La commedia umana di Gipi
Nel 1300 Dante Alighieri scriveva la Divina Commedia e metteva personaggi contemporanei all’Inferno o al Purgatorio destinandoli a infamia o memoria imperitura in un libro che potremmo considerare un best seller già all’epoca della sua pubblicazione.
Il metodo del sommo poeta non desta ora alcuno scalpore. Leggiamo nelle note a piè di pagina le vicende biografiche di Guido Cavalcanti, Albero da Siena, Anselmo della Gherardesca… e, però, possiamo anche non farlo e immergerci nelle immagini icastiche e visionarie del poema dantesco senza farci prendere dalle guide storiche, pur importanti e fondamentali, per la ricostruzione di un contesto e della posizione politica di Dante Alighieri che, ricordiamo, scrisse la Divina Commedia in esilio.
Quali siano le strade interpretative di una storia e dove sta la presenza dell’autore al suo interno possiamo domandarcelo all’infinito, senza una risposta precisa ed esauriente.
Dante Alighieri è il protagonista della sua storia, è accompagnato da Virgilio, il suo vate e guida agli inferi, qual è reale e quale immaginario?
Tra questi due punti collochiamo altre due dimensioni, il vero e il falso. Due elementi che nella comunicazione odierna diventano più difficili da distinguere perché si confondono nelle stesse comunicazioni informative, facendo crescere un senso di scetticismo e di domande rispetto alle continue contraddizioni e ambiguità di una comunicazione, quella scientifica per esempio, che non dovrebbe essere messa in discussione già dalla sua formulazione.
Leggiamo l’ultimo romanzo di Gipi-Gian Alfonso Pacinotti, anche lui toscano, giustappunto per creare associazioni e forse depistaggi, immergendoci in queste considerazioni: cosa resterà se lo leggeranno tra 100 anni? E, soprattutto, cosa resterà delle polemiche che inevitabilmente lo accompagneranno? Delle seconde nulla, del primo forse sarà un best seller!
Gipi è uno dei più importanti autori di fumetto della scena contemporanea. Il suo lavoro è stato riconosciuto fin dagli esordi tra i più significativi del panorama letterario. La sua scrittura e stile grafico passano dalle pagine magistralmente acquerellate ed evocative di Una storia o Esterno notte ai tratti più sintetici e grafici di La terra dei figli.
Un percorso che lo vede interprete di una storia che affonda le sue radici in un territorio di una provincia italiana, dove si respira un’aria di provincia, fotografata nel suo presente e ricostruita nel tessuto di reti familiari e quindi storiche.
Abbiamo seguito come molti cosiddetti follower pure l’interfaccia di una scrittura nel web, nei cosiddetti “social”, che forse dovrebbero cambiare denominazione, perché la parola “social-sociale” fino a poco tempo fa significava appunto sociale e si collegava a socialità, che aveva una accezione positiva. Ora invece, come emerge anche dalla trama introversa di Stacy, tutto questo “social” si rovescia e diventa un groviglio più vicino a quello delle “serpi” che degli “amici”.
Gipi, scottato da tutto questo social, racconta le storture e le torture cui sei costretto se incappi in linciaggi mediatici, quello che nella storia è il tormentone che condanna il protagonista, le tre parole, quelle sbagliate, non dette al bar con due amici, ma in un’intervista pubblicata in un post su un social, appunto. Il potere perverso di questi sistemi lo tocchiamo con mano quando leggiamo esiti drammatici, purtroppo questi reali, di suicidi persino in diretta di chi è preso dal “Demone”.
Il demone c’è nel libro di Gipi, Gipi è attirato dai demoni e, come il suo conterraneo avo, si addentra in un personale inferno. Non scrive però un poema, ma una commedia a fumetti, con uno stile questa volta più sudamericano, così da richiamare Borges, altri mondi e modi di raccontare la realtà, spesso drammatica e violenta, in chiave però traslata e un po’ incantata.
Perché in fondo predomina un senso di distacco e di sarcasmo che non guasta in questo sistema già abbastanza intriso di perversione e di insensatezza di fondo, tutto legato com’è a rapporti effimeri e pure falsi come le false diatribe che si innescano con amici fittizi.
Chi leggerà Stacy nel Futuro, senza sapere nulla di twitter, di tik tok, serie televisive, influencer e showrunner, riuscirà però a percepire lo sfondo cervellotico, quanto insulso, in cui galleggiano i suoi personaggi. Tra tutte memorabile la conversazione in cui Lalla vuole consolare l’amica colpita da un lutto e si consulta con i tipi dell’ufficio, una conversazione evidentemente spietata che mette tutti noi con le spalle al muro, perché anche noi potremmo far parte del gruppo.
Nel doppio binario in cui sviluppa la narrazione non possiamo che riconoscere il talento di Gipi nel tessere dialoghi serrati, nell’alternare i piani della storia entrando e uscendo da un livello all’altro e facendoci restare un attimo sospesi a domandarci se sia proprio solo un sogno quello che racconta il protagonista, Gianni ed è proprio quello che vuole Gipi: farci dubitare che sia vero e quindi cadere nella trappola nel finale. Ma, per fortuna, siamo nel campo libero della scrittura di un romanzo a fumetti dove tutto può veramente succedere e davvero possiamo anche esprimere con tutta libertà anche fatti esecrabili, idiozie e parolacce, tracciate a inchiostro su carta. Almeno vogliamo ancora crederci.
Nel libro si toccano alcuni aspetti legati al dibattito sull’identità femminile, divenuti il centro della discussione, ma che fanno perdere il senso della questione reale: la discriminazione della donna e la sua strumentalizzazione ridotta a oggetto in una società primitivo-mediatica. Una problematica che pareva superata già da qualche decennio e che ritorna alla ribalta. Ma le caratteristiche per come viene impostato non producono alcuna prospettiva di un suo superamento e il modo con cui Gipi lo propone nelle tavole di un fumetto rende abbastanza bene il mosaico che si è costruito attorno a questo tema e che sfasa sempre di più i rapporti, ribadendo purtroppo gli stereotipi.
Le tavole sono definite da una alternanza collegata ai due piani del racconto, l’uno in cui le vignette sono ordinate senza spazi, quindi il ritmo è serrato, i dialoghi sono rapidi, un pingpong di battute e risposte in cui predominano i primissimi piani, nell’altro piano, non ci sono vignette delimitate, i luoghi sono esotici, o interni in cui Stacy è solo una presenza, è vista di spalle, la riconosciamo solo dalla massa di capelli neri.
Ritorna quell’alternanza tra il racconto autobiografico e quello leggendario dei pirati in La Mia Vita Disegnata Male, dove i due livelli erano distinti anche cromaticamente, e le pagine della storia dei pirati erano una proiezione fantastica e, in fondo, la parte più autobiografica del libro, come il gioco da ragazzi che tutti abbiamo giocato.
In Stacy i livelli sono distinti tra un sogno e una realtà dove il primo ti può condannare nel secondo e finire in una iperbole che può effettivamente dare adito a ulteriori “condanne”.
Gipi affonda la lama del coltello nella piaga di un fenomeno, quello della Cancel Culture, che trascende qualsiasi esperienza personale, ma tocca inevitabilmente tutti noi interconnessi e immersi in un villaggio globale dove il messaggio e il medium sono la stessa cosa e non sempre va a finire bene. Basta un passo falso e sei condannato dall’opinione pubblica e ti “cancellano”.
Che non finisca bene, già lo sappiamo.