I santi e i luoghi

22 Agosto 2012

La santità è extraterritoriale, non sta lì a guardare spazi e confini; anzi, invece di esserne frenata, se ne nutre, li sfrutta come occasioni, come propedeutica al martirio. E' molto ingegnosa in merito. La geografia politica è l'ultima delle sue preoccupazioni: punta dritto a quella iperuranica, lei. Che è piuttosto vaga, come noto.

 

Questo non toglie che ci siano molti santi locali, che se ne stanno quieti quieti entro perimetri ristretti, ma lì sfoggiano virtù altamente specializzate quanto efficaci, taumaturgie infallibili. Un passo fuori e non li conosce più nessuno; altri ne fanno le veci, con differenti specializzazioni, e loro, nell'anonimato, vedono il loro potere disperdersi e appassire e non c'è verso di rivitalizzarlo. Sono santi dall'humus esclusivo, che non sopportano il trapianto. Santi a chilometro zero.

 

Altri invece danno il meglio in trasferta. Più sono conosciuti più si danno da fare, e più agiscono più acquistano forza e il livello della loro energia cresce inarrestabile, come in certe figurine giapponesi il cui funzionamento capiscono solo i bambini e gli specialisti (come i santi del resto). La generosità arricchisce. La dissipazione genera profitti e accresce il capitale. La disseminazione li vivifica. E loro si concedono a chiunque ne faccia richiesta. Il loro patronato si diffonde con un buon contagio e loro guardano con un occhio di riguardo, contemporaneamente, chiunque lo reclami.

 

 

Addirittura non c'è nemmeno bisogno di chiederglielo: chi vuole se lo prende e loro si fanno protettori esclusivi di città e paesi innumerevoli. Per esempio, dalle mie parti, l'egiziano Sant'Alessandro. San Lisander. Un buon santo, attraversatore di fiumi sul proprio mantello, domatore di correnti, bravo soldato, che difendeva paesi e confini non suoi: decapitato. O altri, che basta che il corpo sia sepolto lì, anche se previamente trafugato, che non sarebbe una bella cosa, e si fanno in quattro a custodire la terra che li custodisce, a renderla potente e bella nei secoli, come San Marco a Venezia. Come se fosse nato lì: come se gli abitanti fossero parenti e amici. E invece non ci ha vissuto manco un secondo. Che anzi, per lui, per loro (i santi di importazione, dico), è una ragione in più per viverci in eterno dopo morti.

 

 

La contraddizione non li spaventa, figurarsi! D'altronde la santità è un paradosso. Magari a scoppio ritardato: quando come paradosso è stato dimenticato, e appare un perfetto esempio di logica inflessibile. Perché a volte mica si vede subito che uno è santo, e spesso il diretto interessato è l'ultimo a saperlo, ammesso che il titolo gli interessi. Io propenderei per il no. Parere personale.
Quando sono vivi, a volte sono trattati da veri straccioni, mentecatti, bastiancontrari, proprio perché vengono da fuori, non parlano la lingua del posto e non ne condividono usi e costumi; e gliela fanno pagare. Magari a lasciargli il tempo imparerebbero, ma non sempre ce l'hanno. Dipende dai tempi, e dal numero degli aspiranti. (Che se sono pochi non li nota nessuno, o fanno tenerezza, e ci si meraviglia della cattiveria di chi li tratta male: vedi cosa hanno fatto gli americani a quella pasta d'uomo di Martin Luther King. Disumani!)

 

Per i tempi infatti, al contrario degli spazi che al limite vengono buoni tutti, è noto che alcuni sono più favorevoli: sotto certe dittature, poteri sovranazionali, dottrine monolitiche, la santità prolifera, è come una calamita per gli eroi e i derelitti, peraltro non tutti così attratti dalla bella morte, dipendesse solo da loro. Poi, com'è come non è, gli stessi che li hanno messi al bando, derisi e maltrattati se non proprio fatti fuori, dopo un po' cominciano a guardarli con un occhio diverso. Cambiano atteggiamento: sarà per la morte; sarà che adesso sono inoffensivi; anche se non del tutto: perché ci sono morti vendicativi, e allora cercano di ingraziarseli, gli costruiscono templi, gli dedicano feste, che tanto alla fin fine sono i vivi a godersi, e se li fanno patroni. In Italia usa così. Dai tempi dei romani, che come fucina di santi non erano secondi a nessuno. Integrati o schiavi; ultima risorsa: morti. "Tu regere imperio populos"... Eccetera.

 

 

Alcune di queste storie le sapevo già, numerose altre, come quelle della tunisina Santa Giulia di Brescia o di San Zeno di Verona, nero africano, nei loro riflessi illuminanti sul presente: cioè nei loro fragili e martirizzati corrispettivi odierni, ignoti come i giusti umilissimi che secondo la tradizione ebraica permettono al mondo di continuare nonostante le sue nefandezze, li ho imparati da Santi patroni padani, di Tiziano Colombi (Effigie, Milano, p. 64, € 8). Un libretto delicato e feroce. Scritto con una grazia che, se non stai attento, ti avvelena.

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