Julian Barnes. Il senso di una fine

11 Luglio 2012

Il senso di una fine è una storia tipica, quasi classica, di amore e passione, nulla di nuovo, ad eccezione del punto di vista della voce narrante, Tony Webster, probabilmente la persona più inadatta per raccontarla. Diviso in due parti, il romanzo racconta prima la formazione, il gruppo di amici e l’amore di Tony Webster, e solo dopo il senso di tutta quella storia, incompresa dai suoi stessi protagonisti.

 

Julian Barnes compone con una scrittura elegante e con la sua consueta ironia la storia di una generazione cresciuta negli anni Sessantadella swinging London: liberazione sessuale, fuga dalla famiglia e viaggi in autostop contrastano con un’educazione rigida e autoritaria, con abitudini che soprattutto in provincia sono durissime da scalfire e con relazioni con l’universo femminile ancora grezze e fortemente irrisolte. La confusione regna incontrastata in un avanzamento culturale schizofrenico dentro al quale sentimenti e passioni vengono centrifugati senza nessuna possibile forma di salvezza. La fuga ha preso la forma della rinuncia, del rientro nei ranghi e di una lunga e tediosa nostalgia per un tempo che fu formidabile solo nella memoria impigrita di un uomo medio che ha trasformato la mancanza di ambizioni in un’agiata consolazione.

 

Tony Webster risale nella memoria alla triste e opaca morte di uno dei suoi più cari amici.  Scoprire la verità prima che il senso è l’errore necessario che darà forza e tensione al romanzo. Webster insegue infatti la vicenda credendosene ossessivamente estraneo. Quasi conscio della sua funzione di voce narrante, il protagonista sbuca dalle pagine del libro con spiazzante ingenuità ingarbugliando la storia e legando a sé il lettore sempre più fatalmente coinvolto. Il romanzo risulta così tagliato sia orizzontalmente che verticalmente in due parti che come lenti sovrapposte deformano una realtà tanto evidente quanto difficile da accettare.

Lo sguardo è alle volte esageratamente analitico, altre volte incapace anche solo di mettere a fuoco, il lettore naviga a vista sulla spalla di Tony Webster che pagina dopo pagina perde inevitabilmente la propria residua credibilità.

 

Uomo mediocre acconciatosi ad eroe, si ritrova così obbligatoriamente nell’unica storia che gli può appartenere, uno stagno di contraddizioni, paure e sconfitte tanto brucianti quanto vigliaccamente eluse. Il suo non è un viaggio all’inferno, piuttosto un’andata/ritorno nella memoria priva di rischi, la rotazione su un piede che nulla lascia se non un leggero capogiro; ma se questo vale per Webster, non vale per il lettore. Julian Barnes mette in scena una mediocrità che è tale solo per chi la detiene, ma non certo per chi è costretto a imbattervisi. Se l’ottusità difende da furenti passioni e angoscianti dolori, è anche l’arma più affilata per colpire al cuore chi di tutto ha fatto per essere compreso e amato. Per gli altri, per chi nella confusione accetta di restare, nell’ostinata ricerca di un senso prima ancora che di una fine consolatoria, non esiste pace, per loro: “C’è l’accumulo, c’è la responsabilità. E al di là di questo, c’è il tempo inquieto. Il tempo molto inquieto.”

 

Ripensare al proprio passato, alla propria vita, diventa per il protagonista l’occasione di prendere coscienza della propria forma, una forma la cui misura è stata stabilita dal tempo in maniera indiscriminata e impossibile da controllare. Il romanzo di Julian Barnes agisce in quella voragine che si apre in questa umana forma cava. Un vuoto abisso che contiene solo l’impossibilità di una piena coscienza di sé oltre che l’inesorabile abbandono dal proprio tempo. In questo spazio, quasi una terra di nessuno, la memoria non arriva, al limite c’è la vaga sensazione di aver potuto anche per un solo secondo comprendere e dominare un tempo che pareva soltanto nostro. Ma è solo un’illusione prima del ritorno agli affari dell’oggi e alle ansie per il domani. Niente è accaduto, ma nulla è più possibile riparare.

 

 

Julian Barnes, Il senso di una fine

Einaudi, Torino 2012, 150 pagine,Trad. di Susanna Basso

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