La Russia come "terapia" per l'Occidente?

25 Agosto 2023

Rimorsi e nostalgie

Fra i meriti di un autore totale come Octavio Paz sta l’aver chiamato l’antropologia “…il rimorso dell’Occidente” (1). Con questo punto di vista, un’immensa corrente di studi assume un senso che va molto al di là della sua importanza specialistica. L’antropologia non è solo lo studio dei pochi popoli premoderni sopravvissuti: è il grumo di malinconia che tormenta segretamente il mondo euro-americano – divenuto con la globalizzazione modello universale – per aver eliminato le qualità umane non rivolte all’efficienza.

Utilizzo questo esempio per suggerire che forse la Russia ricorre nei discorsi dell’Occidente non solo perché si presenta oggi come suo rivale, ma anche perché rappresenta molto di quello che la nostra modernità ha perduto. E di cui quindi prova nostalgia.

I rapporti dell’Occidente con la Russia

Perché parliamo spesso della Russia? Nella post-modernità si discute soprattutto di economia. Come antagonista dell’Occidente in questo campo, la Federazione Russa è quasi un moscerino: il suo prodotto nazionale è inferiore del 20% a quello dell’Italia (2), pur avendo una popolazione più che doppia e un territorio così esteso da contenere risorse naturali praticamente infinite. È stata chiamata stazione di rifornimento con armi nucleari. I suoi missili fanno paura. Non si giunge a una guerra atomica perché si considera implicito un “equilibrio del terrore”, simile a quello che, nella Guerra Fredda, evitò un conflitto armato tra Occidente e Unione Sovietica: era chiamato MAD (Mutually Assured Destruction, Distruzione Reciproca Assicurata) (3).

Il riferimento alla Russia, può essere per giunta abbastanza benevolo, particolarmente in Italia. Anche su questo dobbiamo interrogarci. Nell’attuale situazione internazionale, stabilire chi è l’aggressore nel conflitto tra Russia e Ucraina è chiaro come forse non era più stato dai tempi di Hitler. La relativa benevolenza può quindi essere, più che un fenomeno attuale, un residuo storico della “eccezione italiana” che ha attraversato la Guerra Fredda: l’Italia era l’unico paese dell’Occidente dove l’opposizione fosse dominata da un Partito Comunista, cosa che rendeva ambigua la sua collocazione internazionale fra Stati Uniti e Unione Sovietica, e ostacolava una vera alternativa di governo. 

Oggi, però, non solo in Italia, ma anche nella narrativa tedesca si ritrova spesso un atteggiamento di estrema cautela, che sfiora l’accondiscendenza, di fronte alle posizioni russe, incluse le aggressioni a paesi vicini. Nei servizi televisivi – soprattutto quelli di qualità del Secondo Canale (ZDF) – si tende ad attribuirlo a un “complesso tedesco” o a un “sentimentalismo tedesco” che impedisce atteggiamenti troppo ostili verso la Russia. Dobbiamo allora prendere atto di come, nei due ex-alleati dell’Asse nazifascista, a quasi tre generazioni di distanza sopravviva un problema di psicologia collettiva: un “debito” semicosciente, un senso di colpa per l’aggressione all’Unione Sovietica, evento decisivo della Seconda Guerra Mondiale.

Per gli psicoanalisti questa è una sorpresa relativa, perché richiama due fatti già noti. 

Prima di tutto, si sono evoluti gli studi dei traumi collettivi e del loro persistere nei tempi lunghi. Oggi sappiamo molto anche sulle loro conseguenze nella terza generazione dei sopravvissuti alla Shoah ebraica. Ma negli Stati Uniti, fra i problemi della popolazione afro-americana, vengono analizzate persino le tracce della schiavitù, oltre un secolo e mezzo dopo la sua abolizione (4). Queste indagini non hanno per base solo la psichiatria individuale, ma richiedono un allargamento di visione che includa l’antropologia, la sociologia, il concetto junghiano di inconscio collettivo.

In secondo luogo, identificare delle conseguenze “lunghe” di quello che fu l’attacco all’Unione Sovietica da parte dell’Asse nazifascista comporta uno sguardo non solo storico-politico, ma anche psicologico, che l’uomo ordinario può faticare a condividere. In uno stato di catastrofe come la guerra, il trauma comune lascia profonde ferite non solo fra gli aggrediti, ma anche fra gli aggressori, come oggi percepiamo persino nelle poche indagini sul conflitto tra Ucraina e Russia che ci giungono da quest’ultima.

Le parole di Svetlana Aleksievic

Le domande che stiamo ponendo possono riassumere un argomento centrale nel discorso di accettazione del Premio Nobel tenuto da Svetlana Aleksievic. L’Unione Sovietica è scomparsa quasi di colpo, ma ciò non significa che, improvvisamente, nel mondo non ci sia più l’“uomo rosso”, soprattutto fra i meno giovani. Uno stato, per quanto grande, può sparire più o meno rapidamente. Però questo non corrisponde affatto alla scomparsa del bisogno di utopia che, nel caso di quello sovietico, aveva presieduto alla sua nascita (5).

A sua volta, lo spazio culturale su cui quell’esperimento era stato edificato richiama qualcosa di ben più vasto e complesso della semplice nostalgia di chi si sentiva marxista (6). Si tratta di una dimensione temporale, spaziale, psicologica, originaria per la persona umana, ma sempre più repressa, cancellata, sottovalutata nella quotidianità dell’Occidente.

Torniamo dunque a Svetlana Aleksievic, che in quel discorso ha detto: “Tutti noi viviamo molto più in fretta di prima”. (7)

Cominciamo a intuire che quanto ci trasmette la scrittrice bielorussa non riguarda solo i cittadini della ex Unione Sovietica. La persona colta dell’Occidente, sfinita dal consumismo e dall’effimero, può credere di provare una “nostalgia di Russia” quando rimpiange i tempi degli intellettuali impegnati, che guardavano sempre quel paese con curiosità, spesso con indulgenza o simpatia. Per parte sua, il nuovo populista del XXI secolo pensa invece di ritrovarvi il fascino di autorità indiscutibili come lo Zar, Stalin o Putin. Certe attrazioni forti – che non riusciamo a definire ma di cui percepiamo l’influenza – hanno radici più complicate e antiche dello stesso lacerante Novecento che ci precede. 

La premodernità e la mancanza di limite

La malinconia e lo smagamento nell’immensità, tipiche di chi oggi è affascinato dalla Russia in sé, hanno infatti abitato il Medio Evo, il Seicento, l’Ottocento romantico. Sono esistite secoli prima di Marx. Durante le ultime generazioni, sono state espulse dal vissuto degli europei a causa della fretta, dell’attesa di risultati concreti, inevitabili conseguenze della globalizzazione, e dell’americanizzazione che essa comporta. Ma proprio il “passo lento” e il disinteresse per l’accelerazione hanno differenziato, e differenziano pure oggi, la cultura russa tradizionale dall’Occidente. 

È significativo che questo si applichi anche all’arte che consideriamo più essenzialmente moderna, il cinema. Spiegando come arrivò a L’infanzia di Ivan (1962), suo primo, folgorante successo, Andrej Tarkovskij chiarisce i rapporti col libro ispiratore, Ivan di Vladimir Bogomolov. Non voleva solo riprodurre il racconto, ma anche il ritmo. Il bambino è travolto dalla guerra: il suo carattere e i suoi sentimenti, però, non sono descritti dall’azione bellica, ma dal contrario, le pause fra le azioni. (8)

Si può riprendere questa differenza fra culture da una prospettiva generale. Il passaggio alla modernità dell’Occidente ha evidenziato una divaricazione spazio-temporale con la Russia nelle principali attività creative: cinema, teatro, arti figurative

Contrapponiamo l’animo russo (9) al mondo più specificamente europeo, usando il concetto con cui Max Weber distinse la mente tradizionale da quella moderna. Quest’ultima comporta la Entzauberung der Welt: il disincanto o smagamento del mondo, che lo riduce a un contenitore dove gli agenti sono chiari, identificabili e laici: quasi scientifici anche quando si tratta di qualità morali. (10)

Tale logica moderna manca nei testi di Dostoevskij, fra quelli che più associamo al “genio russo”. Il male è sempre presente, ma non è mai identificabile con le categorie nette di un Decalogo. Il male è un potenziale dell’uomo preesistente alle norme, Dostoevskij è la psicologia prima della psicanalisi. La non contenibilità morale di Raskol’nikov e di Stavrogin sono per più di un aspetto parenti della mancanza di limiti della steppa o della mai completa capacità russa di trasformare un passato millenario in un presente dotato di coerenti strutture moderne.

Noi occidentali dobbiamo fare attenzione a non usare criteri riduttivi post-weberiani. Commettiamo questo errore persino nei più banali luoghi comuni. Non ha senso dire “I russi sono malinconici, quindi bevono troppa vodka” e, circolarmente, “I russi bevono troppa vodka, quindi diventano malinconici”. Anche molti italiani esagerano nel bere: a volte diventano tristi, a volte esuberanti. L’alcol determina una alterazione delle emozioni: non il contenuto di queste. Non è mai estraneo ai precedenti vissuti dal soggetto e ai condizionamenti dalla sua cultura. 

È naturale che in Occidente si legga Dostoevskij perché è uno straordinario narratore. Ma, semicoscientemente, lo leggiamo anche perché il male che lo attraversa non ha percorso l’illuminismo: malgrado la filosofia illuminista fosse ben conosciuta dai russi colti, che spesso parlavano correntemente il francese. Quel male, dunque, è qualcosa di esterno a noi occidentali, ha qualcosa della magia weberiana di cui tutti siamo orfani, ci angoscia e affascina insieme. (11)

Il costituirsi in unità definibili è estraneo all’animo russo non perché esso sia incapace di combinarsi con la filosofia e la scienza occidentali: al contrario, il maggiore esperimento non solo della Russia, ma della storia umana di trasformarsi in società equa e “moderna” è appunto l’applicazione delle teorie di un ebreo tedesco, Karl Marx. Tuttavia ben più antichi e decisivi di quelli dello Stato bolscevico, o addirittura zarista, sono i vissuti che, nella narrativa ma già nella cultura orale, fondono il dilatarsi illimitato del tempo con la mancanza di limiti dello spazio, percepibile nella geografia: “La terra russa è stata suolo prima di essere nazione”. (12)

È nota anche al non specialista una delle più concrete differenze tra Lager nazisti e Gulag staliniani: questi ultimi, situati a immense distanze dall’Europa o dalle coste – eccettuate quelle gelate dell’Artico – non avevano quasi bisogno di recinzioni. A differenza di una barriera, l’infinità dello spazio non si può scavalcare con espedienti.

L’unità infinita di spazio e tempo

L’occidentale ha il fiato corto, soffoca nei limiti di luogo e di tempo fra loro vincolati. Il borghese europeo che assiste per la centesima volta al Giardino dei ciliegi di Cechov non lo fa “malgrado” sappia che per tutta la rappresentazione non vedrà accadere niente, ma “proprio perché” – semiconsciamente – ha bisogno di partecipare a un flusso temporale in cui non accade nulla: una condizione originaria, ordinaria, fisiologica per millenni, per l’essere umano normale, o quanto meno naturale. All’uomo che vive nella realtà del presente, tanto russo quanto occidentale, l’industrializzazione e la modernizzazione hanno strappato via questo contenitore rassicurante quasi sotto agli occhi, senza che se ne accorgesse.

I classici russi non parlano solo della immensità: tentando di contenerla, strabordano di pagine. Difficilmente diciamo “In questa vacanza leggerò Guerra e pace o I fratelli Karamazov”, Ma “Quest’anno…” o: “Gli anni prossimi leggerò…”

Quando noi occidentali decidiamo di assistere a una proiezione cinematografica di Tarkovskij o di Sokurov sappiamo benissimo che non vi troveremo l’infinitesima frazione del dinamismo, dell’azione, per non parlare delle uccisioni che ci attendono in una pellicola di Hollywood. Forse abbiamo sentito lodare i due registi e intuiamo che le loro creazioni sono guidate da criteri non commerciali. Quello che non sappiamo è che facciamo questa scelta anche perché, sotto alla nostra cultura e alle nostre convinzioni coscienti – anzi, indipendentemente da esse – la nostra natura, il nostro inconscio, intossicati dall’“obbligo alla produttività”, cercano un po’ di riposo in uno spazio anti-isterico e anti-maniacale.

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Leonid Lazarev, Window Lights, Moscow, 1967.

Come abbiamo suggerito dall’inizio, non solo il singolo, ma tutta la cultura dell’Occidente (e sicuramente oggi gli strati più modernizzati della società russa) sono alla ricerca di una correzione per la unilateralità di questo affanno.

Naturalmente, anche nella immensità gemella di spazio e tempo la Russia concreta ha dei limiti. Ma, più che in altri luoghi al mondo, la narrazione offusca e dissolve i suoi bordi reali rendendoli slabbrati, indefinibili. Racconti e canti tradizionali hanno sempre pullulato di personaggi che vogliono sottrarsi alla morsa della immensità spaziale, ma dopo una vita di vagabondaggi si trovano sempre in Russia. (13)

E il tempo? Sotto lo Zar e il regime sovietico, al cittadino non era permesso aver vere opinioni sul futuro: esso apparteneva al potere politico. Ciononostante, poteva divenire imprevisto per lo Stato stesso. 

L’imprevedibile

Grossman ne ha dato una descrizione ineguagliabile.

 “E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. Quella morte venne a intrufolarsi nel gigantesco sistema di entusiasmo meccanizzato, d’ira e d’amore popolare, stabiliti su ordine del comitato di rione.

Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin. Quella libertà, quella autonomia della morte conteneva qualcosa di esplosivo, che contraddiceva la più recondita essenza dello Stato. Lo sconcerto invase le menti e i cuori”. (14)

Se il futuro non può essere previsto, il passato è esistito e non dovrebbe esser modificabile. Ma lo specialista di storia russa Steven Kotkin ne dubita (15). In Russia, sotto i vari regimi il futuro si presenta convenzionalmente radioso. Imprevedibile è sempre il passato.

Infinità e attualità

Dopo queste considerazioni su ciò che oltrepassa i bordi, guardiamo a una dinamica secolare, quindi a un processo in teoria storicamente definibile. Osserviamo con i dati di oggi le maggiori tappe del lungo processo di unione e contrapposizione tra Russia e Ucraina. 

Nel 1868 un decreto zarista aveva affermato, stabilendo un interessante caso di legislazione preventiva, che la lingua ucraina non era mai esistita, non esiste e non esisterà mai (16). Lungo la storia, i regimi di estrema destra nazionalista hanno costruito legami mitici col passato per giustificare la loro aggressività presente. Per restare ai paesi dell’Asse, il fascismo ha inventato una continuità con l’Impero Romano e il nazismo con i germani di Arminio, che lo aveva sconfitto. Queste operazioni apparentemente psicologiche non hanno risparmiato loro il discredito e la disfatta finale.

Nel 1931-32, Stalin aveva indebolito l’Ucraina con totalizzanti requisizioni di raccolti, che avevano causato l’Holodomor, considerato oggi dagli ucraini e da altri un intenzionale genocidio per fame.

Secondo la successiva mitologizzazione di Nikita Krusciov, l’Ucraina aveva in passato deciso di fondersi con la Russia. Per celebrare i 300 anni del mito, l’allora capo dell’Unione Sovietica trasferì la sovranità della Crimea dalla Russia all’Ucraina, che ne è una continuazione territoriale, quindi economica. La continuità demografica risultava già assicurata dal fatto che gli abitanti secolari, i tartari di Crimea, dopo la Seconda Guerra Mondiale erano stati deportati in Siberia con l’accusa di aver simpatizzato per i tedeschi.

Maschi e femmine oggi

Restando ai processi storici misurabili anche in cifre, nella Russia non immaginaria la “produzione di nuova vita” che le nazioni portano avanti naturalmente, mettendo al mondo dei figli, è giunta a un estremo negativo: non solo si guardano con diffidenza fra loro le ex-etnie sovietiche, ma la frattura che separa uomini e donne è fra le più profonde del mondo (17). I femminicidi toccano un livello infinitamente maggiore di quelli dell’Europa Occidentale: 4 donne uccise ogni 100.000. Per restare fra i paesi latini, tradizionalmente maschilisti, questo tasso è superato solo nell’America Latina dove spesso la criminalità è fuori controllo: Colombia 4,2, Brasile 4,3. L’Italia è a 0,4, la Spagna a 0,5. (18)

Il tasso di divorzi e di aborti è fra i maggiori del mondo. Nel XXI secolo, dato lo stile di vita relativamente rischioso dei maschi, il loro elevato consumo di alcol e altre sostanze, la Russia registra anche una delle maggiori differenze tra l’aspettativa di vita degli uomini e quella delle donne: fra i 12 e i 14 anni. (19)

Il risultato di tutto questo è una percentuale molto alta di bambini che crescono senza padre: con la sola madre o spesso con la nonna, data la frequente vicinanza fra le generazioni sia abitativa, sia di età. La proverbiale babuska, eroina anti-hollywoodiana di Alexandra, uno dei capolavori cinematografici di Sokurov. Come nell’Ivan di Tarkowski, anche qui mancano spari e sangue, tutto consiste nell’attesa. Se lo definiamo film di guerra russo, l’accento deve cadere sul “russo”, non su “film di guerra” come penseremmo in Europa o in America.

Dagli importanti studi che hanno accompagnato nei secoli lo sviluppo della società americana (basterà ricordare Margaret Mead e Daniel Patrick Moynihan) sappiamo che nelle diverse società (o nelle diverse etnie che compongono una macrosocietà come quella americana) lo sviluppo economico e culturale dei vari gruppi è direttamente proporzionale alla presenza di padri. In cima alla gerarchia USA stanno asiatici ed ebrei, dove più raramente manca. Al livello più basso, gli afro-americani, dove è assente dai tempi della schiavitù. Usando questa notissima analogia (20), senza sbagliare troppo si potrebbe riassumere la mancata modernizzazione della Russia dicendo che è abitata dagli afro-americani d’Europa.

I bisogni inconsci della cultura e le nostalgie occidentali

In definitiva, il fascino complesso che esercita su di noi quello che percepiamo come russo non può essere ricondotto solo a elementi oggettivi ed estetici. Certo, Dostoevskij e Tolstoj in letteratura, Tarkovskij e Sokurov nel cinema sono vette assolute. Ma la venerazione con cui li sommergiamo ci dice molto anche sullo squilibrio psicologico dell’Occidente. Cosa si attiva nel nostro inconscio quando guardiamo alla Russia da una inevitabile distanza?

Secondo Jung:

“Quanto maggiore è l’unilateralità dell’atteggiamento cosciente, tanto più i contenuti provenienti dall’inconscio si oppongono ad essa, così che si può parlare di un vero contrasto fra coscienza e inconscio. In questo caso la compensazione si presenta sotto forma di funzione contrastante.” (21)

Di conseguenza:

“La compensazione inconscia di uno stato nevrotico della coscienza contiene tutti gli elementi capaci di correggere efficacemente e fruttuosamente l’unilateralità della coscienza [corsivo LZ]” (22)

La psicoanalisi nacque già al passaggio dal XIX secolo al XX, quando Freud notò che l’eccessiva repressione della sessualità nelle donne “beneducate” le portava alla nevrosi, più specificamente all’isteria, con cui il loro insieme psicofisico si ribellava proprio a quella estrema unilateralità. In questa concezione, medica e freudiana, il problema potrebbe restringersi a una somma di casi individuali. Oggi ci interessa però sottolineare con Jung come la unilateralità di tutta la nostra cultura occidentale può spingerla verso preferenze che rischiano di sottovalutare come “soltanto” estetico, letterario, o sentimentale il fascino di culture anti-occidentali o anti-americane. Questo anelo verso l’immensità russa dice anche quanto immensa sia la nostra mancanza. 

Infatti: “L’inconscio collettivo è come un sedimento dell’esperienza e insieme, in quanto un apriori dell’esperienza stessa, un’immagine del mondo, che si è formata nel corso di eoni. In questa immagine si sono venuti delineando attraverso i tempi determinati tratti, i cosiddetti archetipi o dominanti.” (23)

Chiediamoci a questo punto: lo spazio e il tempo che dilagano verso l’infinità sono archetipi (o dominanti) specifici dell’animo russo o appartengono all’animo umano in generale?

Da un lato, scorgiamo che l’infinito esercita attrazione e terrore insieme su ogni essere umano. Proprio per dominare l’ignoto assoluto, prima o poi ogni cultura immagina un Dio onnipotente, degli eroi la cui forza è infinita. Questo significa che in qualche modo vi abitava già, cioè che si tratta di un archetipo universale? Ma la magia dell’infinito, per cui proviamo uno struggente rimpianto da quando noi occidentali post-moderni abitiamo un mondo in cui tutto è misurabile, materializzabile e finito, sembra manifestarsi soprattuto nel paesaggio russo, nel racconto russo, nella tristezza irrimediabile che ogni epifania russa deposita negli occhi e nelle orecchie di noi euroamericani.

Tale magia suona poco credibile se è espressa nel linguaggio occidentale: noi “disincantati” possiamo essere i primi a non prestarle fede.

Se invece il dolore viene da quella alterità misteriosa che abita al di là della steppa, esso ci commuove, ci convince: come un sogno, come tutto ciò che resta poco definibile perché giunge più dall’inconscio che da informazioni oggettive e razionali.

Svetlana Aleksievic sintetizza con parole poetico-politiche ma amare un simile mistero: “La nostra più grande risorsa è la sofferenza. Non il petrolio o il gas, proprio la sofferenza. È l’unica cosa che riusciamo a produrre con continuità.” (24)

Questa capacità metatragica e metacristiana lascia estasiati: forse anche ammirati, indipendentemente da ogni sentimento di condivisione o repulsione che può ispirare il sistema in cui si è manifestata nelle diverse epoche. 

Note

1. Octavio Paz, Tiempo nublado, Seix Barral, Barcelona 1986, I, 1.

2. https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.CD

3. Ho chiamato questa nuova situazione MAD 2. Cfr. Paranoia. La follia che fa la storia, seconda edizione, Bollati Boringhieri, Torino 2023, Prefazione.

4. Si veda per esempio: Èlodie Grossi, New avenues in epigenetic research about race: Online activism around reparations for slavery in the United States
Intergenerational transmission of trauma effects: putative role of
epigenetic mechanisms

Rachel Yehuda 1 , 2 and Amy Lehrner 1 , 2 

5. Si veda la parte introduttiva del mio Utopie minimaliste, Seconda edizione, Chiarelettere, Milano 2021.

6. Mi sembra corretto usare questa espressione, e non “comunista”. Impiegarle come equivalenti è una deformazione eurocentrica e modernocentrica. Basate sulla proprietà comune erano anche la società proposta da Platone, molte di quelle americane precedenti l’arrivo di Colombo ed altre culture non europee.

7. Svetlana Aleksievic, Discorso per il conferimento del Premio Nobel (2015) in: Il Male ha nuovi volti. Cernobil, la Russia, l’Ucraina. Morcelliana, Brescia 2022, p. 33.

8. Andrej Tarkovskij, Sapetschatljonnoje (1986), tr. tedesca aggiornata e autorizzata Die versiegelte Zeit, Alexander Verlag, Berlin 2021, p. 27.

9. Per l’uso di animo anziché anima cfr Piretto in: Intervista di Marco Belpoliti a Gian Piero Piretto, 13 ottobre 2014. Piretto è uno storico fra i massimi esperti italiani della Russia. 

10. Max Weber, Politik als BerufWissenschaft als Beruf (1919), tr. it. Il lavoro intellettuale come professione, Mondadori, Milano 1966.

11. Significativamente, nell’edizione che possiedo il testo Fëodor Dostoevkij, I demoni, Einaudi, Torino 1993 è pubblicato insieme a un lungo saggio di uno fra i principali filosofi italiani, Luigi Pareyson: Il male in Dostoevkij.

12. Piretto, cit., p. 19.

13. Piretto, cit., pp. 19 – 21.

14. Vasilij Grossman, Tutto scorre (1970), Adelphi, Milano 1987, p. 33.

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16. Timothy Snyder, lezione 22.

17. Alexander Etkind, Russia Against Modernity, Polity Press, Cambridge 2023: il cap. 6 passa in rassegna questi dati, provenienti da molte fonti internazionali..

18. sito

19. Etkind, cit., ibidem.

20. Si veda anche il mio: Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (2000), Bollati Boringhieri, Torino 2016, caap. 4.

21. Opere complete di Carl Gustav Jung, Vol. VI, edizione digitale, 2445

22. Ibidem, 2681

23. Ibidem, 2666

24. Aleksievic, cit., p 42.

La fotografia di copertina è di Leonid Lazarev, Golden Hands, 1978.

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