Il nuovismo come ideologia, il presentismo come prassi / Il tempo del populismo
Azzardi e vie di fuga
In un recente intervento su La Repubblica Walter Veltroni ha richiamato la categoria del “presentismo” come decisiva nella comprensione dell’attuale rapporto fra politica e populismo. Veltroni rilancia così una categoria chiave di approfondite analisi politologiche come quelle di Diamanti e Lazar nel libro Popolocrazia (Laterza, 2018).
Tuttavia, tanto nella presa di posizione politica quanto nell’analisi politologica, c’è un limite che va colto e approfondito perché rischia di generare confusione: si dice infatti che il populismo è presentista pur sapendo che esso è contro il presente.
La cosa è evidente, tanto più nel momento di emersione del populismo, quando esso si oppone al “vecchio” come ciò che domina l’esistente. Ed è trasversale, dato che questo spirito è ciò che ha alimentato tanto i successi di Trump, della Lega, dell’UKIP o del Front National, quanto quelli del Movimento 5 Stelle o del renzismo fra rottamazione e Partito della Nazione, e ancora quelli di Podemos, Syriza o di Lopez Obrador in Messico.
Non è dunque il presentismo il tempo fondamentale della politica odierna benché, come vedremo, ne sia un ingrediente decisivo.
La temporalità che fonda la politica attuale e i suoi perturbanti cortocircuiti la si può forse intuire da una risposta di Jullian Assange in “sostegno” a Trump: “Donald? It’s a change anyway”.
Si potrebbe dunque parlare di cambiamentismo, ovvero di una politica che dà valore al cambiamento per il cambiamento, pur di farla finita col presente. Ma cambiamentismo è davvero un termine brutto. È preferibile dunque parlare di nuovismo, ovvero di un discorso politico che valorizza il nuovo per il nuovo. Il nuovo purché sia. Anche a rischio di conseguenze imprevedibili. Anche a costo di perdere tutto. Come in un gioco d’azzardo, come in un all-in fatto da chi crede di non aver più nulla da perdere.
Così pare accadere oggi in ampi “strati popolari” europei, spesso attratti dal richiamo populista, tanto più quello xenofobo e anti-europeista che gioca sulla percezione di una sicurezza economico-sociale perduta a causa della strana morsa dei privilegi delle élite e dei migranti.
Sarebbe interessante confrontare questa propensione all’azzardo populista, alla ricerca dalla radicale fuga dal presente, con la posizione di un populista sincero e un rivoluzionario vero come l’ex guerrigliero e ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica, che in una recente intervista invitava a ricordare le millenarie guerre che hanno scosso il nostro continente e ad aver più cura dell’Unione Europea.
Insomma, una via di fuga verso un populismo con memoria. O forse, a vederlo dalla prospettiva europea, un populismo non populista.
Qualcosa di nuovo, per favore
Un presentismo che si produce attraverso un’opposizione al presente. Proviamo ad articolare meglio questa apparente tensione contraddittoria.
Uno dei tratti caratterizzanti del populismo contemporaneo è la sua negatività. Ne abbiamo parlato altrove, lo hanno detto in tanti e per molti versi lo si percepisce in modo cutaneo: il populismo compatta le persone attorno all’urlo che vuole abbattere l’esistente – Vaffa! Rottamazione! Ruspa! – fino a polarizzare il campo sociale – Casta! Gufi! Rosiconi! – e rasentare nelle sue forme più intense ed estese una sorta di xenofobia metafisica in cui l’alterità interna ed esterna è sempre provocatoriamente disconosciuta. Tuttavia difficilmente un messaggio politico può sfuggire dal proporre una qualche “positività”. Che cosa hanno dunque di positivo i protagonisti dell’ondata populista contemporanea? Che si presentano come i portatori del “nuovo”. Anche quando sono anagraficamente vecchi e stravecchi. Anche quando sono sulla scena politico-sociale da lungo tempo. Anche quando hanno già ampiamente governato (spesso disastrosamente).
È chiaro dunque che il “nuovo” è qualcosa di più e di diverso di un puro fatto, sia esso anagrafico, generazionale, sociale: è, come si dice in semiotica, un effetto di senso. O, se si preferisce, è un senso capace di generare effetti, capace di incidere sulla materialità delle cose e nella concretezza dei vissuti.
Perché il senso è così. Allo sguardo ingenuo può apparire fatuo, fragile ed evanescente eppure è l’oggetto più potente. Persino contundente. In tal senso varrebbe la pena ricordare che “ne ferisce più la penna che la spada”. Se non fosse che anche la spada è un oggetto di senso, ma soprattutto se non fosse che è un oggetto fin troppo demodé: diciamo allora che “ne ferisce più un tweet che una pistola”.
Tuttavia questo sentimento del nuovo sarebbe ben poca cosa se non entrasse in relazione con altri oggetti e processi. Il già citato “vecchio”, innanzitutto, e più in generale la forma del tempo articolata nella vita sociale, con i suoi ritmi, i suoi orientamenti, i suoi rituali e sentimenti dominanti: contrazione o espansione, chiusura o apertura, timore o speranza. Si pensi nella storia recente (ma che già appare lontana) del nuovismo la capacità di Obama di emergere unendo, prima attraverso i suoi libri-manifesto (The Audacity of Hope; Change We Can Believe In) poi attraverso lo slogan della campagna elettorale (Yes, We Can!), speranza, cambiamento, noi.
Dunque valori, valori su valori: oggi l’autenticità, la semplicità, la rozzezza, la scorrettezza e molti altri ancora, che magari fino a un attimo prima erano considerati disvalori. Valori che manifestandosi attraverso lo stile d’azione o lo stile passionale di un leader che dà corpo a sentori diffusi questo senso del nuovo lo implementano, sostengono, concretizzano, opponendolo ad esempio alla complessità dell’“intellettualismo” e all’artificiosità del “politicamente corretto” (per non parlare dell’ipocrita fatuità delle “buone maniere”) che hanno dominato (avrebbero dominato) la vita sociale fino ad un certo momento.
Partiamo da qui dunque, anche per mostrare che il “nuovo”, tanto più il nuovo populista, è un oggetto tanto complesso quanto facilmente deperibile. O comunque mobile. Come ci ricorda, ad esempio, la parabola di Berlusconi: prima campione del nuovo, poi additato come vecchio dal nuovo nuovo. Poi, sulla soglia dei novant’anni, ancora alla ricerca di occasioni per rinnovarsi.
Forme del nuovo e contraddizioni coerenti
Ora per intendersi e per intendere quale sia il tempo del populismo bisogna distinguere l’articolazione superficiale della temporalità, facilmente identificabile attraverso categorie come vecchio/nuovo, passato/presente/futuro, dal suo ritmo profondo, che richiama differenze più fini a volte persino difficili da nominare se non ricorrendo a un linguaggio specialistico (che qui eviteremo) o a immagini e diagrammi: tempo continuo o tempo discontinuo; tempo d’ascesa o di caduta; tempo ciclico o tempo lineare; tempo che si presenta come istantaneo o disteso; tempo intermittente o regolare; tempo che indica un momento iniziale, un momento finale o un intermezzo fra il principio e la conclusione. Per non dire poi del modo in cui queste dimensioni si legano con le passioni del tempo che percepiamo a livello intimo, corporeo: nostalgia e speranza, rassegnazione e attesa, apatia o impegno...
A livello di superficie il populismo è contro il presente che, come abbiamo visto, viene spinto verso lo status di “vecchio” da abbandonare in favore del “nuovo”. Il populismo dunque è nuovista: è rivolto inesorabilmente verso qualcosa che non c’è e proprio per ciò merita di essere eretto a valore da perseguire.
Tuttavia mentre questo nuovo per alcuni è un futuro da inventare per altri è un passato da ristabilire. Verrebbe facile pensare che l’appello al nuovo futuro sia proprio del populismo “di sinistra” mentre quello al nuovo passato, sia proprio del populismo “di destra”: novità vs di nuovo, si potrebbe dire.
Come s’intuisce dalla semantica delle parole le cose in realtà sono molto più complesse, intricate. Si pensi al famoso slogan alt-right di Trump “Make America Great Again”: promessa in cui si mischiano un nuovo futuro di grandezza con la riproposizione di un valore che si suppone esser stato realizzato nel passato. Eppure anche a sinistra la creazione del nuovo popolo molto spesso si appoggia a eventi e valori già parzialmente accaduti – il socialismo, il repubblicanesimo, la Costituzione… – la cui realizzazione magari interrotta, incompleta, imperfetta va finalmente portata a compimento con gradi di traduzione e adattamento ai tempi nuovi più o meno forti.
O ancora si pensi al fatto che il populismo di destra nordeuropeo, proprio per aggirare le critiche di “regressività”, si presenta spesso come alfiere del tempo nuovo, vale a dire della modernità e di alcuni dei suoi valori, ad esempio in materia di diritti civili o di un generico libertarismo, come è stato mostrato da Diamanti e Lazar (Popolocrazia, p. 45). Una tendenza che arriva da più lontano, dato che si somma con la capacità delle forze tradizionalmente “conservatrici”, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, di associare se stesse e il liberismo non solo all’idea del cambiamento rispetto al modello socialdemocratico ma anche ad un sentimento di apertura di possibilità e opportunità che invece dovrebbe essere proprio della logica democratica e progressista (Alessandro Ferrara, Democrazia e apertura, Bruno Mondadori, 2011).
O infine si pensi al paradosso incarnato dalla Lega, che si è presentata costantemente come il “nuovo” e al contempo come il difensore della “tradizione”. Un’apparente contraddizione resa maneggiabile dai continui cambiamenti di tradizione, quella da difendere e quella da avversare: la tradizione del nord padano laborioso ed efficiente contro il sud terrone, fannullone e disonesto; la tradizione celtico-pagana contro la tradizione latina che porta dritta alla “Roma ladrona”; la tradizione cattolica (o ancor meglio “crociata”) contro quel calderone che rende omogenee identità distinte come islamico, musulmano, arabo, terrorista; la tradizione nazionalista (stavolta italiana) contro quella europea o contro le tradizioni degli altri, in primis “gli africani” ma non ultima quella solidarista cristiana incarnata da papa Francesco. Al netto di un’analisi puntuale c’è in questo florilegio contraddittorio d’identità “tradizionali” messe e tolte come felpe, d’identità che sono “tradizionali” ma che vengono presentate come da riscoprire per riscattarle dalla minaccia del presente, una capacità di rendersi continuamente nuovi, di rappresentare o creare continuamente nuovi conflitti “fondamentali”. Con un di più che non può sfuggire: ognuna di queste nuove identità tradizionali viene assunta portandola al massimo dell’intensità. Ciò consente di saturare il tempo fino a presentificarlo, vale a dire annullarne l’estensione, la memoria, come in una specie di trance. Se non fosse che questa estremizzazione della tradizione porta all’estremo nuovismo: la tradizione usata ed abusata si consuma, si logora, come una felpa indossata troppo e troppo intensamente, che dunque dopo un po’ va di necessità cambiata. Per passare a nuove tradizioni da spendere nel conflitto presentista dentro e contro il presente.
Fermiamoci qui, non senza però aver fatto notare che essendo costantemente contro il presente il populismo può facilmente (e coerentemente) contraddirsi. Può costantemente (ri)negare ciò che ha appena detto o fatto, tanto più quando è al governo. Tanto che i suoi sostenitori sembrano non farsi problema delle continue giravolte o promesse mancate, mentre ai suoi oppositori questo modo di essere ancor più che frutto di una smemoratezza degna di Dori la pesciolina appare malizioso come un leopardo nella savana che si camuffa e adatta all’ambiente, all’atmosfera, agli umori collettivi per far preda del consenso. Anche da qui, anche dal grado d’intensità di questo gioco di rinnegamento del presente appena passato, si potrebbe misurare la distanza fra una politica schiettamente populista e una politica di popolo, una politica che cerca di organizzare e rappresentare istanze inascoltate di equità, giustizia e emancipazione collettiva.
Ciò che è certo è che dicendo “populismo” si indica oggi un campo contraddittorio e paradossale in cui una delle poche cose che rimane salda è ciò che il populismo non può permettersi, quantomeno a livello retorico: l’accettazione del presente.
Ideologia e prassi del tempo populista
Abbiamo parlato di una temporalità profonda che spesso sfugge alla percezione immediata. Coglierla è necessario benché sarebbe ingenuo aspettarsi che qui le cose siano più semplici e facilmente maneggiabili.
Si pensi a come il nuovismo populista, volendo rompere con la continuità durativa tipica del presente (se il presente non è un puro “ora” allora esso deve essere qualcosa che dura con continuità da un certo lasso di tempo), si presenta con le caratteristiche paradossali del tempo apocalittico-escatologico: tempo “terminale” e “augurale” al contempo, tempo in cui tutto finisce e tutto (re)inizia.
Eclatante in tal senso la metafora dello tsunami, che così tanta parte ha avuto nell’emersione dei 5Stelle a fenomeno di massa, chiamata a rappresentare un improvviso, totalizzante cambiamento di stato. Un sentimento, una volontà di spazzare via il presente così radicale e viscerale da neutralizzare il senso, per altri versi necessario, implicato dall’evocazione dello tsunami, che spazza via tutto, tanto la casta quanto la gente, le élite e il popolo, gli empi e gli onesti, i forti e i deboli.
Si dirà che non bisogna prendere le metafore alla lettera eppure proprio sull’enfasi fideistica su questi slogan i leader populisti compattano le tensioni contraddittorie del corpo sociale che chiamano a raccolta. Il fatto che poi, dopo le peggiori sparate, si appellino per giustificarsi alla licenza poetica, alla coloritura retorica, al gusto innocente della provocazione non solo non toglie nulla alla ricezione “alla lettera” del messaggio da parte dei loro nuovi credenti ma soprattutto indica sintomaticamente la distanza fra le altissime aspettative generate dalla loro fantasmagorica evocazione del nuovo e la difficoltà di gestirne gli esiti, necessariamente e contrastivamente miseri, se non miserevoli.
Davanti all’attesa di uno tsunami costruttivo persino la berlusconiana promessa di un milione di posti di lavoro potrebbe retrospettivamente apparire un programma realistico, con i piedi ben piantati nel presente!
La parabola della trasparenza – dalle dirette streaming di un tempo alle opacità di Rousseau, della Casaleggio&Associati ecc. – o quella della purezza – dal mai alleati con il vecchio alle alleanze a geometria variabile pur di governare – può ulteriormente testimoniare di questa distanza fra aspettative e esiti del nuovismo, tanto più quando viene assunto esplicitamente come ideologia rivoluzionaria, come nel caso dei 5Stelle.
È in questa cesura, verrebbe da dire irrimediabile, che si annida l’esigenza del presentismo. In primo luogo perché il nuovismo quanto più ha successo, quanto più fa sorgere la sensazione di un tempo istantaneo, tempo di cambiamenti immediati, tempo che non prevede un tempo di transizione fra il presente e il futuro, fra il vecchio e il nuovo, e nemmeno contempla un tempo vuoto di eventi, un tempo di riflessione, elaborazione, preparazione dell’azione. E così pure della sua valutazione e eventuale ridefinizione a posteriori. Qualcuno ricorda, per fare un solo esempio, la così detta “annuncite” del renzismo al suo apice?
In secondo luogo la distanza fra le promesse e le realtà del nuovismo non può che produrre la fuga nell’istantaneismo come ultimo rifugio o come arma di distrazione. La polemica continua eppure ogni giorno diversa ne è potente testimonianza, tanto più quando si nutre di iperboli tanto facilmente scagliate quanto l’indomani dimenticate o quando si basa sull’evocazione di complotti che aleggiano, appaiono, scompaiono. A una società delle passioni, magari tristi, si sostituisce così una popolazione umorale, pronta a formarsi e sciogliersi, giorno dopo giorno, in un presentificante sensazionalismo. A conti fatti verrebbe dunque da dire che l’unica promessa che il nuovismo può mantenere è quella di offrire ogni giorno una presentificazione da consumare intensamente. Un presentismo in cui perdersi.
Da tutto ciò il presentismo come prassi. O ancor meglio come degenerazione e patologia del nuovismo, che del populismo è l’ideologia.
Nuovismo e presentismo dunque stanno generalmente su livelli diversi: uno fonda l’altro, ma nessuno esaurisce l’altro. I due piuttosto si mantengono in una costante e reciproca tensione. Quando i due invece si trovano sullo stesso piano (o sembrano stare sullo stesso piano) non possono che incarnare fasi e rivestire funzioni differenti: si potrebbe dire che il nuovismo sta all’esistenza poetica del populismo come il presentismo alla sua prosaica sopravvivenza.
Certo, come dicevamo, il presentismo può nel tempo guadagnare spazio e nutrire il mito dell’immediatezza: ma anche qui, il mito della democrazia diretta, per non dire del decisionismo che trasformerebbe gli umori e i desideri della gente direttamente nell’azione risolutiva del leader, si fonda pur sempre sull’attesa del nuovo, sull’idea che il nuovo possa accadere tutto di colpo, senza intermediazioni e senza residui.
In tutto ciò sorge e resta una domanda: che fine fa il popolo in un tempo ridotto a brandelli?
Il nuovo, ambivalente e necessario
La ricerca del nuovo – speranza, attesa, impegno per il nuovo – è necessaria a qualunque politica di emancipazione popolare e crescita collettiva. È consustanziale all’idea stessa di creazione: “Sapete, il popolo manca”, diceva Paul Klee, e per questo Deleuze chiosava che “non c’è opera d’arte – ma noi potremmo dire, azione politica creativa – che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora” (Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, 2003).
Di qui una fondamentale tensione fra il nuovismo come coazione all’immediata rottura sensazionale e il nuovo come persistente orizzonte dell’emancipazione creativa. Di qui la distinzione fra una politica che fa riferimento al popolo che c’è già (e tuttavia ogni giorno si sgretola attorno ai suoi malumori) o al popolo che ancora manca (e tuttavia è presente come forza che alimenta il persistente desiderio di una nuova esistenza)…
Questa fondamentale presenza del nuovo, questa ricerca di superamento del presente che segna certamente il nostro presente, va dunque vista e valutata (e al limite sostenuta) caso per caso. Soppesata nei molteplici modi in cui essa si traduce in pratica.
Quale (e come) nuovo? Reale volontà di trasformare l’esistente o piuttosto resistenza alle trasformazioni in corso percepite come minacciose; attivo slancio sul futuro o nostalgico ripiegamento sul passato; ricerca di un’inedita rottura del tempo o re-iterazione di ciò che c’è già stato; fuga in avanti fine a se stessa o spinta a rimescolare i tempi per poterli nuovamente tradurre; inoculazione nel corpo sociale del virus dell’istantaneismo o momento per fare finalmente i conti collettivamente con le migliori potenzialità abortite nel passato; movimento innervato dal ritmo teso della paura e della chiusura o da quello arioso della speranza e dell’apertura. Ognuno di questi elementi, componendosi, genera sfumature populiste diverse. Dal populismo virulento a quello a bassa intensità. Fino forse a prefigurare dei populismi sostenibili, o potenzialmente al di là dello stesso tempo populista, capaci di fare seriamente i conti con le aspirazioni popolari e i diritti dei popoli.