I corpi risorti dell'estetica forense

24 Ottobre 2023

Quando Kant rispondeva alla questione Cosa significa orientarsi nel pensiero? le sue prime preoccupazioni erano state di ordine linguistico e sensibile. Orientarsi significa infatti letteralmente stabilire un Oriente, individuare cioè una delle quattro direzioni nelle quali suddividiamo lo spazio geografico. Prima di giungere a questo criterio, tuttavia, ci orientiamo a partire dalla distinzione dei lati del nostro corpo, dalla differenza che sentiamo fra una destra e una sinistra. Trovare un orientamento nella filosofia contemporanea non è altrettanto semplice, anche se un indizio può venire dall’attenzione rivolta proprio alla sensibilità, alla cultura materiale, al tema della mente estesa e a quello degli affetti, in un intreccio che interessa particolarmente il rapporto con l’antropologia, l’archeologia e le neuroscienze. Per essere storicamente la filosofia maggiormente legata al campo della sensibilità, l’estetica si trova di necessità a navigare in queste correnti. D’altra parte l’aumento delle variabili con cui deve fare i conti non facilita il suo orientamento, tanto più che non si tratta solo di confrontarsi con discipline diverse, ma di misurarsi con una cultura delle differenze sempre più specifica e sfrangiata, nella quale alle questioni identitarie e di genere si sommano suscettibilità culturali di ogni tipo, locali e globali, senza che si intraveda una possibile unificazione dei sistemi di riferimento.

Due libri recenti percorrono una strada diversa, per cui l’orientamento non dev’essere “trovato” ma “costruito”. Entrambi provengono dal laboratorio di idee e di pratiche che Eyal Weizman ha fondato nella scuola di architettura del Goldsmith College di Londra nel 2010: Forensic Architecture. Entrambi sono a doppia firma. Il primo è stato scritto insieme allo storico di letterature comparate americano Thomas Keenan, si intitola Il teschio di Mengele e risale, in realtà, al 2012, ma è stato tradotto in italiano nel 2023: su «Doppiozero» ne è apparsa una recensione di Alberto Mittone. Il secondo, Investigative Aesthetics. Conflicts and Commons in the Politics of Truth, è del 2021 e ha come co-autore il filosofo inglese Matthew Fuller, come Weizman docente al Goldsmith College (Verso, London-New York). Li si può considerare due esiti coerenti della riflessione avviata da Weizman sull’estetica forense, o investigativa, ma rappresentano anche il segno di come quella prospettiva sia stata sviluppata in sintonia con il proliferare delle differenze nell’orizzonte culturale e politico del globo. L’estetica forense è investigativa e non mira a fondare nuove universalità, ma a formare di volta in volta aggregazioni comunitarie che si ritrovano intorno all’emergenza di un evento reso visibile dalle sue tecniche di indagine e di ricostruzione. La sua ambizione è perciò politica, ma nel senso che Jean-Luc Godard dava a questa parola quando distingueva i film politici da quelli che si fanno politicamente. Ciò a cui si oppone sono le ideologie che pretendono di spacciare le immagini, a partire da quelle della cronaca, come surrogati di realtà nei quali credere: ideologie che abitano nelle stanze del potere, naturalmente, nelle strategie della propaganda, dell’informazione, ma anche in quelle del contropotere e della controinformazione, come dimostra il dilagare delle fake news generate “dal basso” dei social networks oltre che “dall’alto” delle agenzie di controllo e di governo. L’azione dell’estetica forense si basa perciò sulla confutabilità dei processi di produzione dell’immagine, dunque su un’esplicitazione dei procedimenti costruttivi che può esporsi alla loro decostruzione. Karl R. Popper ha parlato di un principio di falsificabilità, cioè appunto di confutazione, che distinguerebbe gli enunciati della scienza da quelli della metafisica. Per l’estetica forense lo stesso principio permette di separare l’ideologia da aesthetic commons, cioè da una nuova declinazione di quel che l’estetica classica di ispirazione kantiana definiva “senso comune”.

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Dopo avere riassunto queste dichiarazioni di base, è opportuno vedere più da vicino come queste si articolano nei due libri qui menzionati. Nel 1985, il processo che ha portato a identificare in uno scheletro riesumato in Brasile il corpo del medico nazista Josef Mengele, responsabile di atroci efferatezze nei campi di concentramento ma morto da uomo libero nella sua latitanza oltreoceano, ha vissuto di due fasi interdipendenti fra loro: l’esame scientifico dei resti umani disseppelliti e la produzione di immagini che mostrassero la correttezza dell’identificazione anche a un pubblico di non esperti, tanto nell’aula di un tribunale quanto sugli organi di informazione. Le immagini furono ottenute con un metodo sperimentale, una “miscelazione elettronica”, come venne chiamata allora, i cui passaggi vennero puntualmente ricostruiti davanti alla corte di giustizia. In mancanza di elementi certi, come la prova del DNA o campioni ematici, la scienza da sola non avrebbe avuto la stessa forza persuasiva. Per «far parlare le ossa» bisognava renderle eloquenti e niente meglio della parte più riconoscibile di un corpo umano, il volto, poteva servire a questo scopo. Per quanto surreali, con il ghigno del teschio che traspariva sotto le fotografie di Mengele, le immagini così miscelate sembravano rivelare una verità nascosta. Il risultato era inventivo e sorprendente. In termini artistici le si potrebbe considerare una sintesi fra la composizione incongrua dei materiali surrealisti, appunto, e le teorie espressioniste della “seconda vista”, quella che secondo Franz Marc penetra sotto la pelle delle cose e arrivare a mostrarne l’essenza misconosciuta.

Dala comparsa di un teschio e delle sue rielaborazioni fotografiche in un foro Keenan e Weizman hanno tratto alcune conseguenze. La prima è che quella doppia presenza dell’oggetto e della sua rielaborazione estetica ha portato a una trasformazione della cornice in cui veniva presentato, cioè a una ridefinizione del foro come tale: l’estetica forense e investigativa che Weizman e i suoi collaboratori praticano, oltre che teorizzare, mira proprio a «costruire costantemente nuovi fori — forme di assemblea in ambito politico, giuridico e professionale» che in parte nascono intorno alle domande da essa sollevate, in parte trasformano fori già esistenti, come avviene nel caso dei tribunali per i Diritti Internazionali quando sono chiamati a esaminare forme di documentazione inedite. La seconda è che dando voce e discorsività alle cose, attribuendo loro un diritto di testimonianza, nel recinto del senso veniva data cittadinanza anche a ciò che prima di allora non lo aveva ed era considerato non-senso, rumore, dunque alla generazione estetica di immagini che hanno portato a un «collasso della divisione fra oggetto e soggetto». L’estetica investigativa si pone lo stesso obiettivo trattando le immagini e le cose come dei quasi-soggetti, se non addirittura come dei «super-soggetti» i quali, se si è condiviso il processo decostruibile che li ha fatti apparire, diventano potenzialmente incapaci di mentire. Del resto che un nuovo foro, un nuovo campo di discussione giuridica si fosse aperto in occasione dell’esibizione del teschio di Mengele lo dimostra il fatto che nei mesi successivi la stessa metodologia di indagine fu messa al servizio di un caso dalle dimensioni ben più ampie: il riconoscimento delle identità dei desaparecidos in Argentina, dato che i giudici «avevano rifiutato di considerare condanne per omicidio a meno che i corpi delle vittime potessero essere prodotti davanti alla corte e identificati». Contrariamente a quanto si dice, scrivono Keenan e Weizman riecheggiando parole di Bruno Latour, i fatti non parlano da soli, occorre dare loro un linguaggio, ma per far questo bisogna che ogni parte della lingua delle cose sia verificabile, altrimenti si ricade nell’ideologia al suo grado zero: alla distinzione fra la buona e la cattiva estetica, fra la manipolazione delle immagini onesta o disonesta, infine alle contrapposizioni fra il bene e il male, l’amico e il nemico.

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Prendiamo il caso dell’installazione che il gruppo di Forensic Architecture ha esposto alla Biennale di Venezia nel 2016, trasformando lo spazio del museo in un nuovo foro per l’aggregazione di un’assemblea comunitaria. I casi esaminati riguardavano un bombardamento effettuato con droni a Miranshah, in Pakistan, un attacco israeliano sulla Striscia di Gaza, in particolare sulla cittadina di Rafah, al confine con l’Egitto, e l’affondamento di una barca di migranti nel Mediterraneo. Il lavoro dell’architettura forense è estetico anche nel senso della produzione di immagini terribilmente drammatiche ma che guadagnano una lacerante, dolorosa bellezza proprio per l’ossessività che guida la loro costruzione, per la minuzia persino esagerata dei dettagli che mirano a ristabilire precise catene di responsabilità. Da un filmato televisivo, per esempio, si ha un’inquadratura di una casa squarciata da una bomba sulle cui pareti si riconoscono tracce di schegge. La modellazione in 3D di una singola stanza permette di dare a ogni scheggia la sua posizione e di individuare sia il punto in cui è avvenuta l’esplosione, sia una parte di muro rimasta intatta. Dalla proiezione geometrica di quest’ultima si ricava la forma di una sagoma umana corrispondente al corpo che ha intercettato le schegge e di qui si definiscono il momento e la causa della sua morte, l’ordigno che lo ha ucciso, persino il velivolo che l’ha sganciato attraverso un’analisi comparata del rumore delle esplosioni e delle forme delle nuvole di fumo e polvere da esse prodotte bombardamento dopo bombardamento. Il risultato è una denuncia verificabile in ognuno dei suoi passaggi e che, mettendo a confronto media e discipline diverse, cerca di fondare un terreno di intesa nel quale all’immagine finale si dà credito solo perché si è assistito a tutto il processo della sua costruzione. 

Le immagini dell’estetica investigativa e forense possono essere perciò persuasive se condividono i loro metodi generativi e se alla fine appaiono iperrealistiche, o meglio se mobilitano un esercizio dell’immaginazione che fa riconoscere in esse l’espressione di una realtà nascosta e tuttavia più vera del vero. La costruzione di quelle immagini, inoltre, deve possedere una minuziosità e una precisione che sia all’altezza delle competenze scientifiche e informatiche coinvolte. Ogni dettaglio è rilevante, anche quello apparentemente inutile o ridondante, la puntigliosità estetica dev’essere spinta fino all’estremo dell’ossessione. Inoltre il fatto di dover incrociare diverse fonti, diverse competenze per analizzarle e diverse tecnologie per costruire nuove configurazioni visive stabilisce un’ulteriore qualità dell’estetica forense: le loro costruzioni sono per loro natura interdisciplinari e intermediali. Si può accostare a questo tipo di estetica quello che Michel Foucault diceva della storia genealogica quando la descriveva come una disciplina «grigia, meticolosa, paziente, documentaria», che lavora su dati ingarbugliati, spesso riscritti, che va a caccia di «lotte, rapine, simulazioni, astuzie» e lo fa con «cautela» per «reperire la singolarità degli avvenimenti al di fuori di ogni finalità monotona, spiarli dove meno li si aspetta», trovare le sue verità e dargli forma eloquente «in modo severo». 

Il cumulo di immagini che consumiamo ogni giorno non aumenta necessariamente la visibilità del mondo, tende anzi a rendercelo indifferente, indistinguibile dai simulacri che lo raffigurano. L’estetica forense e investigativa vuole restituire forza testimoniale alle immagini rivitalizzando strati dell’esperienza sensibile esposti, altrimenti, alla deriva dell’anestetizzazione. Se i dispositivi tecnici che usiamo abitualmente canalizzano infatti la nostra sensibilità in formule standardizzate, l’obiettivo contrario è quello di renderli utili per una «iperestetizzazione», cioè per un’amplificazione e una «ricomposizione del sentire che comprende anche la creazione di nuovi dispositivi – astratti e concreti — per la produzione di un terreno sensoriale espanso e vario». In Investigative Aesthetics Fuller e Weizman chiamano «iperestetica» la condizione positiva di un’«allerta» tanto del sentire quanto del produrre senso, mettono cioè in gioco la formazione di un nuovo “senso comune” che nasce dalla condivisione dei processi, più che da quella dei risultati. Di qui il concetto di aesthetic commons, l’esito più produttivo che la riflessione sull’estetica forense e investigativa abbia proposto. Quel che si definisce asthetic commons emergd infatti da differenti livelli di partecipazione, elaborazione e socializzazione delle prove, da un intreccio di contenuti di esperienza diretta e mediatica che si sviluppa in una serie di stadi: la scelta del caso o del campo da indagare, il laboratorio in cui l’inchiesta viene svolta, lo studio che crea la rappresentazione, il foro in cui questa viene esposta. Un lavoro collettivo di analisi, composizione e invenzione produce o trova nuovi luoghi e nuove piattaforme «nelle quali le articolazioni delle rivendicazioni politiche possono essere viste e ascoltate». Il “senso comune” che fa da sfondo all’aesthetic commons non è, perciò, qualcosa di dato, che possa risalire alle dotazioni sensibili della natura umana, ma è una modalità della creazione, «è lo sviluppo in divenire di una comunanza che si costruisce con la produzione di conoscenza» e che è aperto a una continua «reinvenzione».

Le comunità aggregate dall’estetica forense non sono dunque stabilite in partenza. Trasformando un singolo evento in un caso da investigare nei dettagli si prefigura la costituzione di nuove relazioni sociali, offrendo la prova non solo o non tanto degli oggetti della sua ricerca, quanto piuttosto delle condivisioni possibili. Se il concetto di ciò che è “universale”, scrivono Fuller e Weizman, porta con sé il senso dell’omologazione e di ciò che è valido “per tutti”, con un’implicita assunzione della spinta coloniale storicamente avuta dal pensiero europeo e occidentale, l’aesthetic commons è intessuto di differenze, di partecipanti, di prospettive diverse che si confrontano sperimentalmente e che “condividono” lo spazio di un caso, di un evento traumatico, di una violenza, di un’immagine processualmente esposta alla confutazione, senza essere per questo “unificate”.

Probabilmente è quanto di più vicino al pensiero utopico di quanto sia stato possibile leggere o veder emergere in questo primo scorcio del xxi secolo. D’altra parte è un modo di intendere l’estetica così aderente al corso della storia attuale, così aperto alla sensibilità culturale per il valore delle differenze, e al tempo stesso così pragmatico, anzi materialista, che non lo si può archiviare come un episodio marginale, specialistico, le cui conseguenze sarebbero limitate a un singolo campo di azione o di ricerca. Forse la parola “foro”, intesa nel suo senso più ampio, e non dimenticando la sua accezione dimostrativa e militante, è oggi più feconda del riferimento alla tradizionale e in fondo neutrale categoria della dimensione pubblica. Forse l’aggancio con l’estetica forense è oggi uno dei modi più efficaci per restituire all’estetica come tale una funzione politica e alle immagini una forza testimoniale, generatrice di comunità composite. 

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