non farò più nulla di buono, non aspettatevi più niente da me. Postura che si potrebbe definire una civetteria inutile per un autore eccezionale, considerato da Zadie Smith perfino un «tesoro nazionale». Ma lo si perdona, riconoscendo qui l’ironia di un autore che non si è mai preso troppo sul serio. Ne testimonia la scadenza datasi da Dyer stesso per la stesura del libro, al quale lavorava da tanto, cioè il ritiro del tennista Roger Federer:

«Mi sembrava importante che un libro che attingeva alla mia esperienza personale dei cambiamenti portati dall’invecchiamento venisse completato prima del ritiro di Roger, nel lungo crepuscolo della sua carriera. Anche se non avevo idea di dove, quando o come sarebbero andate a finire le cose, era giunto il momento per me di mettermi a lavorare a un libro che ha finito per essere scritto mentre la vita così come la conoscevamo stava finendo.»

Come potevano aspettarcelo, il libro esplora con tanti esempi illustri le proprie paure da scrittore affermato: ripetersi, diventare un Bartleby, perdere lucidità o padronanza del linguaggio, e inevitabilmente confrontarsi con lo spettro dell’Alzheimer. Ritroviamo qui il marchio di fabbrica di Dyer, una sapiente miscela di autobiografia, commento di opere e meditazioni esistenziali. Ma questa volta la segreta emulsione che sta alla base del saggio narrativo o del personal essay non avviene. E il libro si potrebbe soprattutto intitolare L’ultimo libro di Geoff Dyer e di altre noie del saggio narrativo. Dal momento che cita — spesso e a lungo — Theodor W. Adorno, mi permetto anch’io di farlo per ricordare alcune affermazioni di Note per la letteratura. È vero che il saggio come genere è fondato su un discorso disinvolto, disordinato, senza metodo, anzi è spesso quello che gli dà il suo sapore così particolare, quel senso di libertà sia nel tono che nella forma. Tuttavia qui diventa un’accozzaglia di tutte le figure della negatività e della fine legate ad arte, letteratura e sport, perché il libro non sembra mai trovare il suo baricentro tematico e esplorarlo a fondo con un filo rosso personale come dagli altri pubblicati da Mondadori come Yoga per gente che proprio non ne vuole sapere (2003) o dal Saggiatore, da Sabbie bianche (2017), Il colore della memoria (2017), Zona (2018) e L’infinito istante (2022).

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Intanto bisogna chiarire che non è un libro su Roger Federer, nemmeno sul suo ritiro, su cui si potranno leggere pagine solo nella terza parte, ovvero quando siamo già stremati da un catalogo piuttosto eclettico di finali, seguendo una casistica ben nota, con una selezione di aneddoti al limite del déjà-vu — la sordità di Beethoven, l’abbraccio al cavallo di Nietzsche, l’autoplagio di De Chirico. Tanta e troppa erudizione offre al lettore un’infinità di microracconti su figure che risulta impossibile mettere a fuoco, almeno per chi non è un’enciclopedia su due piedi. Pagine e pagine di riferimenti a date, eventi, quadri, concerti, fino al capogiro. Forse bisognerebbe leggerlo come un diario e taccuino di appunti o meglio un collage di recensioni, che spazia dal quadro L’ultimo bisonte di Albert Bierstadt al romanzo Sportswriter di Richard Ford.
Dov’è finito lo stile witty dello scrittore inglese, la sua inconfondibile prosa-commento piena di umorismo e di intelligenza? Dyer, nei precedenti libri assumeva una voce personale che trasmetteva i suoi pensieri direttamente al lettore, senza la necessità di rincorrere a figure sapienti.

Invece qui si moltiplicano i paragrafi fatti solo di citazioni, sicché spesso sembra di leggere un articolo universitario più che un testo letterario. Mentre il suo punto forte, cioè il senso della formula, lo delega ad altri, come per esempio quando parla della voce di Bob Dylan, monumento definito da David Bowie «un suono di sabbia e colla». È sintomatico di un libro in cui dilagano le citazioni dentro le citazioni, un gioco di matrioske dove non c’è l’equilibrio trovato per esempio da Enrique Vila-Matas con Bartleby e compagnia.
Ma fortunatamente, non si può del tutto cancellare il proprio talento, nemmeno in vecchiaia. Le pagine migliori si leggono quando riaffiora il Dyer di Sabbie Bianche, che unisce capacità verbale e spietata lucidità, per esempio sugli esordi letterari: «Lo scopo del secondo libro di uno scrittore da un libro solo è quello di confermare che è tutto finito». Ma i momenti più imbarazzanti del libro sono quando Dyer si compiace nella postura anti-intellettuale, facendo un elenco delle sue letture semi-compiute, congratulandosi di non essere mai riuscito a leggere la Recherche o i Fratelli Karamazov. Si perde il tema, non si sa più se stiamo ascoltando un autore o un habitué di qualche bar: Proust è lungo, la vita è breve, è accettabile lasciarlo perdere, andiamo invece a guardare Wimbledon.


Rimangono tuttavia un paio di cose che ne fanno un libro che vale la pena leggere. Primo, la presenza tematica dello sport, dove partite e carriere sportive vengono raccontate con pari dignità di altre storie culturali. Dimostra, se ce n’era ancora bisogno, che lo sport si afferma irrimediabilmente come oggetto letterario dei nostri tempi — ricordiamo un paio di altri testi, come La malinconia di Zidane di Jean-Philippe Toussaint, Federer non è mai esistito di Emanuele Atturo, oppure Correre di Jean Echenoz. Ovviamente è una materia che si presta facilmente a discorsi metafisici o a una metaforizzazione dell’esistenza, ma Dyer non è banale e riesce lì a trovare il migliore equilibro tra narrazione e commento. Secondo, eccelle nel raccontare il nostro gusto per la negatività, — ricordando qui Emmanuel Carrère, che senza sorpresa lo ammira molto — e quindi «la nostra fame di ultime cose». E quando va a fondo a certi nostri inconfessabili pensieri, la sua scrittura ibrida dimostra di essere un coltello delicatamente affilato per dissezionare la mente umana. Per esempio:

«Durante qualsiasi reading di poesia, per quanto godibile, le parole che più aspettiamo di sentire sono sempre: «Adesso leggerò altre due poesie». (Le parole che vorremmo veramente sentire sono «adesso leggerò un’altra poesia», ma due sembrano il minimo imposto dalle usanze). (….) Il che fa sorgere una domanda: perché siamo venuti qui, se mentre siamo qui non vediamo l’ora di essere altrove? Forse il nostro desiderio più profondo è che tutto finisca?»

In quei momenti si misura tutto il talento di uno scrittore che come pochi ha saputo ridare vitalità a una scrittura saggistica-narrativa ispirata da Montaigne. E quindi, anche di fronte a quello che non è il migliore dei suoi tanti e eccezionali libri, mentre si prova onestamente un po’ di sollievo a finirlo, non manca tuttavia la voglia che possa di nuovo tornare, un giorno, il grande Dyer in libreria per qualche bis.

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