Gustavo Rol è più vivo che mai

8 Giugno 2024

14 agosto 2022. Qualcuno mi dice che è morto Piero Angela, e tra i primi pensieri che formulo (magari non il primissimo, ma il secondo o il terzo di sicuro) c’è questo: se esiste un aldilà – improbabile, ma non impossibile – di sicuro adesso se la sta vedendo con Gustavo Rol. Non è humour nero né vuole esserlo. Ho letto molto di Angela, quasi tutto su Rol e ho sempre ammirato in uguale misura il rigore del primo e il talento istrionico del secondo. Ripensando alla polemica che li aveva divisi, sullo sfondo di un’Italia paralizzata dal sequestro e dalla morte di Aldo Moro, l’unica impressione che conservo è di di amarezza.

A metà anni Settanta Rol era considerato poco meno che un fenomeno vivente, ma si esibiva in casa sua, invitava (giustamente) chi voleva e che non gradisse scienziati e sperimentatori – nemmeno quelli più aperti all’ipotesi paranormale – era notorio. E, tuttavia, per Angela aveva fatto un’eccezione: come l’aveva fatta lo stesso Angela, che nella sua inchiesta sul paranormale del 1978 aveva, sì, demistificato gli “esperimenti” di Rol, ma l’aveva fatto in sordina, in margine a un capitolo altrimenti dedicato all’olandese Gerard Croiset, e chiudendo con una nota di rispetto che non avrebbe mai più dimostrato nei confronti di alcun altro sensitivo. “Rol”, aveva scritto Angela, “fa parte di un’antica e garbata tradizione torinese, che dispiace perdere. Avevo persino pensato di stendere un velo di cortese silenzio sulla vicenda. Ma sarebbe stato onesto?”.

Era solo l’istintivo attaccamento a una borghese, torinesissima urbanità d’antan che aveva momentaneamente avvicinato lo scettico e l’Incantatore? Fino a un certo punto. Certo, le famiglie si conoscevano, e l’omogeneità di ceto può aver avuto un suo ruolo. Ma a me pare eloquente soprattutto un fatto: quando uscì il libro di Angela, Viaggio nel mondo del paranormale, Rol ci rimase male. E non tanto perché, come avrebbe dichiarato ad “Astra” nel 1987, si era sentito raggirato (impossibile non sapesse con chi aveva a che fare), ma perché – sospetto – pur avendo assistito a “esperimenti” per cui altri avevano gridato al prodigio, Angela non ne era rimasto minimamente impressionato. Come Sherlock Holmes e il professor Moriarty, anche Angela e Rol avevano ingaggiato una silenziosa partita di intelletti; come Holmes e Moriarty, anche nel loro caso ciascuno dei due doveva aver sperato, più o meno consapevolmente, di sedurre l’altro. A leggere la cronaca di Angela, quella sera Rol aveva tirato fuori il meglio del suo repertorio: trasmutazione di carte da gioco, dipinti “medianici” che si materializzano dal nulla (nell’estate del 1965, davanti a uno spettacolo del genere, Dino Buzzati aveva tirato fuori uno dei suoi pezzi più intensi e perturbanti: Un pittore morto da 70 anni ha dipinto un paesaggio a Torino). Angela, invece, era rimasto freddo, impermeabile all’incanto come la famiglia di americani del Fantasma di Canterville: non c’era dubbio su chi avesse vinto quel silenzioso duello.

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Winning a battle, losing the war, come dicevano i Kings of Convenience. Perché, a trent’anni dalla morte, Rol è più vivo che mai. Non parlo tanto della bibliografia specialistica – biografie e memoriali degli habitué della sua casa di via Pellico, che da tempo hanno passato la doppia cifra, e nemmeno dell’impressionante scavo archivistico intrapreso dal suo lontano parente Franco Rol – ma della cultura più diffusa. Non era scontato, e non solo per il colpo che Piero Angela aveva inferto alla sua reputazione a fine anni Settanta. Nel 2004, a dieci anni dalla morte, i media avevano riservato a Rol un’attenzione complessivamente cursoria: nelle varie rievocazioni, la domanda che risuonava più spesso (ma mai come in una memorabile puntata di Porta a Porta, ospiti Silvan e Mariano Tomatis, culminata in un’interruzione delle trasmissioni troppo bella per non essere un trucco della regia) era sempre la stessa. Ma era vero?

Il ritorno di Rol di questi ultimi anni si preoccupa meno della verità storica, dismette allegramente questioni così triviali e trasforma Rol in un’icona, un personaggio di fiction che fa da sineddoche per un intero mondo perduto. Nel 2017 Rol, interpretato da Dario Cantarelli, appare in 1993, serie sul crollo della Prima Repubblica. Nel salotto di via Pellico, il sensitivo incanta e seduce, rivela a un personaggio qualcosa del suo destino e non si sa come abbia fatto: la regia non ce lo dice, non giudica, e le parole di Rol restano – perturbanti e oracolari – a risuonare nella mente di personaggi e spettatori. Nel 2019 esce L’ombra di Rol, giallo di Enzo Orlando ambientato in quel setting ormai iconico che è la “Torino magica”. Nel 2020 è Anselma Dell’Olio a dilungarsi su Rol nel documentario Fellini degli spiriti, primo capitolo di un’esplorazione dell’Italia più segreta e “lunare” che continua nel 2023 con Enigma Rol. E nel 2024, infine, esce L’ultimo mago di Francesca Diotallevi, già autrice di un’atipica ghost story (Le stanze buie, 2013, poi 2021), romanzo interamente dedicato a Rol e al fascino che seppe esercitare sull’Italia del boom economico.

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Neanche Diotallevi giudica. Sullo sfondo della Torino del 1960, Nino Giacosa – reduce di El Alamein, sceneggiatore in fuga tra Torino e Cinecittà, ossessionato dall’aver trovato e perduto “la donna giusta” come tanti protagonisti di Mario Soldati – si ritrova, prima suo malgrado e poi per scelta, catturato nel cerchio magico che gravita intorno all’appartamento di via Pellico. Nessuno dei prodigi cui assiste Nino è inventato: gli “esperimenti” che Rol realizza nel romanzo sono gli stessi che si trovano nei vari memoriali di Pitigrilli, Buzzati, Remo Lugli, Renzo Allegri, Maria Luisa Giordano, al massimo lievemente adattati per le esigenze narrative del caso. Ma Giacosa non è Piero Angela: anche lui, davanti all’inspiegabile, inizialmente pensa a un trucco, ma poi oscilla, e infine comprende (e lui con noi) che la questione è irrilevante. È vero? Non è vero? Chi se ne importa. In quelle stanze, osservando Rol manipolare – in apparenza? – il tempo, la materia, lo spazio, Nino ha compreso qualcosa: su sé stesso, sulla propria scrittura, sul suo posto nel mondo. La “magia” di Rol potrà non essere reale, ma quel che essa comunica non cessa purtuttavia d’essere vero.

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Da questo punto di vista, L’ultimo mago è pienamente un romanzo sul – e del – “reincanto”: un termine, a sua volta inversione del “disincanto” (Entzauberung) delle società moderne profetizzato da Max Weber nel 1917, reso popolare in Italia da un fortunato libro di Stefania Consigliere del 2021, ma in realtà in circolazione almeno da due decenni, da Bernard Stiegler (Réenchanter le monde, 2006) a Gordon Graham (The Re-enchantment of the World, 2007), Joshua Landy e Michael Saler (The Re-Enchantment of the World, 2009), James Elkins e David Morgan (Re-Enchantment, 2009) o, più di recente, a Silvia Federici (Re-Enchanting the World, 2018). In una società dagli aspetti sempre più “tecno-magici”, e nella quale la stessa nozione di una “realtà” stabile cessa di avere senso, chiedersi cosa davvero accadesse in via Pellico, e se i prodigi di Rol fossero emanazione dello “Spirito Intelligente” (come diceva lui) o di una “lestezza da soldato, da bracconiere” (come ebbe a dire Elémire Zolla), è solo una delle tante domande possibili, e neanche delle più interessanti: legittima quanto esaminare chimicamente i pigmenti di Vermeer, altrettanto inutile per comprendere la potenza e la grazia dell’Allegoria della pittura.

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In Italia, peraltro, l’idea del “reincanto” non può che possedere risonanze più profonde e specifiche. Perché a dispetto della narrazione tenace e pervasiva di un’Italia costitutivamente aliena al “magico”, all’irrazionale e allo “strano”, l’Italia è stata uno dei laboratori più fecondi di quel revival dell’occulto che fra anni Sessanta e Settanta attraversa l’intera industria culturale dell’Occidente, a partire dal seminale Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier (1960). Accostarsi alla cultura italiana di quegli anni somiglia – l’immagine è, ancora, di Buzzati – a scoperchiare un formicaio: maghi, sensitivi, esoteristi, avvistamenti UFO, sedute spiritiche, messe nere, tutto un immaginario su cui la memoria collettiva del presente sta imparando a ri-sintonizzarsi, riscoprendosene infestata. Come spesso avviene, è stata la scena musicale a cogliere per prima simili, affatto buone vibrazioni, attraverso una nebulosa di dischi e band che fra anni Zero e anni Dieci hanno fatto parlare del risorgere di un’Italian Occult Psychedelia. Ma il ritorno di quell’Italia occulta e lunare è ovunque: nelle elegantissime prove letterarie di autori come Matteo Trevisani e Simone Caltabellota, in recuperi editoriali raffinati e coraggiosi – di Stelio Mattioni, Giorgio De Maria, Giorgio Vigolo, Fausta Leoni fra gli altri – in una saggistica attenta alle intersezioni fra cultura e occultura come quella di Valerio Mattioli, nel revival di una serie di culto come Il Segno del Comando o in romanzi, da UFO 78 di Wu Ming ad, appunto, L’ultimo mago di Diotallevi, che riscoprono, trasformandoli in personaggi di fiction, protagonisti di quell’epoca come Peter Kolosimo e Gustavo Rol.

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Quell’epoca si sarebbe chiusa a fine anni Settanta, anche a causa di Piero Angela. A pochi mesi dalla messa in onda del suo reportage, notavano mesti i redattori di “Il Giornale dei Misteri”, gli italiani – lo rivelava un sondaggio – si erano riscoperti decisamente più scettici di quanto fossero appena poco tempo prima. Nel 1981, Massimo Inardi – un ricercatore del paranormale divenuto celebre grazie al Rischiatutto – avrebbe esplicitamente connesso l’inchiesta di Angela al “riflusso” della parapsicologia, sovrapponendo allo studio dell’occulto un termine ormai entrato nell’uso comune per riferirsi alla fine dei lunghi anni Settanta e al fallimento dei loro ideali. La scelta lessicale di Inardi era meno peregrina di quanto si potrebbe pensare. In fondo, anche l’Occult Revival era stato un modo di mettere “l’immaginazione al potere”; e chi – come Buzzati o Fellini – si era lasciato consapevolmente incantare da Rol, non aveva infine fatto altro che mettere in pratica l’invito del maggio francese, quello di essere realisti domandando l’impossibile. Da questo punto di vista, allora, il ritorno dell’Italia lunare non corrisponde solo al revival di un capitolo, magari opinabile ma pittoresco, del nostro passato prossimo: rappresenta invece la persistenza – fantasmatica e tuttavia potente – di quello che è forse il più folle, colorato e lisergico dei nostri futuri perduti.

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In copertina, Gustavo Rol interpretato da Dario Cantarelli, 1993 (2017).

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