I difficili numeri della povertà
Il 20 ottobre è stato pubblicato da Eurostat, l’ufficio di statistica dell’Unione Europea, un compendio con le principali statistiche sulle condizioni di vita in Europa. Sono le stesse informazioni che l’Istat ha diffuso il 14 giugno per le sole famiglie italiane. Allora un quotidiano aveva titolato “In Italia cresce la diseguaglianza, a rischio povertà 1 cittadino su 4”, mentre un altro aveva scelto “Macché ripresa: un italiano su 4 resta ancora a rischio-povertà”. Il giorno successivo era apparso su un’altra testata un articolo di replica, “Le accuse al governo sull’aumento delle disuguaglianze sono infondate e non spiegano perché i lavoratori votano Meloni”, in cui, correttamente, si notava che non era vero che la disuguaglianza fosse cresciuta secondo i dati dell’Istat ma, erroneamente, si attribuiva l’ultimo dato al 2022 anziché al 2021.
Non è facile raccontare le statistiche sulla povertà e la disuguaglianza. Hanno tempi di elaborazione lunghi, per cui oggi si stanno commentando i dati relativi alla distribuzione dei redditi familiari nel 2021. Sono statistiche che hanno un certo grado di persistenza, ma in due anni possono variare anche radicalmente, soprattutto in periodi come quello recente in cui la congiuntura economica cambia rapidamente. I media commentano però il presente ed è comprensibile che, soprattutto nei titoli, siano inclini a sorvolare sulla precisione temporale.
La seconda ragione di difficoltà è la rilevanza politica. Le statistiche sulla povertà sono naturalmente, e doverosamente, tema di confronto politico e la loro interpretazione risente dell’orientamento ideale di chi le commenta e legge, come suggerito dai titoli prima citati. Chi è all’opposizione perlopiù le enfatizza, chi governa le accoglie con disappunto. Quando nel 1985 la Commissione d’indagine presieduta da Ermanno Gorrieri elaborò per la prima volta le statistiche sulla povertà, il Presidente del Consiglio Bettino Craxi ne ritardò la pubblicazione per qualche mese e le trattò con diffidenza, malgrado la Commissione fosse stata creata per sua iniziativa. “Il tenore di vita risulta spesso sottostimato”, commentò seccamente, forse infastidito dal clamore ben sintetizzato dal titolo di un quotidiano: “Ma sono veramente così tanti i poveri in Italia?” Non andò molto diversamente nel 1998, quando la pubblicazione del rapporto della Commissione, in cui si rilevava una crescita della povertà tra le famiglie dei lavoratori dipendenti, generò un “contrasto strisciante”, come si scrisse all’epoca, tra il Presidente della Commissione Pierre Carniti e il Presidente del Consiglio Romano Prodi.
Non meno importante, infine, è la complessità delle statistiche sulla povertà. Non tanto perché siano più difficili da comprendere di quelle sul PIL o sul tasso d’inflazione, come qualche volta si sostiene, quanto per le molteplici sfaccettature del fenomeno che misurano. Il principale indicatore usato per monitorare la situazione sociale nei paesi dell’UE è il “rischio di povertà o di esclusione sociale”. Questo indicatore è dato dalla quota di individui che vivono in famiglie che hanno un reddito familiare insufficiente, che hanno una bassa occupazione, oppure che soffrono di una grave deprivazione materiale e sociale (cioè non dispongono di alcune condizioni di vita minime come poter sostenere spese impreviste o potersi permettere una connessione internet utilizzabile a casa o due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni). La complessità deriva non solo dalla varietà delle dimensioni considerate, ma anche dal diverso riferimento temporale: la grave deprivazione è rilevata al momento dell’intervista, mentre reddito e occupazione si riferiscono all’anno precedente.
Nel 2022 era a rischio di povertà o esclusione sociale il 24,4% della popolazione, con una leggera riduzione rispetto al 25,2% del 2021. È il dato su cui si sono concentrati i titoli dei giornali, che colloca l’Italia tra gli otto paesi che hanno valori superiori alla media dell’UE (21,6%). Nel metterlo in relazione con l’andamento economico e le politiche pubbliche, occorre ricordare che coglie lo stato delle persone in due anni diversi. Il dato più aggiornato è quello relativo alla quota di individui che vivono in grave deprivazione, scesa nel 2022 al 4,5%, dal 5,9% nel 2021. Gli altri due indicatori si fermano invece al 2021: l’incidenza della bassa occupazione in famiglia è diminuita al 9,8% (dal 10,8%), grazie alla ripresa dell’economia dopo la contrazione dovuta alla pandemia, mentre la quota di individui con un reddito insufficiente è rimasta ferma al 20,1%. Il mancato miglioramento di quest’ultimo indicatore è dipeso essenzialmente dal fatto che si basa su una soglia di povertà “relativa”, salita del 6% in linea con la crescita dei redditi delle famiglie; se si fosse invece tenuta fissa la soglia in termini reali, aumentando quella dell’anno precedente per il solo tasso di inflazione, l’indicatore sarebbe nettamente diminuito. Con qualche semplificazione, si può dire che tra il 2020 e il 2021 una parte degli individui con redditi inadeguati ha migliorato le proprie condizioni di vita, ma in misura insufficiente a uscire dalla condizione di povertà in quanto il miglioramento è stato inferiore a quello medio della popolazione.
Queste non sono le sole statistiche sul disagio economico in Italia. Fin dagli anni ottanta, l’Istat misura la povertà utilizzando non i redditi, ma i consumi: la “povertà relativa” prende come riferimento per la soglia di povertà il valore medio della spesa per consumi, mentre la “povertà assoluta” (calcolata dal 1998) utilizza come soglia il costo di un paniere di beni e servizi essenziale per conseguire uno standard di vita socialmente accettabile, rivalutato di anno in anno per l’inflazione. Poiché la composizione di questo paniere tiene conto delle caratteristiche familiari e il suo costo riflette il livello dei prezzi del territorio in cui la famiglia risiede, la linea di povertà assoluta varia per numero ed età dei componenti, ripartizione geografica e tipo di comune. Nel 2021 la soglia relativa per una persona sola era uguale a 629 euro mensili, mentre quella assoluta variava tra 511 euro per un anziano di 75 o più anni residente in un piccolo comune del Mezzogiorno e 853 euro per un adulto abitante di una grande città del Nord. Tra il 2020 e il 2021, l’incidenza della povertà relativa è cresciuta dal 13,5% al 14,8%, mentre quella della povertà assoluta è rimasta invariata al 9,4%. Sono valori diversi nel livello e nella dinamica da quelli basati sul reddito. Il quadro si complica.
Non accade tutti gli anni che le misure di povertà diano indicazioni così divergenti. Occorre anche rammentare che il biennio 2020-21 è stato stravolto dalla pandemia. Per esempio, i comportamenti di consumo sono mutati per effetto dei lockdown e delle precauzioni adottate per evitare il contagio, con conseguenze inevitabili, ma non semplici da valutare, per la misurazione dei tassi di povertà basati sulla spesa per consumi. Ciò detto, nel raccontare la povertà occorre essere consapevoli che non vi è una sola misura e che le statistiche vanno usate con accortezza, tenendo presente che molti aspetti le differenziano. Così la spesa approssima lo standard di vita con la quantità di beni e servizi acquistati per consumo, mentre il reddito misura la capacità di spendere indipendentemente dalle scelte effettive di consumo, evitando di considerare come privazione i casi in cui un più basso livello di consumi deriva dallo stile di vita. Gli indicatori di povertà assoluta tengono conto delle differenze territoriali nel costo della vita, mentre quelli relativi fanno sì che lo standard di povertà rifletta i miglioramenti delle condizioni di vita nelle fasi di rapida crescita economica. I metodi e le fonti statistiche si aggiornano, come avverrà tra pochi giorni quando l’Istat pubblicherà i dati per il 2022. Vedremo se questi nuovi dati, basati su un’indagine sulle spese delle famiglie rinnovata e un metodo di stima della povertà assoluta migliorato, confermeranno l’unica tendenza ora disponibile per il 2022, la forte riduzione della quota di persone che soffrono una grave deprivazione materiale e sociale.
Nonostante i molti indicatori, la netta stratificazione della povertà in Italia per età, area geografica e cittadinanza appare inequivocabile. Possono differire le indicazioni quantitative, ma non cambia il quadro qualitativo. Nel 2021 era in condizione di povertà assoluta il 5% degli individui che vivevano in famiglie di soli italiani nel Centro Nord, l’11% di quelli in famiglie di soli italiani nel Mezzogiorno e il 29% di quelli in famiglie con uno o più componenti stranieri residenti su tutto il territorio nazionale. Le condizioni dei bambini erano sempre peggiori di quelle degli adulti e degli anziani, ma molto diverse tra i tre gruppi: era povero un bambino ogni 16 nelle famiglie di italiani del Centro Nord, uno ogni 7 nelle famiglie di italiani del Mezzogiorno e più di uno ogni 3 nelle famiglie con stranieri. Sono risultati sconfortanti per il presente ma anche per le disuguaglianze future, poiché le difficoltà nei primi anni di vita incidono negativamente sulle opportunità da adulti.
“La terra è cretosa, tutta cosparsa di riccioli di castagne; ci sono alcune case isolate; la gente che ci abita vive sempre in questo luogo, passa qui tutta la vita. Sono così poveri, che non si capisce come riescano a campare: tutto ciò che si può dire è che stanno in piedi, e quando aprono la bocca vien fuori la voce; mangiano anche, cucinano, e ne danno anche a noi; ridono. Dicono di essere contadini, ma dove sono i campi? Gli uomini vanno a opere, o su pei boschi o là sotto oltre il lago. Le donne fanno figli e minestre, e vanno a prendere acqua coi secchi, e mescolano la polenta. Dove vanno in chiesa, e a scuola? Chi verrà quassù a curarli, se si ammalano? Quando devono scendere loro in città, ci vanno scalzi con le scarpe in mano: le indossano entrando a Porta Monte. La loro relativa allegria mi sconcertava”. Così Luigi Meneghello, in I piccoli maestri, descriveva il paese in cui si era rifugiato da partigiano nell’autunno del 1944, sui Colli Berici poco lontano da Vicenza, oggi una delle province più ricche del Paese. Che molta parte della popolazione italiana vivesse allora nell’assoluta indigenza l’avrebbe confermato Vera Cao Pinna sintetizzando i risultati della rilevazione effettuata nel 1952 dall’Istat per la Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria: il 5,1% degli italiani aveva calzature in condizioni misere o miserrime – ancora le scarpe! –, il 4,7% viveva in abitazioni sovraffollate con oltre 4 persone per stanza e il 2,8% in cantine, soffitte, magazzini, baracche o grotte.
Sono condizioni estreme, che non è dubbio classificare come misere. A fianco di queste, allora ma ancor più oggi, vi sono situazioni di difficoltà economica e disagio sociale che pure vanno incluse nella povertà. Le dimensioni sono molte, le variabili diverse; è difficile tracciare confini netti, ancorché necessario per monitorare il fenomeno e disegnare le politiche appropriate. Sarebbe però sbagliato trarne una conclusione nichilista, per cui nulla si può dire. La molteplicità delle misure di povertà non è un problema, ma l’esito dello sforzo, degli studiosi e dell’istituto di statistica, di dar conto delle molte sfumature di un fenomeno complesso come la povertà. Una volta letto con l’attenzione necessaria, il ricco quadro statistico per l’Italia è, purtroppo, poco rassicurante.
L’autore di questo articolo è vice direttore del Dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia. Le opinioni qui espresse sono personali e non riflettono necessariamente quelle della Banca d’Italia.