Speciale
La palpebra
Quei pochi tratti, che compongono un carattere ideografico, sono tracciati in un certo ordine, arbitrario ma regolare: la linea, iniziata a pieno pennello, termina con una punta sottile, curva, deviata all’ultimo momento dalla propria direzione. E questa stessa traccia, come di una pressione, che si ritrova nell’occhio giapponese.
Kabuki
Si direbbe che il calligrafo anatomista posi a piena mano il pennello sull’angolo interno dell’occhio e rovesciandolo un poco, d’un sol tratto, come suole nella pittura alla prima, apra nel viso una fenditura ellittica, ch’egli chiude verso la tempia, con un rapido piegarsi della mano; il tracciato è perfetto perché semplice, immediato, istantaneo eppur deciso come quei cerchi che occorre tutta una vita per saper tracciare con un gesto sovrano.
Una mano mentre traccia una linea di calligrafia
L’occhio, così, è contenuto tra le parallele dei suoi orli e la doppia curva (rovesciata) delle estremità: si direbbe l’impronta ritagliata d’una foglia, la traccia distesa d’una larga virgola dipinta. L’occhio è piatto (è quello il suo miracolo); né sporgente né affossato, senza rigonfiamenti, senza sacca e, se cosi si può dire, perfino senza pelle, è la fessura liscia di una superficie liscia.
La pupilla, intensa, fragile, mobile, intelligente (dal momento che quest’occhio sbarrato, fermato dal ciglio superiore della fessura, sembra racchiudere in tal modo una pensosità trattenuta, un supplemento d’intelligenza tenuto di riserva, non già dietro lo sguardo, ma al di sopra), la pupilla non è assolutamente drammatizzata dall’orbita, come capita nella morfologia occidentale: l’occhio è libero nella sua fenditura (ch’esso riempie completamente e sottilmente), ed è proprio a torto (a causa d’un ovvio etnocentrismo) che noi lo giudichiamo «a mandorla»: nulla lo trattiene, perché iscritto direttamente nella pelle e non scolpito nell’ossatura, il suo spazio è quello di tutto il viso.
L’occhio occidentale è assoggettato a tutta una mitologia dell’anima, centrale e segreta, in cui il fuoco, protetto dalla cavità dell’orbita, irradierebbe in direzione di un’esteriorità carnale, sensuale, passionale; invece il viso giapponese è privo di una gerarchia morale; è intieramente vivo, vivace perfino (contrariamente alla favola della ieraticità orientale), perché la sua morfologia non può essere letta «in profondità», cioè secondo l’asse di un’interiorità.
Da sinsitra: una scena del film Aizen Katsura, regia Noboru Nakamura, 1938; foto d'epoca di una ragazza giapponese
Il suo modello non è scultoreo, ma scritturale: il viso giapponese è una stoffa morbida, fragile, fitta (la seta, naturalmente), semplicemente e come immediatamente scritta in bella grafia da due tratti: la «vita» non è nella luce degli occhi, è nel rapporto senza segreto tra una spiaggia e la sua fenditura; in quello scarto, in quella differenza, in quella sincope che sono, così si dice, la forma vuota del piacere.
Dall'alto: Maschera del teatro Nô; Kitagawa Utamaro, Ase o fuku onna (Donna che si asciuga il sudore), 1798
Con così pochi elementi morfologici, la discesa nel sonno (che si può osservare su tanti volti, nei tram e nei metrò, la sera) risulta un’operazione leggera: senza ripiegamento della pelle, l’occhio non può «appesantirsi»: non fa che percorrere i misurati gradi d’un’unità progressiva, manifestata a poco a poco dal viso: occhi bassi, occhi chiusi, occhi «addormentati». Una linea chiusa si chiude ancora di più, in un abbassamento di palpebre che non finisce.
da Roland Barthes, L’impero dei segni, Torino, Einaudi 1984