Telegenia / Intellettuali in TV: risse, chiacchiericci, figuracce

18 Aprile 2022

La TV accompagna la vita degli italiani dal 1954, eppure, per molti, i suoi funzionamenti sono ancora oscuri. Con la potenza del suo apparato riesce ancora a contaminare l'immaginario dei pubblici e a produrre effetti sul modo di essere e di vedere. Comprendere la logica del suo linguaggio appare ancora più necessario in questo frangente storico in cui l'imperscrutabilità di alcuni accadimenti, come la pandemia e la guerra in Ucraina, le hanno restituito un ruolo nevralgico all'interno del sistema dei media. Per analizzarne la grammatica del suo linguaggio è utile tornare a Rumore bianco, di Don DeLillo, un romanzo che racconta le vicende di una famiglia americana, che si raccoglie spesso nell'intimità della sua sfera domestica, e mentre i protagonisti sono a tavola a mangiare o in camera a chiacchierare, nei loro dialoghi sembra inserirsi una voce estranea e allo stesso tempo prossima.

 

I suoi interventi, sconnessi rispetto al senso della conversazione, divengono un rumore di fondo, uno sfondo nella vita dei personaggi. Lo scrittore americano interrompe ripetutamente la narrazione con delle frasi di disturbo attribuite alla televisione che ne frammentano la linearità e rendono fastidiosa la lettura. Si tratta di frasi ricorrenti che iniziano sempre con la formula “La TV disse: ...”. Il lettore avverte una presenza estraniante, anomala, che si ripercuote sulla sua lettura come sulle vite dei protagonisti, e l'effetto perdura fino a quando la presenza nelle pagine del romanzo non diviene familiare, prevedibile: fino a quando essa non ha più nulla da comunicare se non segnalare la rassicurante tangibilità del suo esserci, che per il lettore e anche per i protagonisti, nel lungo periodo, non rappresenta più un disturbo ma una necessità. Necessità di sentirsi vivi, di percepirsi nel risuonare della presenza altrui.

 

Con questo banale ma fatale affresco DeLillo disvela un fenomeno sociologicamente rilevante: la televisione si è istituita come orizzonte acustico e visuale dell'esistenza umana: la sua capacità di farsi mondo attraverso la fragranza delle immagini e la palpabilità dei rumori. Un mondo fisico e allo stesso tempo immaginario, in cui ogni volto che lo abita inizia ad essere non solo noto, ma familiare: diviene un topos, che mette in comune spettatori dislocati in varie zone d'Italia, consentendo loro di fare esperienza nello stesso frangente di un medesimo volto, di una stessa espressione, di un evento comune. La dimensione spaziale e fisica, che fa della televisione un mondo da abitare, si fonda sul principio elementare della ripetizione: i visi tendono a perdurare nello schermo a prescindere dalle ragioni della loro presenza. I personaggi fanno della propria evoluzione estetica, etica, psicologica la loro stessa fonte di attrazione. Come in una serie televisiva, il pubblico si incuriosisce e può affezionarsi ad un volto televisivo non tanto per ciò che dice, ma per il modo in cui lo dice e per le ragioni per le quali lo fa.

 

 

La televisione simula una prossimità inedita tra attori e pubblico, puntando tutto sulla personalità e su una relazione empatica piuttosto che sulla potenza dei contenuti veicolati. Una volta varcato lo schermo, l'uomo ordinario, il calciatore, l'esperto o l'intellettuale non è più interessante solamente in base alle sue conoscenze ma per le sue vicende. Può apparire paradossale, ma che si tratti di medicina, di relazioni internazionali o di qualsiasi altro argomento, ciò che conta per la televisione e per il pubblico è che dietro alle idee espresse si nasconda qualcosa di più. Tutto viene ricondotto alla telegenia: quella dote innata o coltivata di saper aderire alla natura complessa del medium. Come accade in un romanzo o in una serie televisiva, il pubblico della televisione generalista si trova a prendere parte all’evoluzione del personaggio, alle sue vicende e vicissitudini, stringendo un rapporto basato su una conoscenza intima, che contempla sia gli aspetti da ribalta (quelli istituzionali e basati sull'expertise) che quelli da retroscena (quelli privati, più legati alla sfera estetica ed emozionale). La potenza della celebrità costruita dalla televisione si fonda proprio sulla possibilità del pubblico di avere accesso al processo di fabbricazione del personaggio, che l’industria culturale aveva tradizionalmente tenuto segreto.

 

Questa condizione di conoscenza integrale, come scriveva Joshua Meyrowitz in Oltre il senso del luogo, porta però ad un cortocircuito comunicativo perché attori e pubblico "sanno troppo, in verità, per poter recitare i tradizionali ruoli complementari dell’innocenza contrapposta all’onniscienza". È quello che sta accadendo agli esperti che commentano nei talk show televisivi le vicende belliche di quest'ultimo mese. Persone perlopiù sconosciute al grande pubblico, diventate prima note e poi familiari fino a divenire dei topoi. Una presenza estemporanea può passare inosservata, e preserva lo statuto dell'esperto, ma la ripetizione, la serializzazione di una apparizione rende più vicina una lontananza, e trasforma persone sconosciute e distanti in personaggi familiari, spogliandoli del loro valore cultuale.

 

Ci si potrebbe domandare, quindi, come mai studiosi di lungo corso, professori universitari con posizioni consolidate, che sviluppano la propria conoscenza nelle aule universitarie attraverso una relazione produttiva con i propri studenti e i propri allievi, sentano la necessità di migrare nei palinsesti televisivi. Le risposte, ancora una volta, possono provenire da una narrazione dell'industria culturale. Nel film La fiera delle illusioni, di Guillermo del Toro, il protagonista è Stan, un uomo dall'infanzia complicata, che ha appena ucciso suo padre, bruciandone il corpo insieme a tutta l'abitazione.

 

Stan familiarizza con un gruppo di giostrai di un luna park itinerante, rimanendo da subito colpito dall'uomo bestia: un essere umano tenuto in una gabbia ed esposto al pubblico ludibrio in cambio della dose giornaliera di alcol e oppiacei. Una assuefazione che lo lascia piegare a soprusi e maltrattamenti, privandolo persino della disperazione. Stan è incuriosito, forse colpito da quest'uomo, e dimostra a più riprese sensibilità nei suoi confronti, nonostante l'ambizione lo porti a desiderare una vita e un destino totalmente differenti. Eppure, dopo aver tentato una carriera da mentalista e avendo fallito per colpa della sua hybris, Stan, senza altre possibilità, torna a chiedere lavoro in un altro luna park, finendo per divenire la bestia di quello spettacolo. È vero che il linguaggio televisivo non manca di fare mostra di tutta la sua terrificante spietatezza, sfruttando i desideri e le ingenuità degli uomini, che investono consapevolmente sull'esposizione delle proprie deformità per divenire delle attrazioni.

 

Ma non si può essere troppo indulgenti con chi per rincorrere dei successi evanescenti si presta ad investire sulle deformità del suo pensiero, del suo io e della società, consegnandosi alla gabbia televisiva come uomo bestia. Intellettuali o professori universitari, una volta varcato lo schermo televisivo, sono considerati alla stregua di un tronista, di un comico, di un uomo della folla: sono freak sui cui la televisione costruisce una narrazione. È impossibile non essere immediatamente consapevoli di questa condizione trasfigurata, eppure, come Stan, non riescono a fare a meno della scena, anche quando essa porta, inevitabilmente, alla loro catastrofe. La motivazione, apparentemente nobile, di immolarsi per la complessità è un pretesto peggiore dell'azione: evocandola non si fa altro che negare, ingenuamente, la potenza rivelatrice della circostanza.

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