La scienza di Calvino e Borges
La scienza incontra la molteplicità e cerca (spesso invano) di ricondurla a unità. La letteratura altresì contempla la molteplicità e – scrive Italo Calvino nel 1980 dialogando con Daniele Del Giudice – immagina “un sistema di moltiplicazione dei possibili per esorcizzare la tragicità dell’unicità. Il fatto che la vita è una, che ogni avvenimento è uno, il che comporta la perdita di miliardi di altri avvenimenti, perduti per sempre. Narratore è colui che vuole sottrarsi a questo destino”. La fase di ottimismo gnoseologico di Italo Calvino si è già resa problematica nel 1980, incontrando i limiti del visibile, la minaccia del caos. Resta tuttavia quell’urgenza esistenziale profonda di tentare, nonostante tutto, una via di fuga. La realtà può essere letta a più livelli. Dobbiamo salvare la sfida al labirinto-mondo, senza arrendersi al labirinto.
Ecco, facendo leva su questa poetica dell’allargamento, il mio punto di partenza sarà un’immagine sola e la mia breve argomentazione proverà a sviluppare una possibile logica interna all’immagine stessa. L’immagine è la fortezza di If, in “Il Conte di Montecristo” in Ti con Zero, racconto epistemologico scritto nell’estate del 1967, tra i più fecondi e generativi di Calvino, la cui opera è ricca di prigioni, fortezze, castelli, città di pietra volanti, strutture pesanti eppur vuote, opprimenti, che schiacciano il mondo. È un “vuoto il cui potere annientatore si riveste di fortezze compatte, il vuoto-pieno che può essere dissolto solo da ciò che è leggero e rapido e sottile”, come uno sciame di effimere contro la fortezza, appunto (da Collezione di sabbia, 1984). In tal senso sono confortato da un giudizio di Calvino stesso, presente in una lettera del 1969 a Mario Boselli, secondo la quale il finale del Montecristo è la “vera conclusione etico-gnoseologica a cui sono arrivato”. “Il finale più ottimistico che sono riuscito a dare al mio racconto”, aveva detto in “Cibernetica e fantasmi” del 1967.
Vorrei dunque proporre quattro significati possibili della fortezza di If, a intensità gnoseologica crescente.
Il primo rimanda naturalmente alla sua accezione politica: la fortezza come ideologia che imprigiona. Non dobbiamo restare schiacciati in un mondo di pietra che ci siamo costruiti attorno da soli. Pensare per esempio al capitalismo come un sistema totalizzante impedisce ogni opposizione: bisogna trovare gli anelli che non tengono (allora come oggi, per inciso). “La prigione perfetta – commenta Calvino in una lettera a Giovanni Falaschi del 1972 – va ipotizzata proprio per dimostrare che la prigione reale non è perfetta”.
Torna qui l’eco dei suoi molti personaggi reclusi che cercano una breccia, una fessura, una crepa, un’inezia che regala libertà. In tal senso, una via di uscita che renda meno opprimente il vivere è ovviamente la letteratura, intesa come formalizzazione e astrazione, come ricerca di forma, ordine, razionalità, esattezza. Ma lo è anche l’analisi spietata e completa della realtà politica, senza volontarismi ingenui e velleitari, bensì con la consapevolezza di una necessità oggettiva che costringe da fuori, “solo essendo coscienti al massimo dei fattori che ci determinano – scrive Calvino nel 1973 – si può trovare lo spiraglio per sfuggire alla determinazione in senso passivo e dominarla in senso attivo. Questo il senso che ho voluto dare al mio racconto Il conte di Montecristo che resta ancora uno dei miei punti di arrivo”. Non rassegnarsi all’inferno, insomma, ma “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Parole quanto mai profetiche in questi tempi di barbarie esibita da Homo sedicente sapiens.
Il secondo significato della fortezza ideale riguarda il rapporto fra Io e Mondo: è secondario scoprire chi sia l’io che scrive, dice Calvino a Cesare Garboli, “ciò che conta, più che capire sé stessi, è capire il mondo che ci contiene (e, se mai, sé stessi in negativo), capire cioè il mondo-prigione, non il prigioniero sempre empirico fungibile provvisorio”. Dell’io, quindi, si può al massimo dire ciò che non è, in negativo, non ciò che è, superando sciovinismi narcisistici, provvidenze, finalismi, consolazioni, provincialismi antropocentrici. Solo così possiamo sviluppare un sincero senso di responsabilità verso l’universo: “Siamo anello di una catena che parte a scala subatomica o pregalattica: dare ai nostri gesti, ai nostri pensieri, la continuità del prima di noi e dopo di noi, è una cosa in cui credo”, aggiunge Calvino nel dialogo con Del Giudice. Ed è una cosa in cui credono tutti gli evoluzionisti, i quali da Darwin in poi hanno rinunciato alle lusinghe dei paradisi teleologici.
Il terzo significato della fortezza ideale ci porta dritti dentro la scienza e indica il sistema-fortezza come modello compiuto, che viene scardinato da un dettaglio apparentemente insignificante, da un’anomalia sperimentale, da un errore, dalla scoperta serendipitosa di qualcosa che non si stava cercando. In sostanza, è una metafora del metodo deduttivo, ovvero, nelle parole di Calvino del 1969 a Boselli: “la progettazione congetturale della prigione assoluta è una professione di fede nella deduttività, nella necessità di costruire modelli teorici formalmente perfetti della realtà oggettiva con cui si vogliono fare i conti”. Così funziona in effetti la legge di copertura deduttiva nella scienza: suppone di ricondurre a sé una molteplicità di fenomeni e genera congetture sottoposte al popperiano fuoco di fila delle confutazioni da parte della realtà empirica. Il suo esito è al massimo la verosimiglianza, un avvicinamento asintotico alla verità, ma mai la Verità in sé, con la maiuscola; una sfida infinita e sofferta di progettazione congetturale e prova empirica che l’Abate Faria conosce bene.
Detto altrimenti, la conoscenza scientifica si basa sulla costruzione di una successione di modelli. In tal senso, nota Calvino giustamente, scienza e racconto procedono nello stesso modo, da Galileo in poi: dettagli e schemi, modelli, perturbazioni, nuovi modelli. “Non è questo forse il movimento proprio di ogni sapere? – scrive Calvino nel 1980 – Riconoscimento della singolarità che sfugge al modello normativo; costruzione di un modello più sofisticato, tale da aderire a una realtà più accidentata e spigolosa; nuova rottura delle maglie del sistema; e così via”.
Grazie a questo movimento, la fortezza si espande ogni volta di più e la ricerca è una rincorsa infinita, perché non puoi mai sapere cosa stai lasciando fuori dalla fortezza stessa. Questa è una delle migliori definizioni di come funziona oggi il metodo scientifico nelle scienze della vita e non solo, attraverso selezione tra modelli, inferenze verso la spiegazione migliore, convergenze di dati eterogenei, aggiunta di nuovi indizi.
E così arriviamo al quarto e ultimo significato potenziale della fortezza ideale, per me il più importante, perché quello epistemologico nel senso più ampio, finanche cosmico, del rapporto fra il reale e il possibile. La fortezza ideale può essere intesa anche come la somma delle combinazioni possibili in un dato insieme di parametri, come spazio delle forme, “morfospazio” del possibile allo stato attuale delle nostre conoscenze. Qui ritroviamo il tema forte in Calvino del racconto come macchina cibernetica auto-organizzata, prodotto di un processo combinatorio tra elementi dati che – scriveva Calvino in “Cibernetica e fantasmi” – “può effettuare tutte le permutazioni possibili in un dato materiale”, anche se poi il risultato poetico sarà l’effetto particolare di una di queste permutazioni sulla coscienza del singolo. Un mondo apparentemente chiuso si moltiplica in un numero incalcolabile di mondi possibili, attraverso un processo combinatorio e immaginifico che, attingendo al “golfo della molteplicità potenziale” di Giordano Bruno (citato da Calvino nelle Lezioni americane), è all’origine del discorso umano tanto quanto del metodo scientifico. Del resto, il libro del mondo è scritto in caratteri geometrici, secondo Galileo, come un sistema plurale di alfabeti che rappresenta la totalità del reale combinando gli elementi fra loro.
Ma in questa accezione della fortezza ideale come grande rete delle combinazioni e associazioni possibili troviamo anche un altro luogo letterario di Calvino assai promettente, sul piano euristico, per la scienza di oggi. Il morfospazio è un’astrazione. Ma che senso ha nella scienza immaginare mondi ideali, che come tali non esistono, per spiegare la realtà? Per rispondere potremmo citare gli esperimenti mentali, così cari a Galileo e ad Albert Einstein, ma anche a Charles Darwin. Potremmo richiamare il valore delle simulazioni e delle anticipazioni predittive di entità non ancora osservate, dal bosone di Higgs alle onde gravitazionali.
Oppure potremmo rispondere proprio con Calvino, secondo cui gli esperimenti mentali nella scienza sono una vera e propria forma di narrazione creativa, personale, incisiva, e tuttavia geometrica, una costruzione astratta corposa, sofferta, vissuta. Nei gemelli di Einstein, nel naviglio di Galileo, l’esperimento diventa narrazione. Giacché, scrive Calvino a Del Giudice nel 1980, “anche ogni assioma è un racconto. Quale racconto più bello di: Si dicono parallele due linee che si incontrano all’infinito?”
Ora, per mostrare quanto possa essere promettente un esperimento mentale che immagini una fortezza ideale contenente tutte le forme possibili a partire da un insieme finito di parametri, può essere interessante richiamare una storia di scienza recente e leggerla attraverso il prisma di Italo Calvino. L’esperimento suonerà ardito, ma non trovo modo migliore per far capire che Calvino è adesso: con i suoi cento anni ci sta ancora suggerendo chiavi di lettura sorprendenti per capire la scienza contemporanea.
La storia comincia nel 1976 a Madrid, dove una giovane studentessa di ingegneria meccanica e aerospaziale di Princeton si trova per un soggiorno di ricerca. Legge “La biblioteca di Babele” di Jorge Luis Borges e ha un’illuminazione. Immagina quegli scaffali sterminati, pieni di libri senza senso, un’immensa cacofonia inframmezzata qua e là da qualche frase dotata di significato. Si immedesima nel destino del bibliotecario che si aggira lì dentro, peregrinando tra gli esagoni, cercando il libro che contiene le risposte a tutti i misteri fondamentali dell’umanità, anche se in cuor suo sa che non gli basterà una vita per trovarlo.
La giovane di Pittsburgh ricorda allora di aver letto su “Nature” l’articolo di un noto evoluzionista, John Maynard Smith, che aveva fantasticato sull’esistenza di un’analoga enorme libreria: piena non di libri, ma di proteine, i mattoni degli esseri viventi che vengono sintetizzati a partire dai geni. Considerando che le proteine sono composte da 20 lettere (gli aminoacidi) e che mediamente la loro sequenza è lunga circa 500 aminoacidi, risulta che la biblioteca di Babele di tutte le proteine possibili conterrebbe il numero astronomico, ma pur sempre finito, di 20 alla 500 combinazioni, più di tutte le particelle dell’universo.
La sola regola è che non devono esserci due proteine identiche, proprio come nella biblioteca di Babele “non vi sono due soli libri identici”. Come in quella interminabile sequenza di gallerie di Borges, la gran parte delle sequenze sono rumore: non fanno nulla. Raramente se ne trova una che abbia un senso, in qualche scaffale di una regione remota, una cioè che l’evoluzione ha selezionato perché svolge una funzione utile per una delle specie di esseri viventi che popolano la Terra. Inoltre, come sapeva bene Calvino, non possiamo essere certi dei limiti esterni del modello, che sono raggiunti per induzione empirica rispetto alle conoscenze attuali in nostro possesso: non possiamo cioè sapere se è davvero completo e perfetto.
Nel 1994, il filosofo della mente Daniel Dennett aveva escogitato una biblioteca non meno disorientante: quella che raccoglie tutti i possibili genomi, cioè tutte le possibili combinazioni delle basi nucleotidiche del DNA. La biblioteca di Mendel. Il DNA a tutti gli effetti è un linguaggio: ha un alfabeto di quattro lettere, una grammatica, un lessico e una semantica. Quindi, sorprendentemente, anche la biblioteca di Mendel è un sottoinsieme della biblioteca di Borges. Come tale, ne rispetta le regole. Dentro la biblioteca di Mendel ci sono i libri (a base di DNA) per far nascere le creature più meravigliose. Alcune sono realmente esistite in passato e ora sono estinte, altre (pochissime) sono quelle che vivono oggi, e moltissime altre ancora sono quelle che avrebbero potuto esistere ma non sono mai comparse nell’evoluzione.
I comparti della biblioteca di Mendel sono splendidi: c’è la galleria esagonale di tutte le conchiglie possibili, la galleria di tutti i rettili e di tutti i volatori possibili, la galleria dei nani e la galleria dei giganti, e così via. C’è anche una sala di tutte le creature che non sono mai esistite, ma che sono venute in sogno almeno una volta a qualcuno. Comunque sia, la grande maggioranza della biblioteca di Mendel è fatta di libri-genomi che nessuno ha mai letto, perché darebbero origine a creature impossibili, informi, assurde. Ci sono molti più modi di essere morti, o non-vivi, che di essere vivi.
Di recente un gruppo di zoologi e paleontologi, guidato da Philip Donoghue a Bristol, ha avuto un’idea simile. Hanno immaginato uno spazio multidimensionale immenso nel quale inserire centinaia di caratteri tipici dei piani corporei di tutti gli animali. Ogni carattere è una dimensione e ogni punto dentro questo spazio gigantesco è una possibile combinazione di caratteri, cioè un animale potenziale. Si tratta quindi del vastissimo spazio delle forme possibili, un morfospazio globale, lo spazio matematico delle forme corporee che rappresenta la disparità negli animali attuali e passati. Questa è la biblioteca di Babele di tutti gli animali che possiamo immaginare, o se volete è il continente ignoto del racconto “L’origine degli uccelli”, in Ti con zero, dove si dispiegano “tutte le forme che il mondo avrebbe potuto prendere nelle sue trasformazioni e invece non aveva preso, per un qualche motivo occasionale o per un’incompatibilità di fondo: le forme scartate, irrecuperabili, perdute”.
Si notino le due ipotesi di Calvino: per “un qualche motivo occasionale” o per “un’incompatibilità di fondo”. A questo punto, gli scienziati hanno inserito dentro il morfospazio ideale tutti gli animali che esistono per davvero oggi: ecco tanti puntini sparsi qua e là, e ogni tanto una nuvola di puntini tutti addensati. Poi hanno messo dentro la biblioteca anche tutti gli animali estinti conosciuti, che sono il 99% e passa degli animali vissuti, da quando hanno iniziato a diversificarsi sulla Terra. Ecco altri puntini dentro il morfospazio, altre nuvolette di animali che comparvero sulla Terra.
L’esercizio, dunque, è lo stesso proposto da Calvino in “Il Conte di Montecristo”: un gioco di differenze e di scarti tra la fortezza ideale perfetta e la fortezza reale empirica contingente. Calvino lo spiega così. L’abate Faria cerca di evadere per via empirica, per tentativi ed errori: scava cunicoli in continuazione, cerca i punti deboli nella terribile struttura carceraria, ma si perde. Edmond Dantès parte dal presupposto contrario: “esiste una fortezza perfetta”, leggiamo, “dalla quale non si può evadere; solo se nella progettazione o costruzione della fortezza è stato commesso un errore o una dimenticanza l’evasione è possibile”. Sulla base dei dati raccolti da Faria, la fortezza di Dantès diventa una congettura, un morfospazio combinatorio, dice ancora Dantès: “Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla vera – e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo mai; ma almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sa che sta qui perché non potrebbe trovarsi altrove – oppure sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora più impossibile che di qui – e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con quella vera per trovarla”.
Ora applichiamo il metodo di Calvino al caso del morfospazio ideale di tutte le proteine, di tutti i genomi e di tutti gli animali. Si nota un fatto sorprendente. Se inseriamo le specie reali dentro il modello combinatorio astratto, queste vanno sempre a occupare poche regioni, addensandosi in aree ristrette e lasciando vuote ampie praterie del morfospazio. La fortezza si riempie in modo disomogeneo: alcune celle sovraffollate, molte altre deserte. Il risultato finale assomiglia a una gruviera: zone più dense, zone rarefatte, immense regioni disabitate. La mappa di tutti gli animali del mondo è piena di buchi. Lo è anche la mappa dei singoli gruppi: quella dei molluschi, quella dei mammiferi, quella degli artropodi, e così via. Anche quella di tutte le piante possibili, realizzata alcuni anni fa, si riempie solo in due regioni ad alta densità, il resto vuoto. Come mai?
Sembra che l’evoluzione abbia esplorato sin qui soltanto un piccolo sottoinsieme del possibile, in barba a tutte le nostre idee di progresso, efficienza, ottimalità, teleologia. Le forme di vita si ammassano attorno a pochi punti salienti, come falene attratte dalla luce, e tutto il resto rimane dominio dell’impossibile, dell’improbabile, o del possibile non realizzato, un hic sunt leones popolato da creature per cui, per dirla sempre con Calvino, “la barriera tra mostri e non mostri saltava in aria e tutto ritornava possibile”.
Forse nelle regioni vuote si vive peggio, e la selezione naturale ha già fatto il suo sporco lavoro. Chi si avvicinava lì, cadeva in una buca di adattamento basso ed era spacciato. Ma l’ipotesi non convince. Talvolta le specie se la sono cavata in regioni non eccelse, ma accettabili. Vi sono poi intere zone del morfospazio che avrebbero garantito buone chance di sopravvivenza a chi le avesse esplorate, ma non furono mai raggiunte da alcuna specie. Possiamo allora ipotizzare che nessun animale abbia mai adottato quelle soluzioni a causa di vincoli genetici, strutturali o di sviluppo che ne precludevano l’accesso (quella che Calvino aveva chiamato “un’incompatibilità di fondo”). Oppure, come terza ipotesi, la contingenza storica non ha finora mai fatto arrivare nessuno da quelle parti. Il percorso di mutazioni genetiche giuste, per esempio, potrebbe casualmente non essersi mai realizzato, rendendo lacunosa l’esplorazione del morfospazio (l’altra ipotesi di Calvino: “un qualche motivo occasionale”). O ancora, la grande mietitrice chiamata estinzione di massa potrebbe aver ripulito quelle zone in modo piuttosto capriccioso. Fatto sta che molte specie avrebbero potuto essere e non sono state, o saranno un giorno, chissà. Del resto la parola natura è declinata al futuro, non al passato, come ciò che sta per nascere, e sembra più grande e fantasiosa di tutte le nostre teorie per comprenderla, come quella pietra rotolante che incombe sull’ignaro cavaliere indaffarato nelle sue imprese, sulla copertina di Una pietra sopra.
Ebbene, fu proprio quella giovane studentessa che a Madrid nel 1976 aveva letto Borges a scoprire e a mostrare per la prima volta che il possibile è più vasto del reale. Si chiama Frances Arnold e ha avuto un’idea: viaggiare nella grande biblioteca delle proteine, proprio come fa l’evoluzione. Il metodo è semplice parte da sequenze note di enzimi, le proteine che catalizzano reazioni chimiche, e introduce una mutazione nei geni che le codificano. Così esplora l’insieme degli enzimi potenziali che differiscono per una sola mutazione rispetto all’originale, proprio come nella biblioteca di Babele c’è Moby Dick, d’accordo, ma anche milioni di versioni di Moby Dick che differiscono per un singolo errore tipografico, cioè per una sola mutazione.
Arnold esplora dunque l’insieme degli stati potenziali di una classe di enzimi che distano un solo passo da ciò che di volta in volta è reale. Detta con Calvino, Frances Arnold sta immaginando la fortezza di tutti gli enzimi e prova a evadere, o addirittura a espanderla. Gran parte di quelle versioni modificate di enzimi funzionano peggio, e le butta via. Ogni tanto invece una mutazione migliora l’efficienza dell’enzima: allora la tiene e su quella Frances introduce un’altra mutazione, e così via di nuovo. Lei alleva molecole, come altri allevano cani e gatti.
Sta esplorando l’adiacente possibile di ogni situazione data. Se vagando per la fortezza ideale delle proteine si trovano enzimi, non esistenti in natura, che svolgono funzioni essenziali, allora significa che l’evoluzione non li aveva ancora assemblati e dunque il possibile è molto più grande del reale. Nessuno le crede. Frances prende il dottorato in ingegneria chimica a Berkeley e poi va al Caltech di Pasadena. I colleghi la scoraggiano: tutti gli altri cercano di costruire nuovi enzimi da zero, partendo dalle scarse conoscenze sulla loro struttura e su come funziona. Ma non arrivano a nulla. Nessuno progetta un cavallo da corsa partendo da zero, pensa Frances. Hanno un approccio ingegneristico top down, forse non hanno letto Borges, e nemmeno Darwin e nemmeno Calvino.
Lei insiste e negli anni novanta i suoi cammini casuali nella fortezza delle proteine possibili incontrano finalmente i primi risultati: nuovi enzimi che fanno cose mai viste in natura ma utilissime e funzionali, per noi e per l’ambiente (medicine, biocombustibili, vernici e detersivi senza inquinanti, cosmetici). Scopre il primo enzima che crea legami carbonio-silicio, senza l’aiuto di metalli. Si chiama evoluzione direzionata degli enzimi. Nel 2018 Frances Arnold vince un meritatissimo Premio Nobel per la Chimica.
L’applicazione del metodo della fortezza ideale di Calvino ci consegna, in conclusione, un messaggio epistemologico e uno filosofico più generale. Giocando con le fortezze ideali e con i modelli si fanno scoperte scientifiche fondamentali, e nessuno sa ancora esattamente perché. Per esempio, giochi da matematico con le geometrie non euclidee, ne costruisci un catalogo completo partendo da mutazioni negli assiomi, e dopo mezzo secolo un fisico scopre che una di quelle, nate scherzando con i postulati e con i mondi possibili, descrive la realtà effettiva dello spazio-tempo einsteiniano. Giochi con le matrici numeriche e dopo un secolo un fisico scopre che sono proprio quelle che servono per dare un ordine matematico alla meccanica quantistica. La realtà là fuori è molto più grande della nostra immaginazione, ma quando la mente umana inventa metafore e racconta storie riesce ad afferrarne brandelli inaspettati e meravigliosi.
Come scrisse Darwin, l’evoluzione è un intreccio di leggi di natura e di caso. Il risultato è un’incessante metamorfosi (Darwin la chiamava trasmutazione, non amando la parola evoluzione per via dei suoi residui finalistici), è una storia affascinante che ancora riserva sorprese. È una storia che ci riguarda da vicino, visto che un bel giorno nel morfospazio dei cordati fece la sua comparsa un imperfetto bibliotecario chiamato Homo sapiens. Ci sono stati, nell’evoluzione, molti modi di essere umani, altre specie umane, oggi estinte. Sappiamo che Homo sapiens non occupa alcuna posizione privilegiata nella grande biblioteca, sta in uno scaffale come tutti gli altri, in un esagono qualsiasi. Per dirla con Calvino, la nostra individualità deve arrendersi al mare indistinto dell’oggettività, giacché l’orizzonte umano non gode più di alcun privilegio.
Ciò nonostante, l’esito non deve essere un nichilismo disfattista, semmai un pochismo consapevole della contingenza di ogni forma di esistenza. “Io credo che il mondo esista indipendentemente dall’uomo” – diceva Calvino in un’intervista del 1967 – “il mondo esisteva prima dell’uomo ed esisterà dopo, e l’uomo è solo un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su sé stesso”. “L’uomo è solo la migliore occasione a noi nota che la materia ha avuto di dare a sé stessa informazioni su sé stessa”, scrive a Sebastiano Timpanaro nel 1970. E noi “scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi”.
Ecco che ritorna quel “sincero senso di responsabilità verso l’universo”. Noi, in fin dei conti, siamo ben poca cosa, ma una poca cosa che sa apprezzare l’infinita ricchezza del singolo istante al tempo t con zero e sa se non altro concepire quella fortezza ideale dentro la quale progettare tentativi di evasione. Da scienziati o da letterati, ai margini di un universo che non è fatto per noi ed è sordo ai nostri richiami, cerchiamo zone provvisorie di ordine nel caos tragico dell’esistenza. Come disse molto calvinianamente un Premio Nobel dimenticato, il biologo dei fotorecettori George Wald, all’MIT di Boston nel 1968, nello stesso periodo in cui nasceva il progetto cosmicomico di Italo Calvino: che cos’è, dopo tutto, l’umanità? È il modo escogitato dalle stelle per conoscere sé stesse.
Testo della relazione "Calvino e il principio della fortezza ideale" tenuta al convegno "Calvino guarda il mondo" presso l'Università Sapienza di Roma il 19 ottobre 2023