Paolo Fabbri da Rimini, abbas agraphicus
La pubblicazione de La svolta semiotica di Paolo Fabbri, nel febbraio del 1998, fu per molti versi un evento. Fabbri era infatti da più di trent’anni uno dei protagonisti internazionali della ricerca semiotica e delle scienze umane. Eppure, non esisteva – letteralmente – un suo solo libro in italiano.
Da giovane studente di Scienze della Comunicazione a Roma nel 1996 mi appassionai insieme a centinaia di miei colleghi allo studio del “modello Eco-Fabbri”, sviluppato dai due giovani studiosi ed amici alla metà degli anni Sessanta per spiegare il rapporto fra i media e i loro fruitori (non passivi). Se uno qualunque di noi avesse voluto sapere qualcosa di più del pensiero di Umberto Eco non avrebbe avuto difficoltà ad andare in biblioteca o in libreria e trovare corposi volumi. Ma in un tempo in cui internet era agli albori e l’idea delle riviste “open access” era di là da venire, era davvero difficile scoprire di Fabbri più di quanto dicevano i manuali che studiavamo. E poteva persino farsi strada l’idea che valesse per Fabbri quanto si diceva fra noi studenti di Lévi-Strauss: “dev’essere morto”.
Non era così, come avrebbe potentemente testimoniato di lì a poco proprio la presentazione di La svolta semiotica alla Sapienza. Organizzata da Isabella Pezzini, la presentazione – a cui parteciparono Alberto Abruzzese, Mario Morcellini, Jorge Lozano, Gianfranco Marrone – ci mise davanti a un inebriante dibattito pubblico proprio fra Fabbri e Eco. Uno di quegli eventi che può cambiare la vita.
Fabbri era dunque ben vivo e combattivo – come del resto il padre dell’antropologia strutturale – e dopo aver fatto ricerca fra Europa e Stati Uniti alla metà degli anni Novanta dirigeva il prestigioso Istituto di Cultura Italiana a Parigi, mentre faceva la spola fra Bologna e Urbino, dove aveva contribuito a fondare, rispettivamente, il DAMS e il Centro Internazionale di Scienze Semiotiche.
La singolare vicenda di Paolo Fabbri non aveva prodotto soltanto le nostre bizzarre mitologie studentesche ma ne aveva fatto un personaggio degno di ben altre storie: Umberto Eco lo aveva infatti immortalato in Il nome della rosa sotto le fogge di Paolo da Rimini, “abbas agraphicus”, abate che non scrive, appunto. Un altro amico di Fabbri, Jean Baudrillard, lo celebrava parlandone come di un “nume tutelare” portatore di un singolare “mistero”, che aveva proprio a che fare con “questa influenza e questa potenza totemica della parola, rafforzata dal tabù della scrittura” (in Eloquio del senso. Dialoghi semiotici per Paolo Fabbri, a cura di P. Basso e L. Corrain, Genova, Costa&Nolan, 1999).
Queste considerazioni che rendevano il vissuto intellettuale di Fabbri così peculiare erano false e vere al contempo. Erano false perché, come ricordava lo stesso Eco nel suo saggio apparso nel volume dedicato all’amico per i suoi sessant’anni, nella sua lunga carriera Fabbri aveva prodotto moltissimo, spargendo scrittura in una molteplicità di riviste e volumi internazionali. Era vera nella misura in cui questi scritti erano quasi sempre la risultante di conferenze: erano “interventi” – come dirà ancora Baudrillard – dentro dibattiti in corso e in risposta ad occasioni intellettuali specifiche.
La svolta semiotica non sfuggiva a questa condizione anfibia. Come ricorda Gianfranco Marrone nella prefazione alla nuova edizione del volume per La Nave di Teseo, essa nasceva infatti dalle “affollatissime lezioni” che Paolo Fabbri tenne a Palermo il 25, 26, 27 novembre 1996, su invito di Pino Donghi e della Fondazione Sigma-Tau. Questo contesto d’enunciazione da un lato conferma la produttiva loquacità di Fabbri, che peraltro preparava i suoi interventi con cura in vista della migliore resa della performance orale; dall’altro la sua ritrosia a scrivere di proprio pugno quanto andava argomentando, tanto che la prima edizione del libro uscirà per Laterza esattamente due anni dopo, proprio grazie alla trascrizione e rielaborazione di Marrone, che oggi ne cura la versione rivista e integrata con tutta una serie di preziosi saggi inediti in italiano, di cui diremo meglio più avanti.
Questi aspetti espressivi, che potrebbero apparire aneddotici, servono in realtà a introdurre alcuni dei concetti centrali della “svolta” proposta da Fabbri, nonché la profonda coerenza fra teoria e prassi nel semiologo riminese.
Il primo aspetto è che la produzione di significato è sempre un fenomeno stratificato, fatto di molteplici dimensioni interagenti. Quando si parla non si sta mai solo parlando – l’intonazione è già di per sé un modo di gesticolare – così come quando si scrive non si sta solo scrivendo – lo spazio bianco su cui imprimiamo le lettere è una tela su cui “disegniamo” anche quando non mettiamo emoticon. In altri termini, per produrre significazione stiamo sempre traducendo linguaggi gli uni negli altri. In tal senso, altra impostazione di fondo che Fabbri eredita dal suo maestro Algirdas Greimas, il mondo non è una realtà esterna ai linguaggi ma è esso stesso una grande semiotica, spesso inavvertita, fatta di una molteplicità di semiotiche implicite. Non a caso Fabbri, ripensando Latour, ci invita a pensare che i fatti – compresi quelli che associamo alla natura o alla scienza – sono in realtà dei feticci di cui abbiamo scordato l’essenza fatticcia. Cosa che non deve spaventare e che non espelle l’idea di verità, ma ci invita a coglierla (ma anche criticarla o difenderla) in relazione, come prodotto di quel lavorio che pur facendo il mondo noi tendiamo a non percepire in quanto tale.
Per questo Fabbri in La svolta rimarca che si avrebbe una visione limitata e povera del linguaggio se lo si considerasse come un puro strumento per rappresentare la realtà così com’è: essendo la realtà fatta di linguaggi, il loro uso è sempre un atto sociale, un intervento sul mondo, che implica un profondo agonismo, una serie di strategie e tattiche che la semiotica mira ad analizzare e mettere sotto critica con metodo.
Proprio come le metafore, le parabole, gli esperimenti di pensiero scientifici su cui Fabbri lungamente si trattiene, anche La svolta semiotica è un testo che pensa, una macchina che non smette di produrre idee o di spingerci a produrne. Ancor più precisamente, La svolta semiotica più che offrirci pensieri ci allena a pensare, ci offre uno stile di creazione. La sua stessa struttura in forma di lezione che a tratti vira al pamphlet (come ricorda Gianfranco Marrone) mira a generare un “obbligo di risposta”, per dirla con Fabbri. È un biglietto d’invito ad approfondire quest’arte del dialogo, di un dialogo vero che non nasconde le differenze, ma che parte da esse per definire sintesi possibili. La svolta, ancora oggi, serve a pensare con, attraverso e, se è il caso, oltre le sue argomentazioni.
A favorire questa dinamica creativa si aggiungono in questa nuova edizione cinque saggi inediti in italiano, quasi tutti pubblicati nel torno di tempo in cui Fabbri elaborava e proponeva la sua svolta. Si tratta di saggi su oggetti eterogenei: dal modo per comunicare in un lontano futuro la presenza di un deposito di scorie radioattive al ripensamento dell’idea di catarsi, dai musei alle statue all’applauso televisivo. Si potrebbe notare come e quanto tali saggi anticipino problemi della contemporaneità: il rapporto fra attori umani e non umani in un contesto ecologico sempre più fragile, il populismo inscritto nei, e instillato dai, prodotti mediatici, il ritorno dell’iconoclastia in rapporto con l’arte e il patrimonio. Solo per dirne alcuni.
Ma ciò che colpisce in questi saggi inediti è ancora una volta il modo di lavorare di Fabbri che davanti a grandi problemi teorici e sociali riparte dall’empiria, da fatti comunicativi apparentemente minimi, per azzardare ipotesi e tendenze generali: come nel caso dell’applauso televisivo che da un lato dà occasione di ripensare il rapporto fra pragmatica e semantica come qualcosa di interno al testo e dall’altro consente di pensare la relazione fra media e comportamenti sociali che in questo gioco di specchi vanno definendosi e rafforzandosi.
Questi saggi inediti in italiano ci ricordano, inoltre, quanto è grande e da esplorare il lascito di Paolo Fabbri. Un lascito fatto di interventi – scritti e orali al contempo – che è custodito nella sua biblioteca. Un patrimonio di libri letti e annotati che, per suo volere e non a caso, ha trovato casa presso quell’Università di Palermo in cui tenne le lezioni di La svolta semiotica.
In attesa che altri inediti emergano, vengano tradotti e/o pubblicati, converrà intanto ripartire da La svolta semiotica, un libro che ha segnato la semiotica italiana e non solo, indirizzando il lavoro di intere generazioni di studiosi verso una semiotica della cultura capace di ramificarsi in molteplici direzioni.
Oggi, del resto, non è più come allora: se è vero che purtroppo dal giugno 2020 Paolo non è più con noi, è altrettanto vero che a differenza del 1996 oggi abbiamo tanti suoi libri, da La svolta semiotica a Elogio di Babele, Segni del tempo, L’efficacia semiotica, Vedere ad arte, Rigore e immaginazione, Biglietti d’invito. Per non parlare delle molteplici sue curatele, a partire dai due volumi di Semiotica in nuce editi insieme a Gianfranco Marrone. Avevano ragione Eco e Baudrillard: Paolo Fabbri serbava un mistero. Quello di chi pur essendo “agraphicus” è stato capace di scrivere tantissimo. Ma se approcciando alla sua scrittura ci si ricorderà di sentirne la voce si potrà meglio cogliere la potenza viva del suo pensiero.