Rapporti di lavoro / I robot avranno sempre bisogno di noi

13 Settembre 2018

Quello che dobbiamo aspettarci da una filosofia della forza lavoro non è la rivolta degli androidi assassini, né la sostituzione del lavoro da parte degli algoritmi, ma una rivoluzione nel nostro rapporto con le macchine e con noi stessi. Da qui passa il potere, da qui passa l’alternativa. 

 

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Agli ingegneri della Silicon Valley, e a quelli del Pentagono, piace la fantascienza. Questo genere letterario, e cinematografico, ha la capacità di anticipare l’esistenza dei dispositivi digitali che governano la nostra vita cinquant’anni prima che siano commercializzati.

Mother è il super-computer che esegue la volontà della multinazionale che ha deciso di portare sulla terra un’arma di distruzione di massa come Alien. La stentorea, e angosciante, voce femminile inventata da Ridley Scott nel 1979, è simile a Google Home, il potente speaker e assistente vocale che suona la musica che vogliamo in cucina o in bagno, chiama i nostri amici, controlla il riscaldamento, accende il forno, risponde alle nostre domande.

 

 

Nel primo Alien, Sigourney Weaver programma la distruzione del Nostromo. Potremmo fare anche noi la stessa cosa, ma per una ragione diversa dal film. Google o Amazon non hanno progettato uno xenomorfo che ci fa a brandelli con le sue fauci e aculei mostruosi.

Hanno progettato un nuovo sistema di estrazione del valore e di sfruttamento del lavoro. Noi lavoriamo per loro. Loro accumulano profitti stratosferici. Noi acquistiamo le tecnologie che servono ad aumentarli ancora.

 

La voce di Hal 9000

 

Hal 9000, il super-computer della nave spaziale Discovery – nel film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968) e nel libro di Arthur Clarke – è il padre di Siri e di Alexa, le voci femminili che guidano le nostre giornate di navigazione sugli smartphone Apple o su Amazon. 

Nel 1967 Stanley Kubrick era in fase avanzata di post-produzione negli studi cinematografici di Londra e cercava una voce maschile per il suo Hal 9000. Era un perfezionista maniacale, attese sino all’ultimo per la scelta, era scontento dei provini. Non capiva il modo in cui l’algoritmo euristico (Heuristic ALgorithmic: HAL) avrebbe dovuto parlare. Con quale accento? Americano della California o del Wyoming? Con accento messicano o con il ritmo delle Black Panthers? Il cockney, il dialetto parlato a Londra Est? 

 

 

Guardate il film, il problema è serio. Hal 9000 è gentile, calmo, ossequioso, acuto, ironico, rassicurante, paterno, fraterno. Hal è tutto, sa tutto, non c’è nulla che gli sfugga. È la voce personaggio. Quella più importante del film!

Alla fine la scelta di Kubrick ricadde sull’attore canadese Dougal Rain. Il suo inglese era privo di accento, molto standard, suona proprio com’è Hal: viene da nessun luogo ed è dappertutto. È l’inglese che si sente nei dizionari online, la pronuncia delle vocali non permette di capire la regione di provenienza.

Douglas oggi ha più di 90 anni, dice di non avere mai visto 2001 Odissea nello spazio, la sua voce è stata caricaturata dai Simpson, in South Park e negli spot pubblicitari. A chi ha recitato con Alec Guiness in Riccardo III e nel Macbeth o in Re Lear forse non fa piacere essere ricordato così. 

Per lui Hal 9000 era solo un lavoro.

Uno dei luoghi più potenti del nostro immaginario, l’idea che oggi noi conosciamo come Google Home, Siri o Alexa sono il risultato di un attore che ha fatto un lavoro. E così continua ad essere: le voci sintetiche sono il risultato di miliardi di interazioni tra esseri umani e algoritmi finalizzati all’addestramento di intelligenze artificiali. 

Si chiama machine learning, attraverso le chat box che dialogano con gli esseri umani, noi aumentiamo il valore delle tecnologie possedute dalle Big Tech.

 

In Forza lavoro, il lato oscuro della rivoluzione digitale sostengo che tutte le interazioni tra uomini e robot dovrebbero essere viste nello stesso modo in cui Douglas Rain vedrebbe (se lo volesse) 2001: Odissea nello spazio. Un rapporto di lavoro in un'economia politica, non solo un'interfaccia tecnica.

 

Il robot esploratore e l’aspirapolvere

 

Prendiamo la missione Mars rover pensata dalla Nasa per esplorare il pianeta rosso. Le funzioni del robot esploratore, uno dei giocattolini usciti da un film di fantascienza di serie B, sono state elaborate attraverso la collaborazione tra scienziati e l’interazione tra la concreta attività dei circuiti con gli input forniti dal team scientifico.

 

 

E poi, ecco a voi il robot-aspirapolvere Roomba:

 

 

 

Vi assicuro che questo oggetto è stato studiato da fior di analisti che hanno compreso qualcosa di molto importante. Anche se il robot è venduto come un automa, i suoi acquirenti devono lavorare per lui per allestire l'ambiente in modo che Roomba possa fare bene il lavoro per cui è stato acquistato. Per fargli aspriare la polvere, o lavare i pavimenti, è necessario rimuovere mobili e posizionare barriere dove il dispositivo potrebbe rimanere incastrato, sotto uno scaffale ad esempio. Bisogna essere pronti a andargli in soccorso per evitare che la sua intelligenza artificiale… si confonda. 

Roomba e Rover estraggono lavoro umano e lo rendono invisibile. Il loro funzionamento sembra essere il risultato di una misteriosa volontà delle macchine che prendono vita da sole, mentre invece tali macchine esistono solo a condizione di una significativa e continua interazione con gli umani che permettono il loro funzionamento.

 

La storia del cucciolo foca

 

Paro è un cucciolo di foca robot. È rivestito di pelliccia di peluche bianca, sotto la quale esistono sensori che permettono la percezione del tatto, del suono e dei cambiamenti di posizione, come gli abbracci. Paro è stato progettato per i pazienti affetti da demenza. 

 

Diversi studi hanno dimostrato la capacità di Paro di migliorare l'umore dei pazienti, ridurre lo stress e aumentare le interazioni con gli altri. Nella letteratura accademica è descritto come "autonomo". Il suo inventore Takanori Shibata sostiene che il robot "agisca in modo autonomo ...mentre riceve la stimolazione dall'ambiente, come con la vita organismi. Le azioni che si manifestano durante le interazioni con le persone possono essere interpretate come se Paro avesse un cuore e sentimenti". 

È questa l’illusione che viene venduta sul mercato degli investitori e all’opinione pubblica. In quella malafede programmatica che accomuna gli esperti di marketing ai propagandisti accademici e giornalistici dell’automazione totale, questa illusione rappresenta la principale merce da vendere nei notiziari della sera o nelle pagine degli inserti patinati. 

Gli esperti di robotica, come Shibata, che invece conoscono il funzionamento delle macchine, portano alla luce il lato oscuro della rivoluzione digitale in cui viviamo: “Paro – ha detto Shibata – ha un numero limitato di funzioni come una macchina. Ma attraverso l'interazione con gli esseri umani evoca associazioni nella mente umana. Non è necessario che Paro abbia tutte le sue funzioni perché l'interazione può ampliare le loro interazioni”.

 

È il mercato, baby

 

I robot non sono così autonomi come invece si crede in una rappresentazione molto popolare che confonde la magia con la fantascienza. Il loro buon funzionamento comporta sforzi considerevoli da parte degli esseri umani che interagiscono con gli algoritmi, li allenano e li fanno diventare intelligenti. Dietro ogni interazione, macchina robotica, voce sintetica esistono le interazioni con i microlavoratori che archiviano, classificano, selezionano, ricombinano dati. Dietro ogni automazione che profila i dati e li associa a prestazioni automatizzate e ai servizi alla persona o alla conoscenza esistono ricercatori e dottorandi, infermieri, anziani residenti in case di cura, o bambini piccoli. 

E invece l’intelligenza artificiale è confusa con la magia e fantascienza ed è avvolta da una patina deferente di oggettività. Questo è il grande il lavoro degli uffici stampa e comunicazione: una distorsione continua, non priva di aspetti comici e deliranti, che sequestra l’idea di autonomia dell’essere umano a favore di un’idea del tutto metaforica. 

 

Sono i sistemi computazionali a essere autonomi, non il lavoro necessario degli umani che permettono alla macchina combinata – così la chiamava Marx – di ottenere un crescente e sempre incompleto margine di efficienza operativa che permette ai circuiti di eseguire i compiti per i quali sono stati concepiti. 

L'interazione tra uomo e robot è sequestrata dalla retorica dell’automazione totale e dal potente tropismo dell'autonomia dei sistemi computazionali che rendono invisibile la forza lavoro umana necessaria per concepire questi sistemi e per colmare le loro lacune. Questa rimozione è una costante, storicamente non riconosciuta, in tutte le principali formulazioni delle teorie sul mercato accademico e su quello dei capitali che finanziano i progetti di Google, Uber o Tesla sulle macchine-che-si-guidano-da-sole o sulle prossime missioni su Marte. 

 

Politica digitale

 

A cosa serve l’ignoranza del rapporto tra essere umano e tecnologia? Il problema non è soltanto quello di una banale rappresentazione mediatica, ma interroga i fondamentali dell'economia capitalistica e del potere nel XXI secolo. 

 

Questo dispositivo

  1. trasforma la forza lavoro in utenti, clienti, partecipanti o lavoratori a basso costo per compensare le carenze tecniche del digitale;
  2. legittima il comandamento contemporaneo: il lavoro non si paga e, nel caso, è il lavoratore a pagare per lavorare;
  3. legittima il potere assoluto delle grandi aziende tecnologiche; 
  4. trasformare l’autorità in un potere magico e oscuro che fa il “bene” del “popolo”, ovvero degli utenti di un dispositivo; 
  5. moltiplica la paura per l’apocalisse e l’angoscia di vivere in un mondo governato da potenze tecnologiche minacciose; 
  6. elimina l’idea di avere diritti in un mondo dove l’automazione è crescente ed è usata per indirizzare i corpi e le menti all’esecuzione di ingiunzioni contradditorie e devastanti. 

 

La mercificazione della maggior parte degli aspetti della vita contemporanea ha trasformato tecnologie come la robotica in strumenti a scopo di lucro invece di mezzi per la felicità umana o il benessere sociale. La spinta è così forte da essere scontata e indiscutibile. 

Abbiamo dimenticato che una delle prime promesse della robotica e delle tecnologie informatiche in generale è stata quella di ridurre, non di aggravare, il peso del lavoro per gli esseri umani, liberando il tempo e il desiderio per le attività culturali, la cura di se stessi e degli altri, per la politica e l’emancipazione attraverso la partecipazione. L’aspetto più importante della rivoluzione digitale oggi è fare lavorare di più in maniera sempre più miserabile, in un parossismo senza alternative. 

 

Fuori dall’ufficio propaganda

 

Al contrario di quanto dicono Brynjolfsson e McAfee “la nuova rivoluzione delle macchine” non sostituirà il lavoro con le macchine, ma metterà gli esseri umani al lavoro sempre di più, pagati sempre di meno, aumentando a dismisura i profitti stratosferici di chi già possiede le tecnologie. 

 

Invece di recitare la Bibbia dell’ufficio propaganda digitale – lo stesso che distribuisce ai propagandisti di tutte le latitudini i rendimenti delle azioni a Wall Street delle Big Tech – è giunto il momento di inventare un nuovo sistema che riconosce la realtà della forza lavoro e immagini il modo attraverso il quale lavoratori (e non) distribuiranno il valore del loro lavoro in un modo tecnologicamente, e politicamente, più giusto rispetto agli attuali sistemi di micro-pagamento, il cottimo 2.0. 

La tecnologia oggi si basa sul lavoro umano attivo che deve produrre risultati. I social media forniscono valore alle aziende attraverso il lavoro degli utenti che popolano i database di siti come Twitter e LinkedIn, fornendo informazioni personali rivendute ad altre società o usate per promuovere pubblicità. 

Questi sistemi quantificano, mercificano, smaterializzano e riducono le persone a un insieme di abilità, attributi e preferenze. Attraverso questo processo di riduzione algoritmica, il lavoro di milioni di persone – in generale gratuito, solo a volte sottopagato –, viene estratto un valore immenso gestito in modo efficiente senza pagare le tasse. 

 

Il lavoro, inteso sia come remunerazione che come produzione, è sostituito da un sistema di ricompense che coinvolgono gli attori in una gara avvincente per la conquista della visibilità in vista di un premio simbolico che appaga il narcisismo e la speranza di affermarsi in un sogno di onnipotenza e singolarità assoluta. Il motore di questo scambio simbolico è l’aiuto tra pari e i meccanismi di condivisione, oltre che il sistema di sorveglianza reciproca e di auto-controllo di chi si impegna in una competizione. L’aiuto tra pari e gli algoritmi si combinano.

Quello che dobbiamo aspettarci non è la rivolta degli androidi assassini, né la sostituzione del lavoro da parte degli algoritmi, ma una rivoluzione nel nostro rapporto con le macchine e con noi stessi. Da qui passa il potere, da qui passa l’alternativa. 

Fuori dall’ufficio propaganda digitale c’è vita. 

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