Vitaliano Trevisan: ciò che è nascosto si rivela

7 Gennaio 2024

«Il mio è un gesto volontario». Due anni fa l’improvvisa scomparsa di Vitaliano Trevisan (1960-2022) provocò lo stupore della comunità dei suoi lettori e ammiratori. Ma ci invitò anche a leggere con una luce nuova le profonde riflessioni sulla morte e sul suicidio che costellano i suoi vari libri — e non solo Works, che ha suscitato in particolare l’interesse della critica negli ultimi anni. Si è spesso parlato di Trevisan come di scrittore «della realtà», autore di una letteratura sociologica, quella del Nord-Est e del suo proletariato. Ma ora che ci ha lasciato, con un gesto così profondo e enigmatico come quello di disporre della propria morte, risulta più essenziale che mai indugiare per un attimo all’ascolto della sua voce più intima e meditativa. Ricordiamo la citazione messa in esergo di Il Ponte:

«Quando se ne offre l’occasione favorevole, ciò che è nascosto si rivela. S.K.»

Il telegrafico «SK» nasconde la figura di Søren Kierkegaard con il quale Trevisan dialogava costantemente nelle sue prime opere. Trevisan era anche un grande lettore di filosofia, e in particolare di pensatori come Schopenhauer, Kierkegaard e Cioran, noti sia per il loro pessimismo che per una scrittura che lascia molto spazio al saggismo, cioè alle riflessioni brevi e personali sul senso dell’esistenza. Di fatto, Trevisan definiva i suoi libri come «non-romanzi», in particolare Un mondo meraviglioso: uno standard, I quindicimila passi: un resoconto e Il ponte: un crollo, se non addirittura saggi, iscrivendosi in una lunga tradizione in cui il tema della morte è oggetto centrale di riflessione (Cfr. V. Trevisan, Works, Einaudi, 2016, p. 422-423 e Tristissimi giardini, Laterza, 2010, p. 127).

Tuttavia la morte e il suicidio non erano per lui solo oggetti teorici di un’ampia letteratura (ricordiamo che nei Quindicimila passi, il narratore dichiara che è grazie ai libri, tutti poi citati nella bibliografia finale, che ha potuto tracciare il percorso di suo fratello sparito, che crede suicidato), erano anche il motore narrativo dei suoi «non romanzi». La citazione più in alto è tratta dal testo «Silhouettes» dove il filosofo danese si chiede come l’arte può rappresentare la «pena riflessiva», ossia la sofferenza accompagnata dall’ossessione continua del proprio dolore, il rimuginare senza orizzonte, nessuna pace per l’anima.

Trevisan aveva ripreso l’idea di Kierkegaard che il «perpertuum mobile» della pena riflessiva va rappresentato con un’arte del tempo, la sola adatta a rappresentare ciò che è mobile, come insegna il Laokoon di Lessing. Anche in questo senso va letto il tema del camminare ossessivo ne I quindicimila passi, atto di salvezza per Thomas, cioè come una possibilità di iscrivere nello spazio e nella temporalità della frase una costante presa di distanza dal dolore esistenziale.
La «pena riflessiva» è una caratteristica essenziale del protagonista di questi «non-romanzi». Afflitto da una malattia mentale che assomiglia a un disturbo di tipo bipolare, con accessi maniaco-depressivi e schizofrenici, Thomas coltiva pensieri ossessivi che oscillano tra due poli diversi ma complementari: il suicidio e la scomparsa. Due scelte alternative, considerate entrambe come possibili vie di fuga da una esistenza soffocante e insopportabile. In effetti, il personaggio di Trevisan considera il suicidio come una possibilità, un agency paragonabile a quella della fuga verso altri orizzonti. 

Sempre! In tutti questi anni, pensavo indossando il giubbotto di cuoio ungherese, l’idea del suicidio è sempre stata con me, come si suol dire sempre un passo dietro di me. E insieme all’idea del suicidio anche l’idea di scomparire è sempre stata un passo dietro di me, se non addirittura di fianco a me. (I quindicimila passi: un resoconto, p. 16)

In questo senso, il suicidio non viene rappresentato come un atto reale bensì come un’ipotesi, una via d’uscita sempre aperta. Tuttavia, nonostante sia un tema costante delle deliberazioni di Thomas, paradossalmente in I Quindicimila passi non avviene mai, al contrario del successivo Il Ponte, rimanendo così allo stato di congettura e riflessione, a volte di previsione. I preparativi non conducono a nessuna messa in atto:

n

Ma se sono ancora qui, pensavo camminando, vuol dire che in fondo non sono mai stato del tutto convinto dall'idea del suicidio. L'ho sempre tenuta là, pensandoci e ripensandoci di continuo, pensavo, ogni momento e di continuo, ma non me ne sono mai convinto del tutto. (ivi, p. 36)

Qui ritroviamo un pensiero caro a un altro autore prediletto da Trevisan, Emil Cioran — la cui figura si trova nella bibliografia dei Quindicimila passi. «Sono solo per l’idea del suicidio» scrisse Cioran, proprio come risposta alla disperazione, aggiungendo: «Non disperatevi, potete uccidervi quando volete» (Entretiens, Gallimard, 1995, p. 95). Le riflessioni del pensatore rumeno girano in effetti attorno al suicidio come idea, e non come atto. Il pensiero del suicidio, considerato come un’opzione sempre possibile, a portata di mano, serve ad alleggerire un inconsolabile sconforto. Ritroviamo numerose volte quest’idea nelle parole di Thomas, per esempio quando dichiara: «tenevo dentro l'idea del suicidio, come una specie di riserva, un pensiero in cui, nei momenti più bui, trovavo un po' di conforto» (Il ponte: un crollo, p. 93). 

La tentazione della fuga era forte anche in Trevisan, come testimoniano i suoi progetti di ricominciare tutto in Nigeria (come narrato in Black Tulips, Einaudi, 2022), o l’idea di trasferirsi in Germania o in Olanda. Fuga o suicidio rimangono quindi soluzioni che liberano dalla condizione «coatta», come quella in cui era finito qualche settimana prima di togliersi la vita, come raccontò nella sua lunga testimonianza su Repubblica il 5 novembre 2021, ovvero l’A.S.O, da lui definita un «arresto sanitario». Spesso nell’opera di Trevisan troviamo una radicale e fornita critica sociologica. Ad esprimere questa che con Yi-fu Tuan, (Landscapes of Fear, Pantheon Books, New York, 1979) possiamo chiamare «topofobia» ossessiva è sempre una deprecatio temporum che si concentra spesso sulla nazione — e non si contano più le occorrenze di espressioni dispregiative verso l’Italia, «questo stato di merda», «questo paese di merda» (per es. in I quindicimila passi: un resoconto, p. 18). Non poteva quindi mancare anche nella sua citata ultima testimonianza a proposito del suo recente ricovero. 

Questi chiarimenti forse offrono qualche elemento in più per leggere le parole del biglietto d’addio ritrovato dai carabinieri all’interno della sua casa — in cui spiega: «sono stanco e non ne posso più», ma «nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla». Eppure non spiegano niente. Perché, per dirla ancora una volta con Kierkegaard la morte non si spiega. Nel testo Accanto a una tomba (Il Nuovo Melangolo, 1999, p. 77), il cui titolo viene ripreso tale e quale da Trevisan per un suo racconto (“Accanto a una tomba”, in Standards, vol. 1, Sironi, 2002) — dimostrazione ulteriore della sua vicinanza letteraria — il filosofo danese scrive, «l’inspiegabilità non è un invito a risolvere enigmi, non è un invito ad essere arguti, bensì un ammonimento della morte al vivente: ‘Io non ho bisogno di spiegazioni, (…) pensa solo che con questa decisione tutto è finito’».

Rimane il fatto che il gesto di Trevisan fa ancora una volta pensare inevitabilmente a Thomas, il quale lascia dietro di sé, dopo la sua fuga in Brasile o dopo il suo suicidio, nei Quindicimila passi e nel Ponte, una lettera che in realtà è l’intero testo che leggiamo. In entrambi i libri, la conclusione consente o costringe a rileggere tutta la narrazione a ritroso, la quale era cominciata con un bernhardiano «scrive Thomas». E a rileggerli oggi, salta agli occhi che una forma letteraria prediletta da Trevisan, in almeno due suoi libri più importanti, è stata proprio questa: un lungo biglietto lasciato sul tavolo.

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