Lavoro 2.0
Si fa un gran parlare, nell’ambito dei discorsi sull’innovazione sociale, delle cosiddette “nuove forme di lavoro”. Viviamo una sempre più visibile trasformazione del mondo del lavoro che mette al centro dei processi di produzione del valore dinamiche strettamente culturali. È il risultato di un processo iniziato con l’“industria culturale” di adorniana memoria e che arriva ai giorni nostri con un’eredità pesante e controversa fatta di lavoro “creativo”, comunicazione come modo di produzione, società dell’informazione.
Questa trasformazione, tuttavia, non è accompagnata da un contemporaneo mutamento delle modalità di offerta e ricerca di lavoro. Soprattutto il lavoro non è “mutato” nei modi in cui si svolge: lavorare con la cultura e nella cultura ha per sua stessa natura una logica diversa di gestione del tempo e dello spazio. Necessita della coltivazione del tempo libero, essendo ontologicamente costruito sulla “passione”. In definitiva, mette a valore universi culturali e di significati nei modi più disparati, chiedendo al lavoratore una professionalizzazione instabile, propensa al cambiamento e mai uguale a se stessa. Logica vuole che il classico lavoro d’ufficio, lunedì/venerdì per otto ore consecutive, non sia la forma più appropriata per questo tipo di produttività. Da qui nascono due movimenti: la “reazione” – che si traduce con lo sfruttamento delle forme del precariato – e la “rivoluzione” – che si rivela nell’esplosione del lavoro autonomo dei cosiddetti “freelance”. Il tutto nella proliferazione di figure professionali tra loro sovrapponibili e confondibili, con poche differenze qualitative e di skills fra i singoli lavoratori, per un mercato che è ormai incapace di coniugare razionalmente la domanda e l’offerta.
Qui entra in gioco il “grande attore”, la Rete, attraversata e incardinata sui temi del lavoro. Uno dei principali social media – LinkedIn – è esplicitamente dedicato alla ricerca di lavoro. Ma anche Twitter e Facebook, così come i blog, sono ormai diventati strumenti efficaci e imprescindibili di pratiche di self branding attraverso cui costruirsi un profilo professionale credibile, e dunque una carriera, grazie alla costruzione e alla gestione della reputazione. Fare self branding significa operare sulla propria professionalità come fosse un brand, al fine di creare attorno a se stessi un seguito e un “marchio” che contraddistingua la propria professionalità. Questo si realizza attraverso piccole e grandi azioni per cui il Web è il terreno ideale in quanto rapido, economico, reticolare; ad esempio, creare un blog nel quale si racconta la propria attività e si discute dei principali argomenti legati alla professione in questione, e in questo modo iniziare o mantenere relazioni con chi opera già nel settore e mettere “in vetrina” le proprie idee e il modo di agire nella professione. Tutto questo serve ad “accumulare” reputazione, che sembra essere sempre più una moneta e un asset da capitalizzare.
Una pletora quasi interminabile di siti delle più svariate fattezze offre non solo annunci di lavoro (quello che si può chiamare “lavoro 1.0”) ma anche, e soprattutto, possibilità di postare il proprio profilo e beneficiare di punteggi di reputazione personale e professionale (quello che possiamo definire il “lavoro 2.0”).
Che fare, dunque, potremmo chiederci? Tantissimo, da un punto di vista pratico. Ma la cosa che serve subito, e che il discorso sull’innovazione sociale può portarci “in dono”, è un cambio di mentalità. Domanda e offerta di lavoro si devono adattare ad un contesto non più lineare ma reticolare. Ci sono professioni per cui il meccanismo tradizionale della ricerca di lavoro attraverso annunci, invio di curriculum, professionalizzazione per titolo di studio semplicemente non funziona più. La Rete rende visibile il fatto che la struttura produttiva industriale tradizionale non è più adatta per le professioni che vivono in simbiosi con il Web e la cui natura è ontologicamente non-lineare, reticolare, progettuale. Pensare al lavoro dei prossimi decenni significa, in termini socio-culturali ed ancor più politici, immaginare un sistema che incorpori queste dinamiche e le renda funzionanti e produttive. La realizzazione e la comprensione profonda di questi mutamenti è una delle sfide dell’uscita dalla Seconda Grande Depressione che stiamo vivendo.
Alessandro Gandini
Twitter: @afrontiercity