Libertà, memoria e meccanica quantistica / I dadi di Devs
Quest’articolo contiene spoiler.
Nel padiglione delle Filippine alla Biennale di Venezia 2019 c’erano tre isole. Nelle isole – di acciaio e vetro – c’erano degli specchi. Negli specchi, mappe, ossa, piante, orologi. Nelle isole, negli specchi, negli oggetti c’era sandaigdigan, un unico mondo. Questa concezione del reale associa entità semplici (le mappe, gli orologi) a sistemi più complessi (la rappresentazione dello spazio, lo scorrere del tempo), intrecciando una connessione così intima e fattuale che permette l’emersione del particolare nel generale e viceversa. Un unico mondo in cui è tenuta assieme l’osservazione generale del cielo per prevedere dove toccherà terra il prossimo uragano e la storia particolare di quell’osservatore – sandaigdigan. Perché, come dice lo stesso autore Mark Justiniani, “[questo] può essere una forma di divinazione: non del tempo atmosferico, ma della condizione del mondo e della nostra umanità”. E se dalle coste di queste isole ci spostassimo di qualche grado, e allo spicchio dell’orizzonte scrutato dal popolo filippino aggiungessimo altre terre, altri uragani, altri osservatori? Quanti sandaigdigan riusciremmo a tenere insieme e divinare? Quanti sandaigdigan dentro altri sandaigdigan?
È quello che Forest (Nick Offerman) ha fatto in Devs. Fondatore e CEO della big tech Amaya, assieme al suo gruppo di ricerca in cui spiccano l’estraniata Katie (Alison Pill), il canuto Stewart (Stephen McKinley Henderson) e l’inerte Lyndon (Cailee Spaeny), ha realizzato un super-computer quantistico capace di mappare la realtà fino alle singole particelle che la compongo a livello subatomico. Devs, questo il nome della macchina, ha così calcolato il preciso stato dell’intero universo, e avendo una proiezione del genere si può risalire avanti e indietro nel tempo per conoscerne tutti gli stati passati e futuri, per guardare quello che è già successo e prevedere quello che ancora dovrà essere – Devs è l’uragano che tocca terra e l’osservatore sulla spiaggia, è tutti gli uragani e gli tutti osservatori passati e futuri, è sandaigdigan. Sergei (Karl Glusman), impiegato di Amaya, riesce a entrare a far parte del progetto Devs, ma quando viene ritrovato suicida nel campus dell’azienda, la sua ragazza e collega Lily (Sonoya Mizuno) si mette sulle tracce di quella pensa possa essere una cospirazione più grande. Ma si può agire, incidere, semplicemente pensare se ogni cosa è già predeterminata, se ogni cosa è già prevista?
C’è tutto l’universo di Alex Garland, qui. Produttore, sceneggiatore e regista degli otto episodi di Devs, Garland sbarca per la prima volta in tv preservando i tratti distintivi della sua poetica/estetica, anzi, sfruttando il mezzo non soltanto per una mera crescita esponenziale di minutaggio ma edificando un mondo narrativo che episodio dopo episodio si schiude rivelando sempre nuove direzioni e livelli. Con un esordio televisivo arrivato nel 2020, e quello cinematografico nel 2014, Garland è suo malgrado al centro di una narrazione pubblica che lo vede raggiungere tardi film e serie tv. Ma se si guarda meglio si scopre che lo scrittore-sceneggiatore-regista è sempre stato al posto giusto nel momento giusto: del 1996 è il fondamentale The Beach, uno degli ultimi, grandi, romanzi generazionali e incredibile successo commerciale che gli fa conoscere Danny Boyle; il 2002 è l’anno di 28 giorni dopo, dove firma lo script di quello che forse è uno dei primi horror del nuovo millennio; nel 2010, assieme a Tameem Antoniades, è autore del videogioco Enslaved: Odyssey to the West, audace collaborazione tra scrittura filmica e videoludica.
Come ha dichiarato lui stesso, “penso che sia come fare surf. C'è un punto dell'onda che puoi colpire, e se arrivi troppo presto o troppo tardi non funziona”. E questo lo si vede soprattutto nelle scelte narrative compiute da Garland, che minuziosamente costruisce le sue trame partendo da nuclei tematici forti, riconoscibili e al centro dei più importanti dibattiti pubblici della contemporaneità, come la clonazione di Non lasciarmi (2010), l’intelligenza artificiale di Ex Machina (2014) o i computer quantistici di Devs. E per il suo esordio televisivo ha fatto tutto come al solito e tutto come si deve, circondandosi dei suoi abituali collaboratori (Rob Hardy alla fotografia, Geoff Barrow dei Portishead e Ben Salisbury alla colonna sonora) e mettendo su un comparto attoriale tra i più assortiti e funzionali, fatto di star televisive e cinematografiche, semi-esordienti, veterani del teatro. Ma forse la sicurezza maggiore è stata l’avere dietro di sé il suo solito produttore Andrew Mcdonald con la DNA Films, capaci di piazzare un titolo come Devs presso una delle più importanti e ricettive pay tv americane, FX. Gli executive della rete, gestita ormai da oltre quindici anni da John Landgraf, appena letto lo script di Garland non soltanto hanno ordinato direttamente l’intera serie ma addirittura ne hanno fatto il primo prodotto originale ad arrivare su “FX on Hulu”, sinergia lanciata a marzo tra la pay tv e lo streaming service per posizionare online la rete di Landgraf e allo stesso tempo ampliare la library esclusiva di Hulu (le due compagnie sono entrambe di proprietà dell’onnipresente Disney, che così mira a completare un catalogo digitale uno e trino con i contenuti adulti e maturi di Hulu, lo sport di ESPN+ e l’offerta per bambini e famiglie di Disney+).
Così Garland ha scelto il suo nuovo MacGuffin – i computer quantistici – e ha iniziato a impilarci sopra e sotto tutti gli strati che abitualmente gli occorrono per raccontare le proprie storie. Partendo dal livello primario, cioè lo “spazio”. L’autore inglese, infatti, ha sempre fatto coincidere la vicenda narrata con un preciso setting ambientale, dentro il quale l’agire dei protagonisti e l’evolversi della narrazione non si trovano solo immersi ma ne vengono irrimediabilmente piegati, definiti di senso. In Sunshine (2007) l’astronave che punta verso il sole e ha le paratie completamente offuscate, in Dredd (2012) il grattacielo di Mega City One dove i due giudici sono intrappolati in una missione suicida – e poi le abitazioni-prigioni di Non lasciarmi ed Ex Machina, il Bagliore di Annihilation (2018), perché no? l’intera Inghilterra di 28 giorni dopo, dove la quarantena dell’isola preserva il resto del mondo dall’epidemia ma praticamente condanna alla morte un’intera società.
Per Devs il terreno di scontro e risoluzione è costruito a gradienti sempre più ridotti, partendo da una San Francisco tentacolare, mostrata solo attraverso amplissime panoramiche aeree o da riprese a livello della strada, circondata dalla nebbia, sinistramente accostata a una qualunque, anonima megalopoli asiatica. Lontano dalla città, ma simbioticamente collegato, c’è il campus di Amaya. Ispirata ai grandi progetti di riscrittura urbana di compagnie come Google e Facebook e ai loro Sidewalk Labs e Willow Village, la sede della big tech è immersa nel verde e puntellata da edifici brutalisti dove tutto è a vista, tutto è accessibile – e sulla quale svetta, come controllore e senso ultimo, l’immensa statua di una bambina, Amaya, la figlia di Forest morta qualche anno prima in un incidente d’auto. Al centro di tutto questo, infine, sta il laboratorio di Devs, vero cuore-automa pulsante dell’intera storia, palcoscenico teatrale che mette insieme natura e scienza – è nel mezzo di un prato circondato da un bosco, per entrarci si deve attraversare una gabbia di Faraday e l’edificio è una sorta di ziqqurat di cemento armato. È poi paradossale come questi spazi definiti da un’urbanizzazione interconnessa con la natura, digitale e (apparentemente) libera siano di nuovo attraversati, violati, da forze e dinamiche così novecentesche, classiche, storiche: Sergei e il suo orologio da polso con cui fotografa il codice sorgente di Devs, il capo della sicurezza Kenton e il suo lavoro nella CIA durante Tienanmen, la cellula segreta russa di stanza a San Francisco – i big data, i computer quantistici sono solo un altro aspetto dell’eterna lotta geopolitica per il controllo delle risorse, qualunque risorsa, vecchia, nuova, innovativa che sia.
E poi c’è lo spazio mentale, c’è il MacGuffin. Perché è vero che Garland costruisce le sue opere attorno ad un nucleo teorico molto chiaro e definito, ma a volte si tratta solo di un pretesto poi nemmeno così importante – un MacGuffin, appunto – per andare verso altro. Lo era il test di Turing in Ex Machina e lo sono i computer quantistici in Devs. La singolarità tecnologica raggiunta nel mondo della serie grazie alla supremazia quantistica è solo la superficie di qualcosa di più ampio, la coltre da oltrepassare per svelare il vero centro: se con l’enorme capacità di elaborazione di un super-computer che lavora con i qubit si è capaci di calcolare lo stato effettivo dell’intero universo, allora la nostra realtà è deterministica, e quindi ogni cosa è già scritta, decisa, ordinata. Non è la macchina, ma cosa ci facciamo con questa: il test di Turing del film di sei anni prima serviva a ripensare i rapporti di genere, e quindi di potere, in un mondo lanciato verso il trans e il post-umanesimo; Devs, o meglio, Devs, investe la nostra stessa idea di realtà, di un mondo che plasmiamo asservendolo alle nostre necessità e ai nostri desideri. Ma che succede quando non sono più le nostre necessità? Quando i nostri desideri non vogliono dire nulla? Dove sta tutto il resto, il libero arbitrio, la libertà, la coscienza, dove stanno, in ultimo, l’io e la mia responsabilità per quello che sono?
È questo che si chiedono incessantemente Forest e Katie, è questo a cui andrà incontro Lily nella sua ricerca. E mentre i primi due sono talmente assuefatti e atterriti dalle proiezioni di Devs da non fare letteralmente più niente ("Noi siamo nella scatola. La scatola contiene tutto. E dentro la scatola c'è un'altra scatola. Ad infinitum, ad nauseam" si sente Forest salmodiare), Lily invece agisce, avanza, fa l’unica cosa possibile anche in un universo deterministico, vivere. Lily è la variabile nascosta e consapevole di un mondo stagnante nei suoi rapporti di forza, di genere, di capitale perché così è e così deve essere. Un mondo ancorato alla fisica newtoniana, plasmato a immagine e somiglianza e asservimento di una società bianca e occidentale, da cui Lily si discosta in quanto donna e asian american – Kenton, rivolgendosi a Sergei, è turbato unicamente da questo: “Tu russo, lei cinese, io nervoso”.
Ma il Novecento ha portato in dote il tentativo di abbattere questa meccanica classica, e alla Conferenza Solvay del 1927 la fisica quantistica ha preso il sopravvento, stabilendo quella che poi sarebbe diventata la teoria più verificata e validata della storia, fatta di indeterminazione, non-località, casualità – quei giorni furono ricordati da Einstein come i “Witches’ Sabbath”, i sabba delle streghe. È da quasi un secolo che si lavora per dimostrare l’insensatezza della meccanica quantistica (il paradosso EPR, Einstein-Podolsky-Rosen) o di ridurre di nuovo il caos dell’infinitamente piccolo a un rapporto di causalità (l’onda pilota di De Broglie-Bohm), ma costantemente l’indeterminazione si riaffaccia e rimane lì dove è grazie al teorema di Bell, agli esperimenti sull’entanglement, ai computer quantistici.
Nella serie, Forest tenta di ristabilire tutto ciò, spingendo il determinismo gnoseologico, frutto della singolarità tecnologica, alle sue più rigide ed estreme conseguenze ontologiche: ogni cosa avviene perché deve avvenire. Lo fa, paradossalmente, perché deve, per liberarsi del peso asfissiante della morte della figlia, scacciando via ogni forma newtoniana di causa-effetto, perché la causa di quell’effetto – la morte della figlia – potrebbe essere stato lui. Arriva perfino a licenziare uno dei suoi coder di punta, Lyndon, reo di aver affinato le proiezioni di Devs con l’aberrazione delle aberrazioni, la Teoria a molti mondi di Hugh Everett III: l’interpretazione della meccanica quantistica formulata nel 1957 dal fisico americano, poi caduto in disgrazia proprio per la presunta infondatezza fantascientifica della sua idea, che vuole l’intero universo dividersi in miriadi di altri universi ogni volta che una scelta, una rilevazione, un’azione viene compiuta, realizzando così un Multiverso infinito dove tutto avviene in tutti i mo(n)di possibili. Agli occhi di Forest questa è colpa capitale con cui si poteva insozzare Devs, perché la proiezione di un altro mondo è un mondo che contiene un’altra Amaya, non la “sua” Amaya.
Proiezione, proiezioni. Il gruppo di ricerca di Forest va al di là dell’high frequency trading o del tempo atmosferico, tenta di computare l’intero universo per poi srotolarlo avanti e indietro nel tempo. Per riprodurre cosa? Cristo sul Golgota, Giovanna d’Arco che brucia sul rogo, momenti che trovano compimento oltre questo piano di realtà – tutta la potenza di calcolo dell’esistenza e l’unica cosa a cui rivolgono la loro attenzione è oltre questa esistenza. Ma sono ancora delle proiezioni imperfette che soltanto dopo l’implementazione di Lyndon di un algoritmo basato sulla teoria di Everett vengono sgrossate, abbellite, ingentilite. Ed ecco apparire l’immagine. Niente più suoni distorti e bianco e nero: ora ci si può sedere e guardare uno schermo infiammato di colori, voci, passioni. La proiezione dell’intero universo collassa su una proiezione privata, amatoriale, da home movie, e tutti si ritrovano a guardare le loro esistenze davanti a uno schermo. Anche Forest, alla fine, lo accetta e rivede Amaya. Lo sa che questa potrebbe non esserne la riproduzione oggettiva ma una raffinata probabilità, che questa non è la sua Amaya ma una delle tante possibili nei molti mondi possibili, ma sa che è anche la sua Amaya. Determinismo o meno, Forest finalmente capisce che bisogna credere (come ha fatto Lyndon, che muore in un suicidio quantistico per provare semplicemente di poterlo fare), e che bisogna vivere (come fa Lily, decidendo di ignorare quanto previsto da Devs, la macchina-che-dà-respiro alla realtà simulata in cui i due alla fine si ritrovano).
Perché calcolo e proiezione, realtà e finzione, questa realtà e tutte quelle possibili fanno parte di sandaigdigan, un unico mondo. Perché è l’unica possibilità per rivedere i propri morti, come scrisse Liz, la figlia suicida di Hugh Everett III, nella sua lettera di addio a questo mondo: "Richieste per funerali: non voglio roba di chiesa. Per favore, bruciate e non schedatemi. Per favore, spargetemi in una bella pozza d'acqua o nella spazzatura. Forse così finirò nell'universo parallelo giusto, per incontrarmi con papà".