Jacques Tati, il paradosso del genio ignorante

4 Marzo 2023

Chi era Jacques Tati? Un intellettuale, un artigiano, o un genio? La sua vita è stata coerente con la sua arte? Era gentile con le persone come lo sono state le sue opere nei confronti del pubblico? E perché ha fatto così pochi film? Sono molte le domande che sorgono spontanee nell’attesa di leggere la storia di uno dei più importanti artisti del ‘900, ma tutte in fondo riguardano il nesso tra arte e vita, tra pubblico e privato, tra noto e ignoto. Spesso, quando si sta di fronte a delle opere d’arte che rivendicano un certo grado di unicità non si resiste alla tentazione di farsi domande su chi ha prodotto e costruito queste opere, anche con il rischio di rimanere delusi. A questo proposito Vita e arte di Jacques Tati, la biografia di David Bellos apparsa per la prima volta nel 1999 in lingua inglese e ora disponibile anche in italiano grazie all’editore Sagoma, non ha paura di deludere le aspettative; anzi, prova un certo gusto a smontarle subito. Dichiarando un approccio che poco ha a che fare con la storia del cinema e ancora meno con la critica cinematografica, il francesista e traduttore Bellos introduce alla sua lunga analisi della vita del regista francese chiedendosi: “Come ha fatto quell’uomo a realizzare quei film?”. 

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Jacques Tati nel 1961, in una foto di André Cros (Fondo André Cros, Archivi della città di Tolosa).

Secondo Bellos, Jacques Tatischeff (questo il vero cognome) è prima di tutto un puzzle da risolvere. La sua ricerca, dichiara, è stata mossa dalla volontà di comprendere come sia stato possibile che quest’uomo, non certo un intellettuale in senso stretto, sia riuscito a realizzare non solo “una serie di film che, considerati tutti assieme, sono molto più della somma delle loro parti”, ma anche un’opera che è “insieme una storia della Francia molto obiettiva e l’espressione di una sensibilità fortemente personale”.  È certamente curioso, se si considera la statura acquisita negli anni da Tati in termini di considerazione critico-artistica, che il punto di ingresso scelto per chiarire il suo ancora irrisolto intreccio biografico sia quello del “paradosso del genio ignorante”. Come è possibile mettere in dubbio le doti di uno dei grandi registi del ventesimo secolo, l’erede di Buster Keaton e Max Linder? 

Bastano poche pagine, però, per riconoscere l’assenza di malafede di Bellos e accettare lo scossone cognitivo come prezzo da pagare per scoprire l’eccezionalità del Tati artista. I dati raccolti e verificati con grande cura nel corso degli anni (impressionante la quantità di fonti consultate, dalle missive private agli archivi storici, fino alle testimonianze d’eccezione, come quelle della figlia Sophie Tatischeff e del regista Pierre Étaix) fanno giustizia, con una lucidità scevra da ogni tentazione agiografica, dell’operato di un genio che, sì, ignorava tantissime cose, ma ha dimostrato come la “combinazione di artigianato, osservazione, sensibilità e intelligenza (un’intelligenza piuttosto speciale)” possa essere “all’origine di un’arte significativa”. 

Per ottenere il distacco necessario, Bellos non parte dalle opere di Tati; anzi, quasi fa finta di non conoscerle tutte, evitando sulle prime di menzionare Playtime (1967). Non una disattenzione, ma quasi un gioco di prestigio, dal momento che un quarto del volume è dedicato proprio al capolavoro del regista. Tutta la biografia punta lì, al film di una vita e fallimento di una carriera, che lancia per sempre Tati fuori dall’orbita (“È l’Europa del 1968 filmata dal primo cineasta marziano”, sintetizzava bene Truffaut), ma parte da lontano: dall’infanzia e l’adolescenza di un ragazzo nato nel 1907, dall’aria non molto sveglia (“era un ragazzino molto stupido”) e senza particolari talenti, obbligato a lavorare nel negozio di cornici del nonno per non perdere la testa dietro lo sport e le piccole performance mimiche con cui diverte i compagni di rugby alla fine di ogni partita. 

La capacità di Bellos di saldare l’aneddotica disponibile in un disegno non solo ordinato, ma anche possibilmente già pronto a rispondenze simmetriche e rime biografiche osservabili a posteriori, è ammirevole. Se durante la lettura è facile riconoscere una serie di indizi sparsi e chiedersi quale di essi condurrà all’evento determinante per la futura vita artistica di Tati, l’autore è comunque pronto a ridimensionare ogni spinta “teleologica”, riconoscendo talvolta nel regista un sospetto mitografo di se stesso, abituatosi negli anni a costruire un’autobiografia rivelatrice della propria personalità artistica. 

Bellos è pronto a smorzare il legame – suggerito dallo stesso regista – tra Le vacanze di Monsieur Hulot (1953) e i ricordi della prima, malinconica, esperienza marittima di Tati con il padre, che, richiamato alle armi durante la Grande guerra, passeggiava sulla spiaggia con indosso l’uniforme anche quando era in licenza. Preferisce invece mettere in risalto gli aneddoti relativi al sofferto impiego come corniciaio presso l’impresa di famiglia, esperienza che secondo Bellos costituisce per Tati una prima educazione al cadrage invisibile (“la migliore cornice è quella che si vede a malapena”), e quindi all’inquadratura che trova la perfezione nella sua paradossale scomparsa. Un’inquadratura impossibile, che in Playtime Tati cercherà di estendere al massimo, inventando da zero un mondo pur di rappresentarlo in apparente trasparenza.

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Tati nel 1938.

Allo stesso modo, il biografo non manca di ricordare la prima gag del piccolo Jacques, che un giorno, dopo aver pronunciato ad alta voce davanti ai compagni la frase “Io chiudo la porta”, uscì dalla classe senza fare più ritorno. Un episodio che se da un lato anticipa le performance mimico-sportive (le cosiddette impressions sportives), che Tati continuerà a riproporre negli anni fino al suo ultimo spettacolo filmato, Il circo di Tati (1974); dall’altro mostra in nuce il senso della sua comicità: l’intensificazione del gesto ordinario come riconciliazione con tutte le forme della vita. 

Mentre le vicende umane di Tati si intersecano con i principali eventi della Francia novecentesca, Bellos riesce a tenere insieme il tutto cambiando continuamente focale e senza mai perdere il nitore dell’inquadratura. Dal primo piano sulla vita del suo protagonista al campo lungo del panorama sociale e politico del Paese, il biografo attraversa con passo deciso la prima fase dell’età adulta della futura star. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, Tati è richiamato dall’esercito francese: finalmente sollevato dall’odiato lavoro di corniciaio e galvanizzato dall’incontro con altri coetanei destinati a diventare suoi amici, Jacques vive l’esperienza con ingenuo entusiasmo. Un entusiasmo destinato a venir meno con la sconfitta della Francia e la successiva occupazione nazista del Paese, durante la quale – con un po’ di astuzia ma senza cedere al collaborazionismo – Tati riuscì in qualche modo a proseguire la propria carriera sui palcoscenici della Capitale. 

Bellos lo insegue nel suo zigzagare all’interno della Francia occupata, rilevando con precisione la crisi dello humus culturale dell’epoca, che vede il crollo dell’industria cinematografica e lo scioglimento dell’alfabeto burlesque nel discorso culturale parigino.

In particolare, lo studioso attira l’attenzione sulla forza creativa delle prime performance pubbliche, pensate con l’aiuto di amici destinati a una carriera di primo piano nel dopoguerra (fra questi, l’economista sociologo Alfred Sauvy e il commediografo Tristan Bernard), approfittandone poi per analizzare la qualità del pensiero di Tati. Forse senza neanche saperlo, già in queste prime, geniali improvvisazioni, il suo talento comico è capace di prefigurare quello che sarà il linguaggio dell’avanguardia più avanzata – il teatro brechtiano, la Pop Art – ovvero l’espressione del reale attraverso una straniata ricostruzione del reale stesso. 

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“Mio zio”, 1958.

Fissato questo punto teorico (Bellos è più generoso con la teoria dell’arte in senso lato che con la teoria del cinema), nelle successive trecento pagine la biografia passa in rassegna le opere di Tati. Il trattamento è diverso rispetto a quello riservato ai corti che Tati aveva girato all’inizio della sua carriera, dapprima come attore (Gai dimanche, 1935; Soigne ton gauche, 1936) e in seguito anche come regista (L’École des facteurs, 1947). Bellos affianca le osservazioni sull’immagine e i riferimenti alla teoria del comico alle nozioni tecniche e produttive, non mancando di soffermarsi sugli esiti critici e commerciali dei singoli lungometraggi. L’obiettivo è quello di aprire a fisarmonica tutto lo spettro di un artefatto complesso e transmediale come quello del film à la Tati, che ha progressivamente cercato la trasformazione della proiezione in spettacolo espanso, per guidarlo in una composizione che renda conto di quella combinazione di artigianato e sensibilità evidenziata all’inizio come caratteristica centrale dell’opera dell’artista francese. 

Il filo rosso che guida l’analisi dei film – da Giorno di festa (1949) all’ultimo cortometraggio Forza Bastia (montato da Sophie Tatischeff nel 2002 a partire dal materiale girato dal padre nel 1978), passando per i successi internazionali delle già menzionate Vacanze e soprattutto di Mio zio (1958), fino alla maledizione di Playtime – rimane comunque il paradosso del genio ignorante, che nel corso delle pagine si è arricchito di altre definizioni caratteriali: il crudele perfezionista, il misterioso malinconico, l’eccitato lunatico, l’irrimediabile imbranato, lo spendaccione inguaribile, il genio in esilio. Il pregio di Bellos non è tanto quello di dare uno spessore credibile a tutte queste definizioni tramite un corredo di testimonianze e fatti comprovati, ma di combinarle tutte insieme, a favore di una sorta di ritratto “cubista”. L’effetto che si prova leggendo questa biografia è quello di veder sfrecciare Tati tra le righe, nell’illusione di un movimento che si intravede ma non si cattura, come in una danza evocata da un flipbook, assumendo la postura della sua creazione più famosa: la linea spezzata e dispersa dell’Hulot dissolto tra la folla e le architetture della modernità. 

Determinato a risolvere il mistero, con la struttura bipartita del suo libro Bellos proietta sulla pagina l’intero archivio memoriale del regista, per poi leggerne in filigrana la forma ribaltata nelle sue immagini. Eppure, ben presto si trova a fare i conti con qualcosa che eccede questo approccio: come se a un certo punto, che corrisponde grosso modo all’analisi di Playtime, tutto assumesse una scala troppo grande per essere riassunto, e Bellos fosse costretto a capitolare di fronte alla serie di interrogativi con cui aveva aperto.

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“Playtime”, 1967.

Così, anche verso le pagine finali, l’autore continua a chiedersi, senza risposta, quali fossero le premesse teoriche di un’opera di assoluta coerenza e tuttavia ignara tanto degli studi di Debord (che ammirava i film di Tati) sulla società dello spettacolo, quanto di quelli di McLuhan sul villaggio globale; come fosse possibile che Tati dimostrasse una maestria invidiabile nel controllo dell’inquadratura ma non fosse a conoscenza delle nozioni più elementari delle tecniche di ripresa (come riportano in un misto di ammirazione e incredulità i Fisher, decani svedesi del framing cinematografico che lo aiutarono nella lavorazione dell’incompiuto TTV, progetto satirico sulla televisione); o ancora cosa volesse veramente dire l’invenzione di Hulot, maschera comica ammutolita nell’imbarazzo cronico, pensata per una progressiva disintegrazione atmosferica (Tati sognava una dispersione di Hulot in vari medium). 

Cedere di fronte all’enormità di un paradosso non è però un fallimento. Il successo della biografia di Bellos consiste non solo nell’aver prodotto un nitido campo/controcampo della vita artistica di Tati e della società in cui è vissuto, ma di avere messo in moto il mistero e risolto l’impasse in cui scivolava l’intenzionalismo radicale della critica autorialista, di fronte all’incongruenza di un inventore di forme unico e rivoluzionario, ma al tempo stesso inconsapevole e improvvisato. Raffreddando l’apologia delle intenzioni e riconoscendo in Tati soprattutto uno straordinario osservatore del mondo circostante e un acuto ascoltatore delle intuizioni altrui (il libro è in parte anche la storia dei collaboratori di Tati, dal sodale pittore Jacques Legrange all’ex allievo Pierre Étaix), Bellos ha restituito comprensibilità a un profilo che restava a rischio di fraintendimento (è il caso dell’accusa di conservatorismo spesso rivolta a Tati, che invece pensava sempre a una vita che sapesse riconciliarsi con la tecnica), evitando al tempo stesso le polverose musealizzazioni. 

Come ricorda Maurizio Nichetti nella commossa prefazione all’edizione italiana – che arriva a quarant’anni dalla morte del regista, avvenuta nel 1982 – Tati resta una visione incredibile, di cui non si è mai certi. Più sguardi torneranno sulla sua opera e sulla sua vita scorrendo le pagine di Bellos, più le gambe irrequiete dell’artista si muoveranno al passo di una rinnovata vitalità. 

David Bellos, Vita e arte di Jacques Tati, traduzione di Nunziante Valoroso, prefazione di Maurizio Nichetti. Sagoma, 2022, pp. 496, euro 28.

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