Ius Soli / Il Manzoni non capì la grandezza del suolo patrio
Cosa vede uno scrittore nel mese santo di giugno, in cui si è celebrata pure la festa italiana più importante, quella della Repubblica?
Le stesse cose che vede un bagnino, e le medesime che vede un dentista. Quelle cose che vedrebbero tutti i semplici cittadini di una nazione degna di questo nome, se evitassero di ascoltare le nenie o le flatulenze della politica. Scriveva il premio Nobel Derek Walcott: “Io sono solamente un negro rosso che ama il mare/ ho avuto una buona istruzione coloniale/ ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese/ sono nessuno o sono una nazione”.
Ecco, appunto: nessuno o una nazione. Di questo parla pragmaticamente la legge sullo Ius Soli, che oggi tanti si affrettano a contrastare. A questi azzeccagarbugli che mirano soltanto a solleticare le stupide e ignoranti emozioni degli umili di spirito (per i quali sarà anche aperto il regno dei cieli, ma dei quali interessa soltanto il voto nella cabina elettorale), non frega niente delle valide ragioni di dare la cittadinanza italiana a chi nasce in Italia. A loro serve soltanto aizzare i cani. Sono infinite le ragioni a favore dello Ius Soli: un portafoglio pensionistico futuro sostenibile, un’attrazione economica maggiore del sistema Paese, una modellazione più morbida di pace sociale. Non interessa neppure sapere che con questa legge avranno la cittadinanza italiana giovani italiani dagli occhi a mandorla che parlano il toscano di Prato e non conoscono una parola di cinese, né hanno mai visitato il Paese di origine dei loro genitori. Come non interessa capire che avranno la cittadinanza giovani italiani di colore che parlano napoletano o pugliese e non sono mai stati in Nigeria, da dove provengono i loro genitori.
Chi si oppone allo Ius Soli è ignorante e farebbe bene a stare in silenzio: Madre Natura non ci ha fatto due orecchie e una sola bocca a caso – vuol dire che si dovrebbe più ascoltare che parlare. Ma c’è anche chi mesta nella feccia per opportunismo politico-elettorale, come fece in passato anche il Conte di Cavour Camillo Benso. Infatti, “fare gli italiani” è stato un processo affatto facile e ancora oggi si arranca su questo versante.
Il Risorgimento è stato un periodo complesso che non si risolse nella spedizione dei Mille prima, nell’annessione del Triveneto dopo e nella presa di Roma poi. Una volta raggruppato il territorio sotto il tricolore sabaudo serviva dare una fisionomia accettabile al nuovo Stato, in maniera che dal centro alla periferia fosse possibile controllare, partecipare, interloquire ai vari livelli non soltanto sociali, ma anche amministrativi.
Per sporcarsi le mani con la burocrazia non c’era chiaramente l’eroe dei due mondi, né potevano impiegarsi i teorici dell’ideale. Sono due le figure che non avevano paura della concretezza della politica, della real-politik – si direbbe oggi – erano Bettino Ricasoli e Francesco Crispi.
Entrambi avevano in comune, sopra ogni cosa, il principio dell’unità nazionale. Tutti e due avevano, contro ogni possibile avversione, la missione dell’unità come legge base. Ricasoli e Crispi attivarono due azioni politiche che sono buona parte del fondamento dello Stato nazionale: Ricasoli (esponente della destra storica) decretò l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, dando le basi all’ordinamento statale; Crispi (esponente della sinistra storica) si oppose al tema fondante della cittadinanza italiana, ma anche se la sua posizione non fu vincente spiega bene, ancora oggi, un principio fondante.
Proprio Crispi, nel 1861, intervenne in Parlamento per offrire una variante alla proposta di legge del presidente del consiglio Camillo Benso Conte di Cavour con la quale individuare come ottenere la cittadinanza italiana. La proposta di Cavour aveva, in qualche misura, un’ispirazione poetica che arrivava dritta da Alessandro Manzoni e dalla sua famosa poesia V Maggio, nel passo che dice “che volle in lui/ del creator suo spirito/ più vasta orma stampar”. In sostanza Cavour indicò nella sua proposta che la cittadinanza italiana era acquisita da padre italiano. A questa tesi si oppose Crispi, discutendo animatamente in Parlamento. Crispi sosteneva che fosse più opportuno non associare la cittadinanza al sangue, ma al suolo, cioè – a suo parere – la cittadinanza italiana doveva essere acquisita da chiunque nascesse in Italia, e si spinse a proporre che al momento si doveva intendere italiano anche chi fosse nato in Trivenento o nello Stato pontificio, cioè in due aree territoriali che si comprendeva facessero parte idealmente dell’Italia, ma che in quel periodo erano ancora sotto la giurisdizione di altri stati.
L’idea di Crispi sembra semplice e di grande forza identitaria, portando in sé anche il vero spirito sociale di una nazione, vale a dire la responsabilità personale di ciascuno verso lo Stato piuttosto che verso la famiglia. All’epoca vinse la posizione di Cavour, per questo, forse, la cittadinanza degli italiani è intrinsecamente legata più al familismo che alla componente pubblica.
Ma adesso possiamo affrancarci dal sangue e diventare, invece di animali che difendono il branco, cittadini che onorano i diritti. Grazie allo Ius Soli.