Tra cinema e “psicomagia” / Jodorowsky: pensiero astratto, pensiero magico

21 Novembre 2019

Poeta prima che cineasta, attore prima che drammaturgo, personaggio prima che persona, ma prima di tutto pensatore, laddove il pensiero è la chiave immaginativa per comprendere la realtà. 

Psicomagia, un’arte per guarire è l’ultimo film di Alejandro Jodorowsky, distribuito in Italia lo scorso 8 ottobre – un documentario che sintetizza in maniera semplice ed emozionante il lungo percorso che ha portato l’autore cileno a dedicarsi al personalissimo progetto di “Terapia Panica”.

 

Alejandro Jodorowsky è nato in Cile nel 1929, a Tocopilla, un porticciolo cileno stretto tra il gelido Oceano Pacifico e la regione arida del deserto di Tarapacà. A dieci anni, con la famiglia si trasferisce a Santiago, la capitale. Ricorda spesso la sua giovinezza in Cile, un paese che definisce “tremolante”, surreale, perennemente instabile e in continuo stravolgimento. Ripercorrendo la sua vasta e avventurosa biografia vi si trovano diversi aneddoti, fra tutti quello di quando lui e il suo amico Lihn – poi divenuto un affermato poeta in Cile – decisero di camminare in linea retta senza fermarsi mai. Questo significava che, se incontravano un’auto parcheggiata, ci salivano sopra mantenendo sempre la stessa direzione. Se incappavano in un muricciolo, lo scavalcavano; allo stesso modo facevano con un cancello. E se davanti a loro capitava una casa? Bene! Non avrebbero dovuto far altro che suonare il campanello, farsi aprire e attraversarne il salotto, per poi uscire dalla prima finestra utile. 

 

È passato diverso tempo, ma da allora, in un certo senso, Jodorowsky non ha mai smesso di proseguire secondo quella linea: retta, profondamente, coraggiosamente poetica. Non è un caso se, nel corso della sua vita e della sua eclittica ricerca artistica, Jodorowsky abbia sempre di più imperniato le sue immagini di un aspetto mistico ed enigmatico, incentrato sulla forza evocativa delle azioni – atti puri, che si traducono in gesti effimeri, ma essenzialmente belli. Jodorowsky stesso si diverte a provare a eliminare il caso, le congetture dalla sua vita e dalle sue esperienze creative, così che tutto si elevi a significato simbolico di un destino scelto – la sua vita assume i connotati tipici di una fiaba, i cui tasselli incantati si compongono uno dopo l’altro – La sua attività di artista (recuperiamo qui il significato della radice indoeuropea ar- da cui arto, articolazione, ciò che unisce e rende possibile il movimento) trae origine da una spiccata attitudine al pensiero, un’attenzione autentica e personale (vagliata costantemente attraverso gli avvenimenti del proprio vissuto) rivolta verso sé stesso e gli altri. Questo gli ha permesso di sviluppare nel corso del tempo un linguaggio sempre agli antipodi rispetto alle forme precostituite, trovandosi a svolgere un lavoro ai “margini”, giocando sull’orlo dei significati e del tipo di comprensione di questi ultimi. Un’ambizione eccentrica in prima istanza, che ha prodotto nel corso del tempo un effetto di fascino e repulsione, allontanando grande pubblico e critica dai suoi film: El Topo (1970), La Montagna Sacra (1973), o il circense e mirabolante Santa Sangre del 1989 – che proprio in questi giorni, in occasione del suo 30° anniversario, viene riproposto in sala – sono oggi ritenuti cult del cinema sperimentale, ma che troppo spesso, anche inconsciamente, vengono tacciati di essere esercizi più o meno sofisticati di un provocatore sconclusionato. 

 

 

A ben guardare ogni suo tema, ogni sua incursione nel campo dell’arte è sempre stata pertinente rispetto al suo tempo e al proprio spazio d’indagine, ed è stata portatrice di un forte valore di attualità; valore che più comodamente preferiamo attribuire alle opere del passato in cui ritroviamo dettami più “realistici”, o meglio, comprensibili secondo quei rapporti causa-effetto che assumono le sembianze di un rigore dimostrativo. L’opera di Jodorowsky, considerata nel suo complesso, è disseminata di rimandi alla “Realtà", al vero storico e sociale. Ogni contesto agisce sullo sfondo delle sue fantasie, ma egli può mano a mano trasformarlo proprio perché ne è pienamente consapevole. Come un alchimista è in grado di mutare la materia proprio perché ne conosce a fondo le caratteristiche ed è certo della materialità del mondo, così Jodorowsky può agire sul pensiero e sui linguaggi espressivi scardinandone ogni saldo legame convenzionale, per ridurre sempre di più spazio ai generalismi e raggiungere una limpidezza poetica di straordinario valore conoscitivo: ecco, un’immagine! Sembra dispiegarsi come un sogno, un’atmosfera che pervade la scena. I colori e i dettagli scintillanti di cui è disseminata catturano lo sguardo sollecitando lo stupore. 

 

Al contrario di ciò che sembra, le riproduzioni della realtà potrebbero essere ben lontane dal coglierne l'essenza, e sarebbe ingenuo pensare che possa esistere un “ricettacolo” per accedere alla sua comprensione. Il cuore della realtà è forse un principio d’indeterminazione, un qualcosa di inafferrabile e imprevedibile. In questo senso, Jodorowsky ha sempre tenuto a considerare il carattere complesso e mutevole della realtà, senza lanciarsi in riduzioni approssimative. Così, nel suo universo filmico, veramente si assiste a “una sorta di meraviglioso atmosferico, quasi congenito” (Etienne Souriau), che porta al mondo un sentimento, “il ritorno verso affinità ancestrali della sensibilità” (Moussinac e Henri Wallon) – per riprendere alcuni concetti che usa Edgar Morin nel suo saggio Il Cinema o l’uomo immaginario – ma questo non si limita soltanto al linguaggio cinematografico, ed è elemento di coesione fra tutte le manifestazioni di un “agire” creativo fra i più interessanti e completi del ‘900. 

 

 

Ma tralasciamo per un momento il cinema: ci ritorneremo poco più avanti. L’espressione cinematografica a cui vorremmo qui rivolgere l’attenzione è da considerarsi come manifestazione ultima di un percorso altro, che esula in massima parte da percorsi predeterminati. Al di là di ciò che Jodorowsky è stato, cerchiamo di scoprire cosa egli ancora può diventare, dal momento che ci troviamo difronte a una figura in continuo divenire, che è sempre prossima al superamento di se stessa. L’occasione ci è data da quell’insieme di ricerche che ibridano psicanalisi arte e filosofia, unitamente a un gusto originale per il misterioso e la pratica magica, che è stata raccolta, negli ultimi dieci anni, sotto il titolo di “Psicomagia”. Similmente a un pensatore dell’antichità classica, Jodorowsky s’è imbattuto in un cammino di constante dialogo con l’altro, dove i confini tra spiritualità ed esercizio pratico, arte e scienza, sono andati a sfumare per aprirsi a nuovi significati. È cominciato tutto in Cile, a Santiago. Ben presto, il giovane Alejandro e i suoi amici hanno preso a concentrarsi sulla bellezza effimera di quegli “atti” di cui sopra – azioni compiute, in un primo momento, con la spensieratezza e la follia della giovinezza, ma che, in seguito, hanno segnato l’inizio di quello che Jodorowsy avrebbe chiamato “Cabaret Mistico”. Il Cile intorno ai primi anni del ‘900 era una terra vibrante, instabile, ma proprio il turbamento dello stato d’animo generale deve aver favorito lo scambio tra forze artistiche di straordinario spessore: tutto era permeato da un’atmosfera di Poesia. Pablo Neruda, Nicahor Parra, Vicente Huidobro animavano il cuore dei giovani cileni con il loro atteggiamento estetico e ribelle. Erano artisti combattenti, che avevano abbandonato la letteratura propriamente detta per trasferirsi nelle strade del paese, partecipando alla vita di tutti i giorni e alle sue notti magiche, cariche di tristezza e follia. Tutti questi poeti realizzavano “Atti”: “Perché cantate la rosa, o poeti!/ Fatela fiorire nella poesia” Vicente Huidobro. Proprio lo stesso Huidobro, tre anni prima della comparsa del manifesto surrealista, apriva la strada a un significato nuovo, altro rispetto alla poesia ed alla parola: 

 

“Oltre al significato grammaticale del linguaggio ce n’è un altro, un significato magico, che è l’unico che ci interessa… il valore del linguaggio della poesia dipende direttamente dalla sua lontananza dal linguaggio parlato… il linguaggio si trasforma in un cerimoniale di esorcismo e si presenta nel lucore della sua iniziale nudità… La poesia non è altro che l’ultimo orizzonte, che, a sua volta, è il crinale in cui gli estremi si toccano, dove non esiste né contraddizione né dubbio. Quando si arriva a questo limite estremo, l’abituale concatenamento dei fenomeni spezza la sua logica e, all’altro capo, dove iniziano i territori del poeta, la catena si ricostruisce in una logica nuova”

 

Un significato magico”, queste parole ci riportano indietro nel tempo, agli albori dell’umanità, dove alla luce carica di ombre di un focolare si cominciavano a segnare le pareti delle caverne. Simboli e disegni, dove a ogni tratto corrispondeva una chiara esigenza di interpretazione del mondo circostante, animato da forze invisibili e avverse. C’è un ulteriore aspetto che occorre prendere in esame rispetto a questo breve estratto; e cioè quell’accenno al modo in cui si concatenano i fenomeni nella realtà secondo il nostro modo “normale” di percepire. Già nel 1867 il sinologo francese Harvey de Saint-Denis (non è un caso che si tratti proprio di un esperto di linguistica) annotava nel suo scritto “Les reves et le moyens de les diringer”: 

 

Dato per assodato che il sogno è un riflesso della vita reale, generalmente i fatti che sembra vi si verifichino, presi anche nella loro incoerenza, seguono alcune leggi cronologiche congruenti con la sequenza normale di un qualsiasi fatto vero.”

 

Se da qui virassimo verso la psicanalisi, troveremmo che s’instaurano in seno a questa concezione del linguaggio (e dunque del pensiero) svariati punti di tangenza che poi hanno proseguito in diverse direzioni. Sigmund Freud, non dimeno aveva preso in considerazione con un certo interesse e un trasporto singolare la dimensione di senso offerta dai simboli, dai gesti e dalle immagini oniriche. L’applicazione della psicanalisi ha poi sempre di più plasmato il suo modo di procedere secondo rapporti logico deduttivi, dando forma al colloquio analitico che conosciamo oggi, per portare il paziente a instaurare con il suo analista un percorso di guarigione. All’università di Santiago del Cile Jodorowsky fu studente di psicologia e, mentre distribuiva per la città i suoi atti di fantasia, inscenando inaugurazioni fittizie e pagando i biglietti dell’autobus con meravigliose conchiglie, cominciava sempre di più ad attribuire importanza e dignità artistica a quei gesti che inventava. Nel suo malessere giovanile, Alejandro trovava conforto all’interno di quelle azioni, e sentiva che tutta la carica drammatica della sua vita poteva veicolarsi per loro tramite. Gli atti creavano un’altra realtà in seno alla realtà originaria, permettendo di scoprire un altro piano. Nel teatro questa forma di linguaggio poteva realizzarsi con piena consapevolezza e l’eleganza gestuale del mimo ne raccoglieva le intenzioni pure e disinteressate. In Francia, a Parigi, Jodorowsky insieme a Fernando Arrabal e a Roland Topor fonda il “movimento panico” che diviene l’assoluto protagonista della scena avanguardista di quegli anni. Siamo nel 1962: provocazione ed eccessi tentavano di rompere con le tradizioni e con le generazioni precedenti, ma degeneravano spesso in orge. Jodorowsky aveva già imparato a proprie spese che molti atti, se in preda a follia e disperazione, potevano diventare molto pericolosi. Per comprendere il senso profondo di un pensiero in grado di adoperarsi creativamente, agendo in direzione della bellezza, Jodorowsky ricorda un tradizionale haiku giapponese: l’alunno mostra al maestro una sua poesia, che recita così: “Una farfalla / le strappo le ali e guarda / un peperoncino!" La risposta del maestro non si fa attendere e corregge (invertendo) la poesia:“Un peperoncino / gli metto le ali / e guarda, una farfalla!” 

 

 

Dunque, l’atto poetico deve sempre essere positivo, essere portatore di un senso estetico oltre che cercare la costruzione. L’atto è azione, non re-azione vandalica e oscena. Ci risulta possibile allora comprendere come la grande esperienza di Jodorowsky, il suo vissuto e le sue manifestazioni creative, siano giunte, in tempi recenti, a delineare in maniera sempre più puntuale e rigorosa il campo d’indagine introdotto dalla “psicomagia” o se vogliamo, dall’arte “psicomagica”. Possiamo osservare come in tutte le culture si ritrova il concetto della forza della parola; per i filosofi presocratici la parola era un “Pharmakon”, capace di straordinari poteri persuasivi, alla luce di questa concezione del linguaggio formularono l’arte della retorica, un modo di applicare una sorta di “magia controllata” ai loro discorsi. La certezza che l’espressione di un desiderio, in una determinata forma, possa provocarne la realizzazione affonda radici profonde nella nostra cultura. Nelle religioni di tutto il mondo, il nome di Dio o dello spirito si rafforzano grazie all’associazione a un’immagine.

 

Gli antichi sapevano per intuizione che l’inconscio non è ricettivo soltanto rispetto al linguaggio orale, ma anche alle forme, alle immagini, agli oggetti. Gli antichi, dunque, attribuivano a numerosi oggetti simbolici il ruolo di alleati; indagando sulle proiezioni che le persone compiono sugli oggetti Jodorowsky non ha fatto altro che domandarsi se fosse mai possibile utilizzare queste proiezioni in maniera positiva. Non come fagocitanti dettami superstiziosi, ma piuttosto come esempi, parabole semplici per liberarsi da una costrizione invalidante. L’atto psico-magico compiuto funge da esempio, per chi lo porta a termine, e permette di costruire un’esperienza fittizia da cui trarre una morale con effetti immediati. Un modo per aggirare l’apprendimento e farlo funzionare di modo che questo conduca a una presa di coscienza decisiva, inducendo a una “guarigione”, se ci è lecito usare questo termine. È importante chiarire come Jodorowsky non ambisca a diventare una sorta di sciamano, un’entità soprannaturale a cui attribuire reincarnazioni spiritiche. Piuttosto, nell’ammissione che la mente umana è facilmente soggetta a suggestioni e illusioni, si può cercare sempre per loro tramite di rompere “l’incantesimo”, indurre una frattura all’interno di pensieri circolari e auto-limitanti per passare oltre, proseguire e arginare ostacoli che nella nostra mente avevano assunto proporzioni altrimenti insormontabili. 

 

Il documentario Psicomagia, che vede Jodorowsky nuovamente in veste di regista e ritrae la sua attività di terapeuta, raccoglie alcune testimonianze conferendo al film un chiaro andamento episodico. Trasposta al cinema quest’idea della “psicomagia” si rivela ancora di più nella sua dimensione essenzialmente teatrale: si tratta di creare scenari, indossare un costume, far venir a galla il ridicolo delle nostre paure, o del nostro stesso modo d’essere in certe situazioni, per prenderne le distanze. Il documentario inoltre, nonostante le peculiarità del suo linguaggio realistico, riesce comunque a dare vita alle idee visionarie di Jodorowsky, lasciando intravedere linee narrative molto soffuse, quasi una piccola lezione di come si possano ricavare storie fantastiche dall’ordinario, dal quotidiano: passando per le strade di Parigi si potrebbe incappare in un uomo tutto coperto d’oro, oppure incontrare un pirata triste, vestito di abiti eleganti e un cappello a falde larghissime, con eccentrico piumaggio.

 

Nel contesto attuale, dove le amplificazioni della realtà e anche la sua consequenziale frammentazione si dirigono verso la sovrabbondanza; dove il rapporto con gli schermi è quello iper-visivo, iper-realistico e promette una stragrande quantità di particolari – in maggioranza nemmeno percepibili dall’occhio umano – dove si assiste a una confusione nel senso della perdita dei valori di ascolto, empatia e comprensione, Alejandro Jodorowsky si riconferma come il Mago buono, l’artista positivo da cui trarre insegnamento (anche per distaccarsene), ma che soprattutto produce contenuti in grado di perpetuare e trasmettere il valore, magico, della cultura. 

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