Speciale

Italo Calvino: i classici tra i banchi

27 Settembre 2023

Definizioni

Nel suo celebre catalogo di definizioni ragionate sul Perché leggere i classici (in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, t. II, a cura di M. Barenghi, Mondadori, 1995. Tutte le citazioni indicate da S sono tratte da questa raccolta) Calvino si interroga, oltre che sulla natura di un libro “classico”, sulla complessità dei rapporti che ciascun lettore può stabilire con esso ricavandone conoscenze fondamentali su sé stesso e sul mondo circostante. Sin dal primo tentativo di definizione, sui quattordici complessivi, Calvino rileva l’importanza dei classici come «letture di “formazione” d’un individuo» e, pur evidenziando che «leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario», sottolinea il fatto che la «gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza» (S 1816-7). Subito dopo, però, nella seconda definizione della serie, innescando uno dei tipici movimenti del suo modo di ragionare fitto di antitesi e contrapposizioni, Calvino suggerisce che «si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli» (S 1817). 

È una formulazione che apre riflessioni interessanti sul rapporto che si stabilisce tra lettori e libri classici durante le diverse età della vita. In gioventù, infatti, la lettura di un classico può dimostrarsi anche poco produttiva «per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita», oppure, al contempo, molto formativa nel senso letterale di dare «una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza», che  ̶  osserva acutamente Calvino  ̶  agiscono anche, o forse soprattutto, al di sotto del livello della coscienza, continuando «a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla» (S 1817-8). È proprio allorché si rilegge un libro in età matura che «accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine», così che la «particolare forza» di un classico è quella «di farsi dimenticare in quanto tale» e, allo stesso tempo, di riuscire a depositare dentro il lettore «il suo seme» (S 1817-8). 

A partire da qui Calvino ricava la sua terza definizione, molto rilevante per una possibile pedagogia dei classici: se è vero che essi sono «libri che esercitano un’influenza particolare» nel momento in cui diventano «indimenticabili», è altrettanto vero che funzionano come modelli di pensiero e di azione anche quando «si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale» (S 1818). In questa prospettiva intergenerazionale, la lettura dei classici a Scuola assume un doppio valore: da un lato, svolge la funzione di fornire ai giovani un modello per imprimere una forma al loro futuro, tanto più essenziale in un mondo destrutturato e indeterminato come quello attuale, contribuendo a definirne radici e orizzonti, dall’altro mette a disposizione di chi insegna la possibilità di rileggere i classici, riscoprendone forza e valori. Infatti, nel caso di un classico, «ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima» (S 1818), soprattutto se fatta in rapporto a generazioni nuove e diverse, che dal classico ricavano inevitabilmente (e per fortuna) insegnamenti nuovi e diversi rispetto a quelli dei lettori più maturi. 

Il classico letto a Scuola è quindi non soltanto un ponte che collega epoche storiche molto differenti e a volte lontanissime tra loro, ma anche uno spazio di confronto potenzialmente proficuo tra vecchie e nuove generazioni di lettori. E, in un orizzonte extrascolastico, che è quello a cui sempre la Scuola dovrebbe guardare, la lettura dei classici è utile per ristabilire un rapporto autentico tra le diverse età della vita, tra la gioventù e la maturità e la vecchiaia, per rilevare i momenti di rottura e le linee di continuità tra ciò che eravamo e ciò che siamo diventati. Un’altra funzione del classico è, quindi, quella di mettere in contatto le nostre diverse identità, individuali e collettive, nel corso del tempo, tracciando una linea di continuità culturale tra antico e moderno. 

Tuttavia Calvino è ben consapevole del fatto che il rapporto tra la Scuola e i classici non è affatto lineare. Intanto «la lettura d’un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all’immagine che ne avevamo» (S 1819), per cui sarebbe importante invitare alla lettura diretta di un classico, per quanto ardua essa possa essere, più che ai testi critici che proliferano su di esso (mentre spesso, come sappiamo, a prevalere nelle antologie scolastiche, soprattutto alle scuole superiori, è l’esorbitanza degli elementi paratestuali). Invece «la scuola e l’università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d’un libro dice di più del libro in questione» (S 1819), e l’osservazione di Calvino sembra tanto più valida nella Scuola di oggi, dove gli studenti si nutrono degli innumerevoli “bignami” digitali che la Rete mette loro a disposizione, eludendo la lettura dei libri che dovrebbero leggere. In effetti, leggere i classici tra i banchi è prima di tutto un dovere perché «la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici» (S 1820) a partire dai quali ognuno potrà costruirsi una personale biblioteca di autori. È proprio attraverso la lettura dei grandi scrittori del passato che la Scuola ottempera al suo compito di dotare i giovani «degli strumenti per esercitare una scelta», un metodo molto più efficace dei sistemi di orientamento strutturato che si stanno imponendo oggi sin dalla scuola primaria, perché, come osserva giustamente Calvino, «le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola» (S 1820). 

Entrare in rapporto con i classici presuppone, difatti, la capacità di situarsi rispetto a essi, stabilendo «“da dove” li stai leggendo, altrimenti sia il libro sia il lettore si perdono in una nuvola senza tempo» e sviluppando così l’elaborazione di un proprio punto di vista sul mondo e di una propria identità che i classici aiutano a mettere a fuoco perché «servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati» (S 1824). Un’operazione antropologica che può realizzarsi anche entrando in conflitto con loro, come spiega bene la definizione 11: «il tuo classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui» (S 1821). Imparare a stabilire un rapporto critico con i classici è quindi un’acquisizione indispensabile che passa inevitabilmente per le aule scolastiche, dove studenti di qualsiasi provenienza sociale e geografica si scontrano con il dato di fatto che i classici esprimono «oggettivamente un modo d’essere della cultura occidentale» che è il prodotto di una parte; infatti, «i classici dell’umanesimo sono i classici di una parte, per giunta molto ristretta, dell’umanità: solo a posteriori, e come per effetto di una ricaduta, possono diventarlo di tutta» (A. Asor Rosa, Il canone delle opere, in Id., Genus italicum, Einaudi, 1997), e non senza inevitabili contrasti e contrapposizioni talvolta laceranti.

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Italo Calvino, foto dall’Archivio storico Istituto Luce.

Il «midollo di leone» dei classici

È quanto avviene anche allo stesso Calvino quando svolge, in varie modalità, gli esercizi di lettura dei testi che rientrano nel novero dei “suoi” classici. Tra gli scrittori italiani da lui più amati che si leggono ancora oggi a Scuola figurano autori come Ariosto, di cui, come è noto, Calvino produsse nel 1970 una magnifica riscrittura allestita specificamente per le scuole medie; Galilei, che anche in virtù della rivalutazione calviniana è entrato a far parte stabilmente della tradizione letteraria europea come grande ideatore di metafore; Collodi, il cui capolavoro «va considerato tra i grandi libri della letteratura italiana, di cui alcune componenti necessarie, senza Pinocchio, verrebbero a mancare» (S 801); Montale, un modello di «poeta pensante» (Lettere. 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Mondadori, 2000) di cui Calvino manda a memoria le poesie fin da giovanissimo. 

Un caso particolare, perché conflittuale, di lettura di un classico è rappresentato da Alessandro Manzoni, modello ineludibile per qualsiasi autore italiano che voglia scrivere romanzi. Interrogato nel 1959 dalla rivista “Nuovi Argomenti” sullo stato del romanzo italiano e su quali fossero le sue preferenze tra i romanzieri, nel testo Risposte a 9 domande sul romanzo Calvino elenca una serie di dichiarazioni d’amore per i suoi scrittori preferiti, finché, giunto a Manzoni, dichiara: «amo Manzoni perché fino a poco fa l’odiavo» (S 1529). La riscoperta del fondatore del romanzo italiano è consacrata in uno dei testi più belli del Calvino saggista, I Promessi Sposi: il romanzo dei rapporti di forza (1973), in cui viene focalizzata l’importanza del «ruolo della parola scritta» nella vicenda narrata, in particolare in rapporto all’analfabetismo di Renzo e Lucia e alle modalità da loro messe in atto per aggirarlo (S 330). È il «processo alla corruzione della cultura» istruito da Manzoni a finire sotto la lente di ingrandimento del lettore Calvino, secondo cui «la cultura è il luogo dove la debolezza umana si manifesta nelle forme per Manzoni più colpevoli; l’errore della cultura è per Manzoni un segno di condanna, una manifestazione della caduta» (S 330): osservazioni che dovrebbero far riflettere l’intero paradigma della Scuola contemporanea, dove la cultura ha smesso da tempo di essere la principale finalità del processo di formazione dei giovani e (a ben vedere) anche del sistema di reclutamento degli insegnanti. 

Accanto alla «sfiducia di Manzoni per la parola scritta», la cui verità è occultata sotto le «mascherature ideologiche del potere» (S 332-3), risulta esemplare, nella lettura di Calvino, la messa a fuoco dell’«esperienza brutale dei rapporti di forza» da parte dei due protagonisti illetterati (S 333). Nella descrizione delle «forze in gioco» che si oppongono al matrimonio di Renzo e Lucia, Calvino individua «una figura triangolare, che ha per vertici tre autorità: il potere sociale, il falso potere spirituale e il potere spirituale vero e proprio» (S 333), un disegno geometrico da cui emerge «una delle grandi dimensioni» del romanzo di Manzoni, ovvero la «complessità dei rapporti di forza» (S 334), che infine sono «il vero motore della sua narrazione, e il nodo cruciale delle sue preoccupazioni morali e storiche» (S 336). Il dato essenziale che deriva dalla lettura dei Promessi sposi è quindi l’insegnamento che «solo partendo da un’esatta cognizione delle forze contro cui deve scontrarsi, l’azione umana ha un senso» (S 341).     

È questa, a nostro avviso, la qualità fondamentale della lettura cui Calvino sottopone i classici: la capacità di scartare tutto ciò che è inessenziale alla loro comprensione più autentica e di estrarne la sostanza poetica, il «midollo di leone», come recita il titolo di uno dei suoi saggi più famosi, in cui Calvino definisce le «poche ma insostituibili» cose che soltanto la letteratura e i suoi classici possono «ricercare e insegnare» per metterle a disposizione delle generazioni future (S 21).

 

Valori per il nuovo millennio

Esempio radicale di questa concezione della letteratura sono le postume Lezioni americane (1985), in cui Calvino condensa una vera e propria biblioteca di classici immaginata come un sistema di complesse relazioni reciproche. La lezione sulla Leggerezza è aperta dal tentativo dell’autore di estrapolare dal discorso delle scienze un’immagine del mondo che corrisponda ai suoi desideri, con lo scopo di «riannodarsi a un filo molto antico nella storia della poesia» (S 636). Il ragionamento sull’attualità scientifica sollecita, quindi, anzitutto un’operazione di memoria, a segnalare l’importanza fondamentale della persistenza nel tempo dei valori di cui i classici sono portatori. 

Il primo dei grandi autori chiamati in causa è Lucrezio, il cui De rerum natura si presenta come la «prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero»: un’idea che trova una persuasiva corrispondenza con quello che oggi «ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare», ovvero che «il mondo si regge su entità sottilissime» (S 636). In questo modo Calvino mette in luce tanto l’attualità di Lucrezio (e di Ovidio, che vi è immediatamente accostato) quanto la lunghissima durata di quel processo tipicamente umano che corrisponde alla conoscenza di ciò che lo circonda: la leggerezza si presenta pertanto come «un modo di vedere il mondo che si fonda sulla filosofia e sulla scienza» (S 638).

Altrettanto significativa per il nostro discorso è la felice combinazione Boccaccio-Cavalcanti-Dante che serve a isolare un classico campione di «leggerezza della pensosità» (S 638). Dal Decameron (VI 9) Calvino ritaglia la figura aerea di Guido Cavalcanti, il quale, liberandosi con un salto, «sì come colui che leggerissimo era», dalla brigata di cavalieri che lo opprime, è eletto a «simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio» (S 639). Nell’«agile salto del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo» Calvino vede una contrapposizione alla supposta «vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante» (S 639), molto simile all’incessante frastuono che proviene dalla Rete in cui gli studenti trascorrono buona parte del loro tempo. 

L’immagine di Cavalcanti permette a Calvino di collegarsi a Dante, tramite la citazione di un verso cavalcantiano («e bianca neve scender senza venti») nell’Inferno (XIV 30: «come di neve in alpe senza vento»). La connessione serve anche per tracciare un rapporto che innesca una riflessione sulla doppia vocazione della letteratura italiana ed europea, inaugurata, secondo Calvino, proprio da Cavalcanti e Dante: «l’una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d’impulsi magnetici; l’altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni» (S 642). Dante sarà di nuovo citato nella lezione sulla Visibilità per definire l’immaginazione come facoltà umana che ha il potere di «rapirci in un mondo interiore strappandoci al mondo esterno» (S 698) e che i nostri giovani stanno progressivamente perdendo mentre, se ben insegnata a Scuola, potrebbe costituire invece la forma di resistenza più forte alla socializzazione forzata, e sub specie digitale, cui l’esistenza contemporanea è sottoposta.

Nella prima lezione, così come in Rapidità ed Esattezza, c’è spazio anche per Leopardi, uno dei classici prediletti da Calvino e uno degli scrittori più amati ancora oggi dagli studenti. Il poeta di Recanati, «nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna» (S 652). È nel «potere di alleggerimento della luna» che Calvino riconosce «il miracolo di Leopardi», consistito essenzialmente «nel togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare» (S 652).

Dalle Lezioni americane, quindi, emerge una delle principali funzioni che Calvino assegna alla letteratura, quella di rispondere alle «necessità antropologiche» della nostra specie (S 654). Inoltre, osserva lo scrittore con uno spirito profetico che oggi appare stupefacente, «in un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, e rischiano d’appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo la vocazione propria del linguaggio scritto» (S 668). È in fondo il senso più radicale di ogni operazione letteraria secondo Calvino: dare forma e significato alle esistenze umane nel corso del tempo. Il valore persistente della lettura dei classici nel nuovo millennio sta (soprattutto) in questo.

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