In difesa della cancel culture
Stilnovismo
“Prendi ad esempio due versi del sonetto”, mi dice, non senza ironia, la sedicenne studentessa di liceo: “Ella si va sentendosi laudare, benignamente d’umiltà vestuta… Non vedi che questa è la versione angelicata del catcalling? A cui ella si sottomette con gratitudine, alzando uno schermo di modestia, come se dicesse ‘grazie, grazie di cuore per gli apprezzamenti forse non meritati, sicuramente non richiesti, sulla mia bellezza celestiale’. Lo stilnovismo” continua la studentessa “è stata una grande fregatura per le donne”.
A parte il catcalling (per chi non lo sapesse, si tratta dell’abitudine di certi maschi di fare apprezzamenti molesti alle ragazze in cui si imbattono per strada), la tesi è che l’elevazione stilnovista del femminile a un ideale incorporeo di purezza collocato a metà tra il cielo e la terra implica che la dignità morale della donna possa manifestarsi pienamente solo vicino a quell’ideale, mentre qualsiasi compromissione terrena con il desiderio carnale la degrada irrimediabilmente. Per il maschio, invece, che è rimasto più in basso, vicino alla terra, l’indulgere al desiderio carnale non è squalificante nella stessa misura, perché il maschio è definito anche dalle sue pulsioni – è semmai proprio l’impotenza a squalificarlo. Così a lui si può chiedere al massimo di sublimare il desiderio, come fa il poeta stilnovista, per accedere a uno status morale più elevato. Alla donna, invece, si chiede di non desiderare affatto. “La donna onesta, come diceva tua nonna, è quella che non pensa nemmeno a certe cose.”
La conclusione è una richiesta molto precisa che la studentessa e le sue compagne di prima liceo vorrebbero fare all’istituzione scolastica: “O si tira un po’ dritto sul dolce stil novo nel programma di italiano, oppure, se proprio si deve approfondire, si facciano dei ragionamenti sulle conseguenze che questa estetica originaria del discorso amoroso ha avuto e continua ad avere sulla condizione femminile.”
Cancel culture, penso! Ecco che adesso vogliono far fuori Cavalcanti e compagni in quanto espressione di un punto di vista patriarcale sulla donna e sull’eros. Un caso esemplare di presentismo, aggiungerei, cioè di quell’atteggiamento critico per cui si giudica un’opera d’arte coi criteri morali del presente, senza inquadrarla nel contesto culturale che l’ha prodotta e rinunciando così a riconoscerne il valore, che potrebbe travalicare quel contesto ed essere percepito e goduto ancora oggi. Poi però mi ritrovo io stesso a riflettere per la prima volta dopo tanto tempo sul valore che ha per me questo componimento che tutti abbiamo imparato a memoria: Tanto gentile e tanto onesta pare, dalla Vita Nova di Dante Alighieri. All’epoca in cui ero liceale io, quei versi potevano ancora risuonare con un certo ideale di vero amore che continuava ad aver presa perfino tra i più viziosi di noi e che esigeva dal maschio intenzioni onorevoli e dalla femmina una dose apprezzabile di castità e candore. In effetti, ripensando adesso al personaggio di John Travolta in Grease – un riferimento, non dico un modello, per gli adolescenti di allora – si può cogliere, nella sua figura di bullo sciupafemmine che si innamora seriamente di una ragazza per bene, eterea, cerulea, bionda e casta e vive con lei per tutta un’estate una relazione amorosa innocente e senza sesso, un remoto riflesso di stilnovismo. Oggi invece, lo devo ammettere, il sonetto di Dante non risuona più con niente, non mi commuove, perché non fa altro che rappresentare un tipo di afflato amoroso/religioso nel quale né io né i sedicenni del 2023 ci riconosciamo più.
Qualcosa è cambiato
Il discorso sul femminile e sul suo rapporto con il maschile è in una fase in discontinuità epocale rispetto a un passato che dura da molti secoli, come a suo modo ci dice la studentessa. Nelle nostre società si è diffusa una capacità di discernimento nelle questioni di genere che fino a pochi lustri fa era prerogativa di una minoranza radicale. Sempre più persone – ormai una massa critica – sanno riconoscere la discriminazione dove un tempo non la si vedeva e nemmeno si cercava e, una volta riconosciuta, la condannano con un’intransigenza che la nostra storia non aveva mai sperimentato in questi ambiti. Lo testimoniano, tra molte altre cose, la rilevanza che i media mainstream stanno dando ai casi di molestie verbali e l’esecrazione che essi provocano in larga parte dell’opinione pubblica: i fuorionda del giornalista Giambruno, per esempio, con i suoi ammiccamenti sessisti alle colleghe, o il caso ben più trucido dei video di Depardieu girati durante un tour in Corea del Nord. Molti di noi non sono più disposti a classificare questi episodi come manifestazioni di esuberanza maschile, o di aderenza al proprio ruolo nel gioco dell’attrazione tra i sessi. E chi vuole ancora interpretarli così, considerandoli tutt’al più sconvenienti, ma per nulla abusivi, sa di schierarsi sul fronte di un conflitto culturale che attraversa tutta la società. È questo fronte la vera novità. Le femministe del secolo scorso si scontravano con un sentire comune ancora compatto, che tanto a destra quanto a sinistra faticava a riconoscere la legittimità delle loro rivendicazioni di parità e di rispetto nella sfera amorosa, sessuale e famigliare. Oggi il sentire comune su questi temi si è diviso definitivamente e in questo nuovo clima culturale perfino la lettura gender-oriented dello stilnovismo proposta da una liceale, per quanto la si voglia criticare, sarà accolta come l’espressione di una sensibilità moderna e non di un radicalismo marginale.
Woke e shitstorm: occhi aperti e odio cieco
Il cambiamento e, soprattutto, la sua accelerazione recente si devono in buona parte all’attivismo cosiddetto woke e alle istanze del politicamente corretto, in particolare ai movimenti #MeToo e Non Una Di Meno. Woke significa letteralmente svegliato e nel contesto dell’impegno sociale si riferisce a chi tiene gli occhi bene aperti sulle discriminazioni. Con questo significato la parola ha avuto diffusione a partire dalla metà degli anni Dieci del Duemila grazie al movimento Black Lives Matter e ha finito per riferirsi alla lotta contro qualsiasi discriminazione: razzismo, sessismo, omofobia, transfobia (avversione per la transessualità), afobia (avversione per l’asessualità), grassofobia ecc. Nonostante i loro enormi meriti, l’attivismo woke e quello per la correttezza politica ultimamente non godono di buona stampa e vengono spesso citati con intenzione screditante non solo da chi non si riconosce nelle loro istanze, ma anche da chi pur riconoscendovisi, ne critica le derive intolleranti e settarie, che hanno effetti controproducenti rispetto a obiettivi condivisibili. Secondo Davide Piacenza, autore di La correzione del mondo: cancel culture, politicamente corretto e nuovi fantasmi della società frammentata (2023, Einaudi), un saggio molto utile per chi voglia orientarsi nel complicato mondo dell’attivismo contemporaneo, le cause di questo discredito sono legate alle logiche della comunicazione social.
Il libro fornisce un repertorio impressionante e ben documentato di casi in cui l’eccesso di zelo di chi sui social ha voluto ergersi a portavoce di minoranze discriminate ha provocato vittime innocenti. Casi, ad esempio, di docenti universitari che hanno perso il lavoro dopo essere stati o state oggetto di campagne d’odio – più propriamente di shitstorm che in italiano si renderebbe con tempeste di merda – per avere espresso opinioni su temi sensibili non perfettamente allineate a una specifica corrente di pensiero woke o per frasi estrapolate da un ragionamento critico, articolato e tutt’altro che discriminatorio. Un fattore determinante nel montare delle tempeste sono gli algoritmi delle piattaforme, che premiano le prese di posizione nette, basate sull’individuazione di un bersaglio da ostracizzare e sulla riduzione dei termini di un qualsiasi dibattito a polarità senza sfumature. Un post incendiario congegnato come una chiamata alle armi contro qualcuno e pubblicato con l’intento di annichilirne la reputazione social, perché ha detto o fatto qualcosa che può essere considerato offensivo per una minoranza discriminata, ha alte probabilità di catturare l’attenzione degli utenti di una piattaforma, stimolando in ciascuno l’esercizio euforizzante dell’indignazione e della giustizia sommaria. Per questo viene favorito dall’algoritmo, che ne amplifica gli effetti, consentendo all’autore di accumulare like a valanga, ai follower di sentirsi attivi senza sforzo nella lotta contro le ingiustizie e alla piattaforma di generare traffico. Nella prospettiva della piattaforma, traffico vuol dire profitto e le tempeste di merda sono prima di tutto traffico.
Al contrario, una presa di posizione pacata e critica che dia conto della complessità di una questione e rappresenti con onestà intellettuale e senza condanne pregiudiziali le opinioni contrarie ha molte meno chance di guadagnare quote nel mercato dell’attenzione, così viene marginalizzata dall’algoritmo, come un cattivo investimento. “Chi ha bisogno di una società meno divisa e con più pensiero critico quando bisogna ingrossare un bilancio?” si legge a un certo punto nel libro di Piacenza, evocando en passant la madre o il padre di molti mali del mondo, cioè il primato del business su etica e politica.
Chi pratica l’attivismo sui social tende ad adeguarsi a quelle logiche e la sua sete di giustizia finisce per accompagnarsi e spesso per confondersi con la sete di like e di click, che diventano la misura dell’efficacia della sua azione. Il risultato è una militanza aggressiva e personalistica, da guerrieri della giustizia sociale, meno interessata ad armonizzare le molte voci dell’attivismo e più incline a fare risaltare la propria, per affermarsi come influencer con il supporto di follower acritici.
In difesa della Cancel Culture
Di qui, il discredito e l’accusa di indulgere troppo alla furia censoria, con iniziative come l’ostracismo mediante shitstorm di qualsiasi voce critica, o come l’esclusione di Via col Vento dai cataloghi della TV via cavo HBO, o la pretesa di emendare i testi di Roald Dahl da parole sessiste, razziste o grassofobiche. Discredito che rischia di offuscare il fatto che in molti casi, ben diversi da quelli appena elencati, la furia censoria dell’attivismo woke è rivolta verso posizioni realmente retrive e discriminatorie, che se la meritano. Si può poi discutere più in generale sul valore morale e sulla reale efficacia di censura, ostracismo, e iconoclastia nelle battaglie culturali. Quel che è certo è che non sono tattiche nuove: la storia è piena di libri bruciati, oppositori ridotti al silenzio e statue divelte.
Per identificare queste tattiche quando sono usate in una prospettiva progressista, orientata alla lotta contro le discriminazioni, è stato introdotto un neologismo, cancel culture, che ci aiuta a fare distinzioni tra censura e censura: il rifiuto di vendere il libro del Generale Vannacci nella propria libreria è, secondo i conservatori che condividono le sue idee, cancel culture, mentre il bando pregiudiziale di libri con contenuti LGBTQ+ nelle scuole americane sarebbe definito dai progressisti come oscurantismo o censura tout court, non cancel culture. L’abbattimento della statua di Edward Colston a Bristol, un commerciante di schiavi che aveva fatto anche cose buone, è cancel culture, mentre la rimozione di una bandiera arcobaleno dalla facciata di un palazzo è solo un atto repressivo. Nell’idea di cancellazione vi è un’implicita direzionalità. Si cancella ciò che è già scritto, non ciò che si deve ancora scrivere. Lo si cancella, spesso, con l’intenzione di riscriverlo meglio, alla luce di una consapevolezza nuova. Dicendo cancel culture si definisce l’oggetto della censura - incluse le idee di Vannacci - come elemento di uno status quo, come parte di un’interpretazione del mondo consolidata, impressa nelle nostre coscienze, che qualcuno vorrebbe rivedere e correggere. In questo, io vedo il grande potenziale della cultura della cancellazione, nonostante mi allinei alla condanna dei suoi eccessi. L’attivismo woke propone un cambiamento di prospettiva sulla storia e sul linguaggio che è salutare. L’imbrattamento del monumento a Churchill con la scritta “era un razzista” (citato anche da Piacenza nell’interessante capitolo dedicato alla revisione della memoria collettiva e dei suoi simboli), oltre a dirci che il grande statista molto probabilmente era un razzista, porta alla nostra attenzione aspetti del suo operato che sono poco noti, perché messi fuori fuoco dalla storiografia ufficiale. Come, ad esempio, certe decisioni che Churchill avrebbe preso tra il ‘43 e il ‘44, pur sapendo che esse avrebbero amplificato gli effetti di una spaventosa carestia nel Bengala, causando milioni di morti. Si tratta di questioni controverse, che lascio tutte agli storici, ma intanto il gesto di protesta ci invita a guardare la storia dal punto di vista delle popolazioni che sono state considerate sacrificabili e a ripetere l’esercizio sul presente per capire chi stiamo considerando sacrificabile oggi e guardare coi suoi occhi la storia nel suo farsi. È un invito che dovremmo accogliere, anche a rischio di demolire un simbolo della guerra al nazismo. Alla peggio ne troviamo un altro.
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